Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
Cerca nel blog
mercoledì 23 febbraio 2011
Il fattore della simultaneità nelle rivolte arabe
Si sono accostate le rivolte arabe alla caduta della cortina di ferro, ed in effetti, le analogie sono diverse; anche se i paesi del patto di Varsavia erano un blocco unito ed in forza di questa unione si capisce meglio la caduta all'unisono di quel mondo. Diversi i casi del nord africa e degli altri paesi arabi, uniti solo dal fattore religioso, in senso lato, ma poi diversissimi, sia dal punto di vista socio-culturale che economico. La riflessione viene spontaneacirca i fattori scatenanti che hanno provocato la quasi simultanea rivolta dei paesi arabi. E' innegabile che la mancanza di diritti civili e politici, in una situazione contingente di crisi mondiale, che ha determinato l'aumento della povertà, sono stati fattori scatenantiper le crisi in atto, quello che non è chiaro è la tempistica praticamente contemporanea dello scoppio delle stesse. Non può saltare agli occhi questo dettaglio: perchè ora? E se la simultaneità non è casuale esiste un soggetto che ha elaborato un progetto per quello che sta accadendo? Se le rivoluzioni andranno in una certa direzione il mondo avrà qualche dittatore in meno in zone chiave del pianeta, zone chiave dal punto di vista politico ed economico e questo è un dato di fatto. Resta da vedere come saranno riempiti questi vuoti di potere, il pericolo per la sicurezza del mondo è che non si inseriscano movimenti integralisti, un rischio non da poco, anche se, per ora, la parte religiosa delle rivolte pare predominante nella sola Cirenaica, negli altri stati la componente religiosa è solo una parte dei movimenti che partecipano alle rivolte. Quindi si può ipotizzare, con tutti i limiti del caso, che si sta andando verso forme di stato democratiche, anche se pare francamente precipitoso paragonarle alle forme mature dell'occidente; infatti spesso i garanti dell'ordine ristabilito sono i militari. Questo quadro, che potrebbe delinearsi, potrebbe convenire a chi teme che dittature ormai traballanti, vengano sostituite in toto da regimi integralisti e vede quindi con favore l'appoggio delle forze armate. Anche dal punto di vista economico è preferibile avere da trattare con governanti che garantiscano la stabilità con il consenso anzichè con il pugno di ferro. Sulla tempistica si dovrebbe pensare all'evoluzione delle situazioni mondiali, dove il pericolo nucleare iraniano e l'azione politica del regime teocratico pare avere schiacciato sull'acceleratore dell'accerchiamento di Israele e delle minacce all'occidente, inoltre in altre parti del mondo la minaccia integralista, Al Qaeda e Talebani in primis, restano un pericolo costante. La direzione dei paesi arabi in rivolta verso la democrazia toglie terreno sotto ai piedi ai movimenti islamici integralisti e va verso il possibile coinvolgimento di questi paesi nella sfera di influenza occidentale. Se la storia prenderà questa direzione i tempi non saranno comunque brevi, si stravolgeranno interi modi di vita e di pensiero e l'adattamento non sarà facile, ma si saranno sottratte intere nazioni alla dittatura ed al pericolo per l'occidente.
Cirenaica: uno stato islamico che può nascere dalla Libia
Dalla possibile dissoluzione della stato libico potrebbe nascere una nazione islamica: l'Emirato islamico di Libia orientale. Il territorio del nuovo stato andrebbe a coincidere con la zona della Cirenaica storica, con capitale Bengasi. Il problema della Cirenaica è sempre stata una costante nella storia libica, i suoi abitanti hanno sempre reclamato l'indipendenza, non solo da Gheddafi, ma anche, prima dal Re libico antecedente al dittatore, agli inglesi che l'amministravano come protettorato ed agli italiani che vi avevano imposto il regime coloniale. A Gheddafi hanno sempre rinfacciato la diseguale ripartizione della ricchezza petrolifera a favore delle altre regioni libiche ed hanno inseguito a lungo la soluzione federale come ripiego in grado di garantire almeno qualche forma di indipendenza. Da Bengasi, capitale della Cirenaica, è partita la rivolta che si è allargata a macchia d'olio nella Libia, ma che in Cirenaica ha il grosso del seguito, per le milizie di Gheddafi è stato da subito diffcile mantenere il controllo. Gli antichi rancori e la vicinanza con l'Egitto sono stati i propulsori delle manifestazioni di piazza, cui però ha contribuito in maniera rilevante la massiccia religiosità degli abitanti, tra cui molti integralisti. Nonostante le repressioni degli anni precedenti, autentici bagni di sangue, i fratelli musulmani non sono stati mai completamente sradicati, in questo probabilmente favoriti dal confine con l'Egitto che corre lungo il lato orientale cirenaico; ma ben più importante è il ruolo del Fronte Islamico combattente, già individuato in passato dal figlio del Rais, Seif Gheddafi, come nemico del regime, che nella primavera scorsa aveva tentato, invano, di coinvolgere in una sorta di accordo con lo stato libico. Il livello di penetrazione tra la popolazione cirenaica di questo movimento è elevato ed è quindi da ritenere come uno dei maggiori responsabili della rivolta. Per l'occidente la creazione di uno stato integralista praticamente ai suoi confini è motivo di allarme, il livello di tensione delle cancellerie aumenta, se è possibile, proprio in vista del concretizzarsi di questa eventualità. Eventualità cui l'occidente non attendeva e a cui non si è mai preparato, ma che rappresenterà, se dovesse verificarsi, una grossa novità nelle relazioni tra stati all'interno del bacino del Mediterraneo.
Le remore europee nella condanna di Gheddafi ed il mercato degli armamenti
Un rapporto dell'Istituto di Investigazione per la Pace di Stoccolma (SIPRI), spiega bene le remore e la lentezza dell'Europa nella condanna di Gheddafi. Esiste, o meglio è esistito, un fiorente rapporto commerciale di armi ed armamenti, dalle armi convenzionali ai dispositivi più avanzati, tra diversi paesi UE e la Libia. Quello delle armi con le dittature è un grosso punto nero della politica comunitaria che non è stata in grado di fare cessare le forniture verso quelle nazioni governate da regimi antidemocratici; l'attività lobbistica dei produttori di armamenti parte dalla pressione presso i governi nazionali ed arriva fino a Bruxelles con un'azione continua ed incessante. E' in gioco un vortice di denaro consistente, ed anche le relazioni diplomatiche risentono dei rapporti tra gli stati, anche sulla base di questi commerci. La questione non è nuova, ma l'attualità la riporta alla ribalta, denunciando una situazione che nell'Unione Europea, portatrice di valori democratici e civili, non dovrebbe esistere. L'occasione di riformare il commercio delle armi, che è un'industria patrimonio di diverse nazioni e che occupa diversi posti di lavoro, dal centro dell'Europa è fatto da non lasciarsi sfuggire. Non fornire più armi a regimi dittatoriali e che non garantiscono il rispetto dei diritti umani dovrebbe essere un obbligo, come un obbligo si impone la sua regolamentazione per evitare anche conseguenze più gravi, derivate dai rapporti che spesso si sviluppano tra dittature e terrorismo internazionale. E' chiaro che perdere il mercato delle dittature significa tagliare una parte consistente del fatturato degli armamenti, ma inserirlo in un quadro comunitario può ridurre questa perdita e generare insieme benefici indotti per la politica in generale.
martedì 22 febbraio 2011
L'Italia capro espiatorio di Gheddafi
La frase di Gheddafi contro l'Italia in altri tempi sarebbe suonata come dichiarazione di guerra; accusare un paese straniero di fornire le armi, razzi, ai ribelli dell'ordine costituito è più che una dichiarazione di colpevolezza. Solo che in questi anni che stiamo vivendo si può sparare a caso senza incorrere in alcuna sanzione nemmeno verbale. Perchè sparare ad alzo zero contro l'Italia, che ha usato un basso profilo nella questione libica? Perchè colpirla in un tantativo disperato di catalizzare un qualche consenso contro la rivolta montante? Gheddafi ha spesso usato la penisola come capro espiatorio di tutti i mali del suo paese, girando a suo piacimento versioni ed accadimenti di cui, alla fine, l'Italia non aveva alcuna colpa. In vari periodi della sua carriera di dittatore Gheddafi ha usato un qualche spauracchio contro il belpaese per trarne sempre un qualche vantaggio. La colpa dei vari governi italiani, probabilmente, è stato di compiacerlo in nome di una real politik interessata, che ha saputo furbescamente, trarre più di un tornaconto dalla Libia. E' chiaro che i vantaggi ottenuti non sono stati a costo zero, l'Italia, nei vari anni trascorsi ha pagato un tributo non indifferente in termini economici e politici alla Libia ed al mondo. Pare superfluo dire che l'Italia non ha fornito alcuna arma, ne alcun altro sostegno ai ribelli libici, ma anzi è stata sorpresa dalla rivolta; eppure il refrain di Gheddafi ritorna anche oggi in toni disperati, è solo un retaggio di un vecchio libico che ha sofferto, per trasmissione, la dominazione coloniale italiana o sono minacce velate ad un governo che alla fine non si è schierato ne con un lato ne con un altro? In effetti la dichiarazione delirante di Gheddafi appare come l'ultimo rigurgito di un potere nella fase finale, che spera in qualche modo di salvarsi con qualche coniglio dal cilindro, che purtroppo per lui esce dal cappello senza vita. L'Italia appare attonita dallo sviluppo della situazione, non è un fatto del solo governo, che qualche giustificazione pure ha, almeno per il solo amor di patria, ma che lascia tutta l'opinione pubblica tricolore pervasa da un senso di incertezza. Gheddafi probabilmente finirà la sua storia, ma per i libici l'Italia resterà sempre capro espiatorio, qualcuno da incolpare per quello che non funziona.
Libia ed Italia l'incognita delle future relazioni
Mentre l'ONU cerca di istituire un corridoio umanitario per permettere ai profughi della repressione libica di raggiungere zone più sicure, per la UE il problema è di preservare le coste italiane da un'ondata di profughi che potrebbe raggiungere le 750.000 unità. Se questa eventualità dovesse anche lontanamente verificarsi, sarebbe il collasso per Roma. L'Italia al momento misura le dichiarazioni bilanciando il proprio atteggiamente in attesa degli eventi, la sensazione è che la giusta preoccupazione la faccia da padrona negli ambienti governativi italiani. Per il momento una nave militare staziona in acque internazionali davanti alle coste libiche e le basi dell'aeronautica militare più vicine sono allertate. Aldilà delle normali procedure di sicurezza consuetemente attivate in questi casi, il momento viene vissuto con viva apprensione, tanto da allertare le istituzioni comunitarie. La UE ha deciso l'avvio della procedura di emergenza dell'agenzia Frontex che si occupa della gestione delle frontiere a livello comunitario. Per l'Italia si aggiunge la minaccia dei ribelli libici di tagliare le forniture di gas allo stivale a causa degli stretti contatti allacciati con Gheddafi e per la tardiva condanna delle stragi. Gli scambi economici Italia-Libia sono consistenti, l'Italia è il primo partner commerciale della Libia, e si è aggiudicata diversi appalti per la costruzione di infrastrutture e per l'estrazione del greggio libico; la Libia, tramite investimenti diretti e fondi a capitale libico, detiene diverse partecipazioni in importanti società italiane. Nel caso della caduta del regime di Tripoli, l'Italia dovrà reinventare le relazioni con la Libia, partendo verosimilmente da un punto svantaggioso per le strette relazioni con Gheddafi. Si tratterà di ricostruire da zero le relazioni tra i due paesi cercando di mantenere in vita gli accordi stretti con il regime precedente senza la certezza di essere più il partner principale.
Obama: crisi arabe e lotta all'antiamericanismo
Gli USA stanno valutando diverse opzioni per la crisi libica; mentre Gheddafi usa mercenari come cecchini per sparare sulla folla ed aerei dell'aviazione militare per bombardare i manifestanti, l'amministrazione Clinton pensa ad un intervento internazionale per evitare il protrarsi delle stragi libiche. Gli Stati Uniti hanno la concreta possibilità di scrollarsi di dosso l'antiamericanismo viscerale degli arabi inserendosi come protagonisti nella ricerca di una soluzione pacifica. Se questa strategia otterrà i frutti sperati, gli USA possono pensare di ribaltare il loro rapporto con la Libia fino a guadagnare un nuovo alleato. E' questo il programma che l'apparato di Obama sta studiando per accrescere il proprio peso specifico all'interno della parte sud del Mediterraneo cercando di fare mutare parere all'opinione pubblica araba. Quello dell'antiamericanismo è un problema molto sentito da Obama, che fin dall'inizio della sua elezione ha mutato l'indirizzo della politica estera statunitense, cercando di presentare lo stato a stelle e strisce sotto un'altra luce. Anche in Afghanistan, pur mantenendo un apparato militare consistente, sono state elaborate strategie di affiancamento all'azione bellica che hanno previsto un forte investimento per spese mediche e sociali, che hanno cercato di coinvolgere attivamente la popolazione locale. Le rivolte attuali, che pure hanno tra le altre anche una matrice integralista, si contraddistinguono per la richiesta di diritti civili a lungo negati; è questo il terreno comune che gli USA cercano di percorrere per affiancare e collaborare con le popolazioni arabe in rivolta. Gli USA hanno al loro arco una freccia molto importante essendo i creatori ed i distributori della nuova tecnologia che ha permesso, di fatto, le rivolte ed il loro successo. Facebook e Twitter sono già ambasciatori positivi degli Stati Uniti presso i giovani arabi che usano questi strumenti come i loro coetanei occidentali, quindi il mezzo della cultura, peraltro tanto temuto dagli integralisti islamici, può sfondare barriere fino ad ora rimaste serrate.
Cina e rivolte nei paesi arabi
Nel momento si sommovimento generale, con rivolte in corso e cambiamenti epocali, brilla il silenzio della nuova potenza mondiale. Non che si aspettasse che la Cina condannasse le dittature ed i loro metodi, dal momento che essa stessa fa uso di analoghi strumenti per soffocare il dissenso interno, tuttavia appare francamente strano che il colosso di Pechino non abbia speso neppure una parola per le crisi in atto. La scelta costante della politica estera di Pechino è sempre stata contraddistinta dalla non ingerenza degli affari interni degli altri paesi, ed anche in questo momento storico la direzione è mantenuta con un comportamento netto che non si discosta dalla consuetudine. Se la linea mantenuta è coerente con l'azione diplomatica consueta della Repubblica Popolare Cinese vi è però, un contrasto marchiano con la volontà di affermazione come potenza di livello politico, non solo economico, più volte ricercata da Pechino. Sicuramente vi è un contrasto in seno alla diplomazia cinese, mantenersi fuori dalla contesa significa non essere coinvolti in paragoni e giudizi, consentendo di non focalizzare anche sulla Cina il problema, già sentito sulla scena internazionale, del rispetto dei diritti umani; dall'altro lato l'assenza dall'azione diplomatica, in cui per il momento l'occidente gioca un ruolo centrale, ancorchè sottotraccia e non rilevante, priva la Cina della visibilità necessaria per accreditarsi come interlocutore alternativo. Viene insomma, per il momento, scelto un low profile che la dice lunga sulle reali intenzioni cinesi a guardare verso una democratizzazione del suo sistema. Ciò non può fare a meno di preoccupare l'intero panorama internazionale: continueremo ad avere a che fare con una nazione, che è la seconda potenza mondiale, che non intende intraprendere la via della democrazia.
Iscriviti a:
Post (Atom)