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mercoledì 22 aprile 2020

In lieve calo le condanne a morte, ma la pena capitale è usata per combattere il dissenso politico

Il rapporto di Amnesty International sull’applicazione della pena di morte segnala una lieve diminuzione dei casi che scendono dai 690 casi del 2018 ai 654 del 2019, si tratta di dato percentuale che si attesta al cinque per cento; un valore che è certamente positivo, ma che è anche un numero percentuale ancora troppo contenuto e, che, soprattutto, segnala come l’abolizione definitiva di questa pena sia ancora lontana. Sebbene la maggioranza delle nazioni del mondo che abbia abolito la pena capitale dai loro ordinamenti giudiziari sia 106, in altri 142 paesi, pur esistendo sulla carta, la pena di morte non viene più applicata di fatto. Restano venti stati nazionali che continuano ad usare la condanna a morte come pena massima presente nei loro ordinamenti. Per alcuni venti stati sono una minoranza, ed in effetti, il dato matematico dice così, ma, relativamente, ad una valutazione di merito si tratta ancora di un numero considerevole; se poi si vuole considerare circa l’importanza a livello mondiale di alcuni di questi stati, la valutazione non può essere preoccupante. Certo ogni vita umana è importante, ma il fatto che le condanne a morte avvengano in paesi che si propongono come nazioni leader sulla scena mondiale, come USA e Cina, assume un giudizio contrastante circa la conciliazione dei propositi di grande potenza con il rispetto dei diritti. Non che questo elemento rappresenti una novità, ma, semmai, una tragica conferma. C’è da dire, piuttosto, che si sta evidenziando come l’applicazione della pena di morte in sempre più stati è contraddistinta da una maggiore segretezza, che segnala la volontà di non scontrarsi con opinioni pubbliche, sia interne, che internazionali, sempre più ostili a questa pratica. Un aspetto inquietante è rappresentato dall’incremento dell’applicazione della pena di morte non reati comuni, ma per reati politici: l’uso dell’eliminazione fisica degli oppositori al potere sta diventando una costante spesso accostata alla tortura ed a processi iniqui. Questa tendenza è presente, come dato comune, in tutti quei paesi dove si è registrato un aumento dei casi della pena di morte, si tratta di ordinamenti statali dove la democrazia è assente e che hanno inasprito la lotta al dissenso interno con metodi sempre più violenti. Infatti Cina (migliaia di casi), Iran (almeno 251), Arabia Saudita (184), Iraq (almeno 100) ed Egitto (almeno 32) sono le cinque nazioni che hanno usato di più la pena capitale, tuttavia i dati del paese cinese non sono precisi proprio perché Pechino li considera segreto di stato, evitando così di pubblicizzare sulla scena mondiale un dato che contribuirebbe a peggiorare l’immagine della Cina nel mondo. Anche sui dati ufficiali degli altri regimi si hanno consistenti dubbi sui numeri comunicati, che vengono stimati come inferiori a quelli reali, con motivazioni analoghe a quelle che vengono presunte per la Cina. Altri stati come Corea del Nord e Vietnam mantengono segreto il numero delle condanne a morte. Quello che risalta è l’uso politico della condanna alla pena capitale come mezzo di contrasto del dissenso, ciò può assumere anche un significato di difficoltà dei regimi che insistono in queste pratiche, ma il dato preoccupante è il continuo rapporto, peraltro obbligato, degli stati occidentali con questi paesi, che si allontanano progressivamente dai diritti civili e che non vengono sanzionati in nome di convenienze economiche. Se si vuole parlare di miglioramenti, viceversa, si registra il fatto che le esecuzioni sono al minimo da dieci anni, merito delle diminuzioni avvenute in paesi come Giappone e Singapore e dall’assenza di esecuzioni in Afghanistan per la prima volta. Da registrare le sospensioni anche a Taiwan e Thailandia. Kazakistan, Russia, Tagikistan, Malesia e Gambia. Gli stessi Stati Uniti segnalano il New Hampshire, come il ventunesimo stato federale dove non è più vigente la pena di morte ed il caso della California, dove c’è il maggior numero di condannati a morte in attesa di esecuzione, che, tramite il suo governatore, ha annunciato una moratoria.

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