La guerra dei dazi iniziata da Trump, non poteva
essere circoscritta alla sola azione della casa Bianca. Dopo le minacce europee
sono arrivati gli avvertimenti cinesi, ben più pesanti e con implicazioni
future in grado di ripercuotersi sull’intera economia mondiale. Le misure
proposte da Trump riguardano l’introduzione di dazi del 25% sull’importazione
delle merci provenienti dalla Cina, per un valore di circa cinquanta miliardi
di dollari. Se queste misure venissero attuate riguarderebbero 1300 prodotti fabbricati
in Cina, tra cui apparati per le telecomunicazioni e per l’automazione
industriale; secondo Washington la ragione è la violazione della proprietà
intellettuale statunitense, cioè gli USA accuserebbero la Cina di produrre
parte dei suoi beni tecnologici, tra cui i più sofisticati ed avanzati,
copiando, con qualche variazione, i
brevetti americani. La questione, vista da questo punto di vista, è di
difficile soluzione perchè diverse industrie americane hanno spostato la
produzione materiale dei propri prodotti proprio in Cina ed è stato inevitabile
che ciò abbia generato un indotto produttivo capace di crescere proprio sulla
base di quanto appreso dalla collaborazione con le industrie americane. Dal
punto di vista della concorrenza le merci cinesi costano meno per il minore
costo della manodopera, un argomento comunemente usato dalle indutrie
statunitensi, e non solo, per giustificare la delocalizzazione. Trump ha usato,
in campagna elettorale, in modo massiccio la protezione del lavoro americano e l’unico
modo per farlo, mantenendo inalterati i salari, è quello di innalzare barriere
doganali tali da provocare un prezzo maggiore per le merci cinesi. La
giustificazione della violazione della proprietà intellettuale per
l’applicazione dei dazi appare, in questo contesto, una scusa per l’introduzione
di barriere doganali intesi, sia come strumneto funzionale alla politica
interna, che come strumento di politica economica collocata, volutamente, al di
fuori dell’attuale modello di globalizzazione, che Trump osteggia soltanto
quando gli conviene. Nel quadro della
politica internazionale appare evidente che l’introduzione dei dazi doganali
non sia, però, soltanto una manovra economica, ma che riveste anche e , forse,
sopratutto, aspetti di contrasto sovranazionali. Proprio per questo la risposta
cinese è obbligata: sia come tutela dei propri prodotti, che come
interpretazione del ruolo della grande potenza di fronte alla platea
internazionale. L’intenzione di Pechino è quella di contrapporre misure
analoghe verso i prodotti americani, ma in modo mirato per colpire quegli stati
che maggiormente hanno fornito il proprio sostegno elettorale alla elezione di
Trump a presidente degli Stati Uniti. Secondo questo schema saranno colpiti gli
stati che fondano la loro economia sull’allevamento e sulle colture agricole,
cioè quegli stati che fanno parte della fascia centrale della federazione
statunitense. Al di fuori di questi obiettivi rientrerà anche la California,
sebbene non abbia contribuito all’elezione di Trump, perchè è lo stato
americano più importante economicamente e perchè in questo territorio hanno
sede le principali aziende tecnologiche degli USA. Si comprende come la tensione tra i due paesi
vada aldilà del fattore economico e sia incentrata sull’approccio conflittuale
voluto da Trump per contrastare l’avanzata della Cina, coniugata all’esigenza
di guadagnare consenso interno. Tuttavia sarà interessante verificare come le
ricadute di queste iniziative, primo fra tutte la caduta degli indici
borsistici, potrà produrre delle reazioni negative, che potrebbero superare
quelle attese come positive. L’atteggiamento cinese appare, comunque maggiormente
improntato a restare, almeno in queste prime fasi, all’interno del contesto
ufficiale: rientra in questa strategia l’intenzione di Pechino di rivalersi
sugli USA di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio, per rivalersi
contro Washington per la violazione dei principi fondamentali
dell’organizzazione. L’impressione è che stiamo assistendo soltanto ai primi
episodi del conflitto, si tratta ancora di fasi interlocutorie, che, tutavia,
annunciano dei probabili sviluppi molto pericolosi per la tenuta economica
mondiale e per gli equilibri geopolitici generali.
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