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martedì 6 agosto 2019
Il ritorno della guerra commerciale tra USA e Cina rischia di portare alla recessione mondiale
La tanto sperata tregua commerciale tra Usa e Cina, non solo si allontana ma diventa molto concreto il pericolo che non possa essere raggiunta, almeno in tempi brevi. La mossa della scorsa settimana di Trump, che ha evidentemente voluto inasprire la contesa con una tattica spregiudicata, ha imposto nuovi dazi sui prodotti cinesi per circa 300 miliardi di dollari: il risultato è che tutte le esportazioni provenienti da Pechino verso gli Stati Uniti sono stati sottoposti a tariffe doganali ancora più elevate. Probabilmente nella tattica della Casa Bianca vi era la volontà di ribadire la supremazia americana e l’intenzione di riequilibrare una bilancia commericale ritenuta troppo a favore dei cinesi, essenzialmente per difendere i prodotti americani. Non aspettarsi, però, una reazione del governo di Pechino sembra una errata valutazione dovuta ad un eccesso di sicurezza e di supremazia da grande potenza,che non appare più giustificata nei confronti del paese cinese. Pechino, anche se lo smentisce pubblicamente, ha operato una svalutazione della propria moneta, che è scesa ad un cambio al di sotto del valore di sette yuan per dollaro. Malgrado la smentita ufficiale della Banca centrale cinese, non pare possibile che questa risposta venga direttamente dal governo di Pechino, come reazione diretta ai provvedimenti di Trump. Dalle reazioni del presidente americano, non si può non cogliere una rabbia mista a sorpresa, che ha avuto come bersaglio la Cina, esplicitamente accusata di manipolazione dei cambi. Il segnale inviato da Pechino contiene una duplice valenza: la prima costiuisce, all’interno dello schema deteriorato che si è ormai instaurato tra i due peasi sul tema della guerra commerciale, della doverosa ed obbligata risposta che vuole sottolineare come la Cina non intenda mostrarsi timorosa nei confronti delle azioni americane, la seconda, appare di natura maggiormente tecnica, e rappresenta l’intenzione di rendere più complicate le esportazioni di prodotti americani verso il paese cinese, a causa dell’innalzamento del prezzo provocato dal deprezzamento della moneta della Cina. L’articolazione della risposta cinese non si è limitata alla sola svalutazione della moneta, ma ha riguardato anche il blocco dei prodotti agricoli americani, che, in maggioranza provengono dagli Stati federali dove Trump riscuote il maggiore gradimento. In generale la politica dei dazi americani, che poteva avere qualche giustificazione su temi specifici, sembra essere stata attuata in maniera esasperata, conforme, peraltro, allo schema che Trump ha instaurato nelle relazioni internazionali: utilizzare una tattica dove l’azione iniziale è sempre sovradimensionata, per poi ridursi parallelamente al conseguimento dgli obiettivi. Questo schema può funzionare, ma non sempre, con soggetti più deboli, per questioni relative agli armamentie per problemi relativi a dispute diplomatiche; ma non può funzionare in campo economico con soggetti più forti come l’Europa ed ancora meno con la Cina, che dispone di una serie di possibilità di risposta capaci di mostrare tutti i limiti dell’azione di Trump. Il concetto è che l’azione esasperata preferita alla diplomazia ed alla trattativa producono situazioni sfavorevoli per entrambi in contendenti, che, nel campo economico, si ripercuotono a livello globale, rischiando di innescare una recessione mondiale. Del resto se le risposte cinesi hanno provocato una sofferenza per le industrie americane, la svalutazione dello yuan avrà conseguenze altrettanto difficili per le imprese della Cina, che sono indebitate in valuta statunitense e che avranno pesanti ripercussioni sulle loro strutture finanziarie. La Cina ha sacrificato il controllo della svalutazione per avere una risposta più forte ai dazi commerciali di Trump, ma ciò può innescare, già nel breve periodo, una fuga di capitali, alla quale Pechino può rispondere iniettando nel sistema altra valuta, grazie alle grandi disponibilità finanziarie di cui dispone, tuttavia esiste sempre l’alto livello di indebitamento delle istituzioni locali, che non è conteggiato nel debito pubblico nazionale e che può costituire un fattore di forte destabilizzazione qualora l’incidenza dell’alto valore del dollaro sul sistema cinese permanga per lungo tempo. Risulta chiaro che in una situazione di stress continuato le ricadute sul sistema globale della contesa tra le due maggiori potenze economiche, potrebbero provocare vittime tra paesi con problemi finanziari e mandare in recessione anche economie più floride, che stanno già avvertendo segnali di compressione della crescita. Una questione di puntiglio, che determini il permanere di questo scenario, non conviene proprio a nessuno, se non ad isolati speculatori: ma non sembra essere questo l’obiettivo di Washington e Pechino, che dovranno rivedere al ribasso i propri obiettivi politici per non danneggiare quelli economici; non solo i loro ma anche dei loro alleati.
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