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martedì 12 marzo 2019

Bruxelles e Londra discutono sulla frontiera dell'Irlanda del Nord

Ad ormai poche settimane dalla data del 29 Marzo, il Regno Unito e l’Unione Europea provano a trovare un accordo che possa essere, almeno parzialmente, soddisfacente per entrmabe le parti. La questione più rilevante è quella della frontiera tra Eire ed Irlanda del Nord, perchè investe problematiche sia economiche che sociali. Quest’ultimo aspetto è molto temuto da per la stabilità nella regione dell’Ulster a lungo martoriata dalle tensioni tra cattolici e protestanti. Un ritorno della frontiera è ritenuto pericoloso per una zona nella quale i problemi legati ai rapporti tra gli appartenenti alle due confessioni religiose sono sempre considerati potenzialmente critici. Dal punto di vista economico il ripristino della frontiera ha generato il timore, negli euroscettici, di obbligare il regno Unito ad una permanenza  in un asorta di unione doganale con Bruxelles, che impedirebbe, di fatto, accordi indipendenti con paesi terzi, da parte di Londra; ciò rappresenterebbe il mancato compimento di una delle questioni principali, che hanno contribuito alla vittoria del referendum, per chi ha volutouscire dall’Unione. La soluzione raggiunta tra la premier inglese ed il presidente della Commissione europea non è tuttavia definitiva e permette di evitare il ripristino della frontiera non in maniera definitiva ma a tempo, per dare modo alla nazione britannica di accettare la situazione. Questa soluzione provvisoria potrà entrare in vigore alla fine della fase transitoria dell’uscita da Bruxelles, fino alla fine del 2020 e, sopratutto, in attesa di un accordo tra le due parti, che possa evitare una uscita inglese  senza alcun accordo condiviso. La percezione, che il problema della frontiera irlandese rappresenti l’ostacolo principale per la definizione della questione in maniera totale, è che attualmente sia l’argomento più centrale della discussione, tuttavia, dietro questa trattativa appare in modo continuo, la spaccatura della società politica inglese, che percorre anche in maniera trasversale i due principali partiti. La profonda incertezza che attraversa la scena politica britannica obbliga i ventisette paesi dell’Unione a cercare di interpretare la situazione di Londra, ma con la quasi certezza, che se dovesse fallire anche questa proposta non ne seguirebbero altre e la strada dell’uscita senza accordo resterebbe l’unica opzione valida. Si tratta, comunque, di una soluzione che scontente ambo le parti, ma che danneggia in maniera maggiore il Regno Unito, dove la spaccatura non è solo politica ma anche sociale, come l’esigua distanza tra i due voti del referendum ha dimostrato. Questa percezione ha sollecitato da più parti la ripetizione del referendum, ma questa ipotesi non è stata mai presa in considerazione dalla premier in carica. Tuttavia i parlamentari inglesi non riescono ad uscire dall’impasse legislativa in cui sono finiti: concorrono a questa situazione veti incrociati dovuti all’appartenenza dei rispettivi partiti, posizioni intransigenti per dovere del collegio elettorale ed altri comportamenti molto lontani dalla responsabilità politica che sarebbe necessaria. La mancanza di una mediazione efficace, ha, poi, fatto il resto, ma quello che emerge è l’assenza degli interessi comuni, che dovrebbe essere ricercata e raggiunta, sulla base di compromessi in grado di garantire un minimo di interessi comuni, che al contrario, è ben distante da essere assicurato. Quella che emerge è una classe politica che va incontro al fallimento della nazione senza avere la coscienza di quello che potrà succedere. Quando il paese sarà letteralmente impoverito da questa decisione, con l’aumento della diseguaglianza a livello esponenziale, allora si verificherà la caccia ai responsabili, tuttavia ciò avverrà senza alcun successo, perchè il tutto sarò contraddistinto da una mediocrità della classe politica, incapace di assumersi le proprie responsabilità, una condizione orami troppo comune in tutto il continente.  

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