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mercoledì 24 gennaio 2018
Il populismo non spaventa più il vertice di Davos
Lo scorso anno la paura dominante al vertice di Davos era costituita dal possibile avvento dei partiti populisti in Europa e, di conseguenza, dei loro effetti sugli aspetti economici mondiali. Un anno dopo il pericolo populismo è stato parzialmente scongiurato, pur restando una minaccia, anche se non del tutto dato che le elezioni italiane sono imminenti. Certo la maniera di governare di Trump, da un lato è apprezzata per le sue facilitazioni fiscali alle imprese, ma, da un altro punto di vista, l’impostazione nazionalista, che prevede, come annunciato in campagna elettorale, la negazione della globalizzazione, desta timori consistenti nei fautori del commercio mondiale. Del resto appare impossibile non leggere nella volontà di chiusura dell’inquilino della Casa Bianca un chiaro segnale di populismo inteso come rifiuto dello scambio economico inteso anche come scambio culturale ed una volontà di accusare altri dei propri limiti produttivi e sociali. Questa politica, però, non viene portata avanti con l’intenzione di redistribuire l’eventuale ricchezza procurata ad una platea di persone il più ampia possibile, ma viene barattata con la crescita di posti di lavoro, spesso non qualificati, con salari contenuti e basso livello di diritti. Sembrerebbe quasi una strategia voluta per aumentare un consenso politico basato sulla politica contraria al diverso, individuato come l’origine dei problemi, anche economici, e sull’accettazione di supposti vantaggi, peraltro minimi, percepiti non come negativi a causa della compressione dei diritti, ma una sorta di aiuto di tipo paternalistico. Se questi aspetti del populismo sono veritieri, ed in parte lo sono sicuramente, si può comprendere come gli abituali frequentatori di Davos vedano nel populismo, superate le diffidenze iniziali, una opportunità per consentire una crescita dell’economia attraverso il risparmio dei costi di produzione. Certamente la storia che il populismo fosse una sentimento politico nato dalla base delle società è un fatto a cui ben pochi hanno creduto: per la crescita di questi movimenti, infatti, occorre l’appoggio, in maniera chiara o nascosta, dell’establishment. Quello che più sembra preoccupare il vertice è che il numero di adesioni ai movimenti populisti, cresca di pari passo con il tasso di diseguaglianza, prodotto proprio dalle politiche economiche adottate negli ultimi anni. Ad impensierire è che ad indirizzare le masse verso il populismo sia, cioè, un motivo che è contiguo alla finanza e che ciò possa costituire un ostacolo al controllo sociale. La soluzione è quella di ripensare le tendenze della crescita verso una maggiore inclusività, magari destinando una percentuale di quota maggiore di ricchezza generata ai ceti sociali che non fanno parte di quelle parti sociali che godono di rendite di posizione o vantaggi consolidati. Una quota non certo enorme e quindi equa, ma che fornisca la percezione di un piccolo cambiamento di direzione in maniera di esercitare il controllo in maniera discreta e mantenendo le leve del potere in maniera ben salda. Ricondotto in una dimensione nella quale è possibile esercitare una gestione consona a particolari interessi, il fenomeno del populismo può essere visto in un’ottica differente da quella del pericolo sociale e diventare uno strumento funzionale ad una certa visione di sviluppo economico. Probabilmente in certi ambienti esiste la consapevolezza che anche gli stravolgimenti politici, che potrebbero essere interpretati come negativi, non siano poi così nocivi alla crescita economica, del resto la velocità di decisione è considerata spesso un aspetto decisivo della riuscita delle operazioni economiche e non è un caso che in un regime dittatoriale come quello cinese si registrino le percentuali più elevate di performance dei tassi di crescita. In Europa ci sono i casi di Polonia ed Ungheria che potrebbero essere studiati in tal senso ed anche la Turchia di Erdogan, se riuscisse ad affrancarsi da certi atteggiamenti estremi, potrebbe diventare un laboratorio dove comprendere se il populismo così spinto può essere utile alla questione economica.
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