Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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sabato 29 gennaio 2011
La Palestina riconosciuta dal Paraguay
Lo stato Palestinese è stato riconosciuto dal Paraguay come stato libero ed indipendente all'interno delle frontiere del del 1967. Il processo di riconoscimento della Palestina come stato è un processo ormai avanzato nel continente sudamericano, sono infatti già dodici gli stati che hanno formalmente compiuto il passo diplomatico del riconoscimento ufficiale; mancano soltanto Uruguay, Suriname e Colombia. I primi due procederanno al riconoscimento durante il 2011, mentre per la Colombia non è previsto alcun passo in questa direzione perchè Israele è ritenuto un alleato militare strategico. I dirigenti palestinesi hanno investito molto lavoro diplomatico per aumentare il riconoscimento del proprio stato, infatti l'aumento del numero dei riconoscimenti è giudicato essenziale per le loro rivendicazioni davanti al consiglio di sicurezza dell'ONU. Questa soluzione è da intendersi come via pacifica alla costituzione dello stato palestinese e dovrebbe essere incoraggiata da tutto il mondo diplomatico mondiale per porre fine all'annosa questione con israele. La costituzione dello stato palestinese sarebbe una pietra miliare per scongiurare il pericolo dell'uso dell'opzione militare. Da rilevare l'omogeneità di comportamento degli stati sudamericani che, sebbene in maggioranza siano alleati degli USA, dimostrano una certa indipendenza nella politica estera, testimone di una sempre maggiore autonomia dei paesi del continente, impensabile fino a due decenni addietro.
Argentina e Brasile si alleano per il nucleare pacifico
Argentina e Brasile diventeranno il nuovo polo nucleare del sud america. La carenza delle risorse energetiche obbliga i paesi a sganciarsi sempre più dal giogo petrolifero, inoltre la lotta all'inquinamento atmosferico sta diventando sempre più una bandiera dietro la quale crescono i seguaci. Argentina e Brasile intendono unire gli sforzi e sfruttare le sinergie di un'alleanza tesa a costruire a medio termine un reattore nucleare che garantisca una certa indipendenza energetica per i due paesi. Nell'immediato è presente la volontà di iniziare un percorso comune di ricerca sfruttando le conoscenze maturate da Buenos Aires per la costruzione di reattori nucleari e le risorse presenti nel colosso brasiliano. Naturalmente nell'accordo viene più volte sottolineata la natura pacifica della ricerca comune, anche in forza dell'adesione dei due paesi alla rinuncia alle armi atomiche. E' significativo che i capi di stato dei due paesi che hanno portato alla firma dell'accordo siano due donne; l'accordo di natura economica mira a proiettare i due paesi all'avanguardi della risoluzione del problema energetico ma pone anche interrogativi di tipo diplomatico su iniziative analoghe portate o che saranno portate avanti da altri paesi. Il caso dell'Iran è esemplificativo, tuttavia la discriminante è la rinuncia esplicita all'arma atomica e la disponibilità continua ad ispezioni di organizzazioni sovranazionali che certifichino i fini pacifici della ricerca e dello sviluppo dei progetti. Dal punto di vista geopolitico appare assai rilevante l'evoluzione dei due paesi più importanti della regione sudamericana, il sudamerica investe risorse per diventare sempre più protagonista e restare sul mercato globalizzato investendo in tecnologia avanzata, l'unico strumento possibile per sganciarsi dallo strapotere delle superpotenze.
venerdì 28 gennaio 2011
La sponda brasiliana per Obama
Il recente cambio al vertice del governo brasiliano rafforzerà le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Brasilia. La nuova presidente del colosso sudamericano ha visioni diverse rispetto al predecessore, visioni che collimano con la politica estera americana e sulle quali Obama intende sviluppare un dialogo sempre più fitto. L'aspetto più rilevante è il cambiamento circa la questione iraniana, Lula ha sempre mantenuto un aspetto di neutralità rispetto al problema nucleare di Teheran, sostenendo la legittimità per la repubblica teocratica di effettuare ricerche sullo sviluppo nucleare come fonte di energia alternativa, senza entrare nel merito dei possibili sviluppi militari. La Rousseff non ha la stessa opinione e teme l'atomica in mano al regime iraniano. Per Obama significa trovare un alleato importante, il peso specifico del Brasile è in notevole crescita, le riforme economiche volute da Lula hanno fatto salire la considerazione del paese verdeoro sia sul piano economico che su quello politico, premettendogli di ritagliarsi sempre maggiore importanza nella regione. La politica della nuova presidente pare tendere ad una maggiore importanza sulla scena politica internazionale proprio in forza della potenza economica. Il Brasile attuale ha laforza per imporsi anche tra i giganti che dominano la diplomazia mondiale. La forte personalità della nuova numero uno di Brasilia e dei suoi programmi ha già attratto molti consensi tra gli opinionisti internazionali in forza della sua visione dello sviluppo sostenibile, della ripartizione del reddito e della ricerca delle energie alternative e rinnovabili. Proprio per questo pare il naturale partner di Obama con il quale condivide gran parte della visione politica d'assieme. Inoltre per un paese come gli USA, sempre alla ricerca di alleanze per contenere lo strapotere cinese portare dalla propria parte il Brasile siginifica un successo di portata enorme sul piano diplomatico, economico ed in un futuro possibile anche militare. Su quest'ultimo piano è significativo l'acquisto proprio dagli Stati Uniti da parte del Brasile di una consistente partita di aerei da guerra per la propria aviazione militare. La prossima visita in Brasile di Obama suggellerà questi valori comuni in una relazione sempre più stabile.
giovedì 27 gennaio 2011
Il destino dei paesi in rivolta
Le rivolte che stanno caratterizzando i paesi arabi della sponda sud del Mediterraneo si stanno allargando, è di oggi il caso dello Yemen, dove la protesta è scesa nelle strade, mentre in Siria si chiudono i social network per evitare le comunicazioni tra la popolazione. Pare importante analizzare il momento storico, l'attuale, in cui si sviluppano questi moti di piazza in società e contro governi con caratteristiche differenti. Il dato comune è la crisi economica che ha fatto precipitare in situazione di povertà vasti strati sociali tra cui anche quelli che godevano del favore dei regimi; qui si innesta la cattiva gestione delle ricchezze di alcuni paesi colpiti dalle rivolte, Tunisia ma sopratutto Algeria sono ricche di materie prime e con una redistribuzione più equa avrebbero permesso un maggiore favore verso i governi in carica. Peraltro questi governi sono tutti caratterizzati da una negazione dei diritti civili, chi in forme più violente e repressive, chi in maniera più attenuata ed hanno un'altra caratteristica comune il sostegno occidentale, fornito più che altro per impedire l'avanzata al potere dei partiti mussulmani. Si tratta di una strategia politica comprensibile dopo gli errori fatti in nazioni come l'Iran ma con una attuazione fondamentalmente miope, giacchè non ha previsto una crescita in senso democratico dei paesi in questione e si è limitata al mantenimento dello status quo. La facilitazione portata da internet ha permesso alla popolazione di sfuggire, anche se parzialmente, al controllo delle autorità e della censura, consentendo una coordinazione dei manifestanti, i quali oltre alle cause di natura economica sono spronati dalla presa di coscienza di vivere senza i diritti democratici, grazie al continuo scambio di idee dovuti ai mezzi di comunicazione ed anche dal grande tasso di emigrazione verso i paesi occidentali. Ci troviamo di fronte a società in continua evoluzione, ma schiacciate, nella loro forma di rivolta, tra istanze politico economiche e religiose. Gli strati sociali sono attratti dalla vita occidentale dove sono assicurati i diritti politici ma contemporaneamente sono affascinati dalla tradizione religiosa ed ondeggiano tra voglia di modernità e tradizione. Entrambi le cose sono state negate dai regimi oggetto di rivolta, la modernizzazione culturale e politica è stata stroncata per il mantenimento dei ceti al potere e la tradizione religiosa è stata avversata perchè la laicità è più facile da arginare. Il risultato è che abbiamo paesi in rivolta dove a guidare gli insorti non si ha una classe dirigente preparata ad affrontare una transizione sia in un senso che nell'altro. Ciò potrà creare, a seconda del risultato, un pericoloso vuoto di potere che potrebbe essere riempito da movimenti estremisti con le conseguenze facilmente immaginabili. Sono proprio le possibili conseguenze, il destino che ne sarà, il tratto più comune tra tutti questi paesi in subbuglio: una incertezza totale per come andrà a finire, non si può cioè prevedere come per i paesi dell'Est europeo un finale democratico, qui l'incognita religiosa è troppo rilevante.
mercoledì 26 gennaio 2011
Obama rafforzato dal discorso dell’unione
Il discorso di Obama sullo stato della nazione ha riportato alla ribalta, tra gli altri, il tema della supremazia mondiale degli Stati Uniti. Su questo tema il popolo statunitense è molto sensibile, l'argomento permette di fare leva sull'unità della nazione e consente di trattare temi molto scottanti da prospettive differenti da quelle della polemica politica infuocata, che ultimamente ha caratterizzato la scena americana anche per l'irruzione del movimento dei Tea Party. Agli occhi di un europeo la questione della supremazia mondiale può sembrare un inutile orpello, residuato della guerra fredda, ma per gli americani è la chiave di volta per arrivare a parlare dei temi centrali tra cui quelli economici che in questo momento contraddistinguono la discussione. Obama ha illustrato il suo programma per confermare la leadership mondiale, ed i punti contemplano l'incremento delle infrastrutture, l'aumento della quota di PIL per scuola e ricerca per mantenere ed incrementare con sempre nuove soluzioni l'industria americana a livelli di eccellenza. Per reperire questi incrementi relativi ai capitoli di bilancio appositi il governo americano deve però diminuire altre voci di spesa che sono state individuate nella riduzione delle spese militari e nei contributi all'industria petrolifera. La destra avrebbe preferito la riduzione della spesa sociale, ma le due risposte differenti al discorso dello stato dell'unione hanno rivelato una profonda divisione tra Partito Repubblicano e Tea Party, che di fatto rafforzano il presidente in carica.
martedì 25 gennaio 2011
Sulla Corea
La trasformazione capitalistica, ma non democratica, della Cina ha, di fatto, causato l'inutilità del dinosauro nordcoreano. Le guerre più importanti non sono quelle militari nello scenario globalizzato ma sono quelle di natura economica; avere ai confini un burosauro comunista con l'economia bloccata al livello di sussistenza significa precludersi un potenziale mercato di notevole portata; non solo significa anche non potere disporre di una possibile manodopera a basso costo. Questo se la Corea del Nord intraprendesse da sola la strada della modernizzazione in senso capitalistico; ma questa evenienza è considerata poco probabile dalla stessa Cina: troppo ingessata la politica economica dei governanti di Pyongyang, troppo arretrata la loro visione, troppo indietro la totalità del tessuto culturale del paese tenuto di troppo basso livello dalle miopi strategie del governo. Ma esiste un'alternativa, forse meno conveniente per Pechino, ma capace di generare un indotto non certo indifferente. Si tratta di scaricare i costi di questo processo sulla Corea del Sud mediante l'unificazione in un unico paese, una sola Corea. I dirigenti sudcoreani da tempo stanno pensando a questa soluzione sia per ragioni nazionalistiche sia per ragioni economiche, anche se c'è chi all'interno del paese giudica troppo costosa l'operazione: anche per una tigre asiatica con il pil in aumento a due cifre l'esborso dello stato per la riunificazione sarebbe un salasso assai pesante (si pensi all'unificazione della Germania, dove la parte est non era certo così arretrata come la parte nord della Corea). A Pyongyang sanno di queste velleità di Seul e sono questi i veri motivi che hanno scatenato l'offensiva militare recente; quello che non si aspettavano era il progressivo sganciamento cinese, che aldilà di dichiarazioni ed operazioni di facciata con l'alleato nordcoreano, sta operando una strategia di allontanamento dalla parte nord del paese. La Corea del Nord non ha altri alleati a cui raccomandarsi e se questo isolamento si concretetizzerà con la progressiva diminuzione degli aiuti cinesi per il regime sarà la fine. Da considerare anche che la Cina non vede di buon occhio un paese, ancorchè alleato, ai suoi confini con la disponibilità della bomba atomica. La strategia Sudcoreana, invece, si gioca su due tavoli: sul primo cosciente delle esigenze cinesi di espansione commerciale punta alla riunificazione per offrire un mercato a due velocità al colosso di Pechino, parte nord in espansione e parte sud con un mercato più esigente perchè parte da condizioni economiche più floride, ma anche capace di un notevole interscambio economico. Molto interessanti anche i risvolti dell'altro lato del tavolo: gli USA. L'ambizione sudcoreana di un paese unito punta alla strategia verso l'america con maggiori implicazioni geopolitiche, giacchè vuole essere il maggiore alleato di Washington nella regione scavalcando il Giappone, senza tralasciare le aperture economiche anche in quella direzione. In conclusione la strategia sudcoreana appare spregiudicata ma con notevoli possibilità di riuscita perchè tocca interessi graditi ad entrambi gli attori più forti sulla scena, ma attenzione, il nord ha l'atomica ed il regime che non si rassegna ad abdicare potrebbe tentare qualche brutto colpo di coda; solo la diplomazia non avventata e la giusta pressione internazionale possono scongiurare pericolosi sviluppi.
lunedì 24 gennaio 2011
Commissione UE Albania per i disordini nel paese delle aquile
L'Albania, teatro recente di disordini legati ai problemi economici e politici del paese e candidato potenziale all'ingresso della UE, potrebbe essere oggetto di un inchiesta congiunta condotta da una commissione mista composta da rappresentanti del parlamento europeo e da parlamentari albanesi. La decisione non è stata accolta unanimemente dai componenti del parlamento del paese delle aquile, infatti l'opposizione ha disertato la votazione con il risultato di consegnare alla contestata maggioranza la decisione ed il merito di queto importante atto. Per la UE è un'occasione unica di potere esercitare il suo magistero con una duplice valenza: da un lato conoscere dall'interno la situazione di un paese già geograficamente e culturalmente in Europa e comunque destinato ad entrarvi ufficialmente in un futuro più o meno lontano, dall'altro lato si presenta una situazione che permette di risollevare un prestigio ultimamente un poco appannato. Una inchiesta condotta in modo imparziale che possa portare ad un risultato limpido e veloce potrebbe essere un peso da gettare sulla bilancia della diplomazia che conta, area dove ultimamente la UE non ha brillato per protagonismo. Per l'Albania aprire le porte in maniera così ufficiale ad un organismo così importante significa un modo per entrare dalla porta principale a contatto con le grandi organizzazioni internazionali e proporsi come partner accreditato per importanti sviluppi futuri. Resta sul tappeto la situazione di un paese che sfiora la povertà per una parte sempre maggiore della sua popolazione, un paese che non riesce ad attrarre in modo consistente investimenti stranieri per la difficile situazione relativa al problema della malavita e delle mafie sempre più diffuse grazie alla posizione geografica del paese vero e proprio crocevia di traffici internazionali di armi e di droga, un paese carente di infrastrutture che paga ancora lo scotto del lungo isolamento dovuto al contrasto del regime con l'URSS. Per la UE, seppure indirettamente sarebbe anche un momento da sfruttare per incrementare la cooperazione per risolvere, almeno in parte i problemi di cui sopra così che sia permesso completare il lungo processo di europeizzazione della penisola balcanica.
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