Politica Internazionale

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sabato 24 settembre 2011

Crisi dell'Euro: il punto della situazione

L'apprensione intorno all'euro è sempre maggiore. La difficile situazione greca, rischia di allargarsi ad altre realtà ben maggiori. Lo schema è quello di un gioco ad incastro, il mattoncino greco, ma anche portoghese ed irlandese, tengono attaccato al muro dell'euro la Spagna, prima e l'Italia, poi. Le due soluzioni che si hanno davanti sono esercitare un default controllato per Atene o cercare in tutti i modi di tenere la Grecia nella zona euro. La prima opzione potrebbe prevedere un ritorno alla dracma, che innescherebbe una inflazione della divisa greca, con conseguenze limitate, date la dimensione del paese, ma che costituirebbe una anticipazione di quello che potrebbe accadere in caso di default di nazioni più importanti. Sostanzialmente è quello che teme la Merkel, la speculazione, dopo avere affossato la Grecia, avrebbe obiettivi molto più alti, con l'Italia nel mirino. Un default italiano avrebbe conseguenze non solo europee ma mondiali. Il mercato italiano ha una particolare importanza per i produttori emergenti Cina e BRICS, una contrazione delle vendite e di conseguenza della produzione, stimate intorno al 10%, determinerebbero un grave ammanco, che si riverberebbe anche negli USA. Il problema è che non esistono abbastanza soldi nel mondo per salvare l'Italia in maniera immediata, possono essere studiate soluzioni dilatate nel tempo, però occorre vedere se vi è la volontà per trovarle. Che l'Italia possa farcela da sola, alle condizioni attuali, sia politiche, che economiche, pare francamente impossibile. Il pallino è così, in mano alla Germania, che, a sua volta, a due strade davanti. Uscire dall'euro e ripristinare il Marco, che avrebbe subito una super valutazione, con conseguenze nefaste per i prodotti tedeschi che subirebbero una impennata dei prezzi, bloccando sostanzialmente le esportazioni. Gli industriali tedeschi sono contrari a questa ipotesi che getterebbe in crisi le aziende tedesche, che si ritroverebbero con i magazzini pieni di merce invenduta e non potrebbero godere della valuta forte per acquistare nuove materie prime, avendo le linee di produzione bloccate. Quelli da convincere sono i ceti popolari, che la propaganda politica di alcuni partiti indirizza contro i debiti del sud europa, ed anche il settore finanziario e bancario, costretti a portare il peso economico dei debiti altrui. Il dibattito politico tedesco verte tra queste due tendenze, la posizione del cancelliere Merkel però, pare la unica responsabile, tenedo conto dei costi benefici, inannzitutto per il proprio paese ma anche per l'intero sistema europeo. E' chiaro che il governo tedesco, almeno per il momento, ha scelto la seconda strada rispetto all'uscita del marco, tuttavia non sarà facile resistere alle sollecitazioni sia interne, che esterne. Infatti ad essere contrari agli aiuti ai paesi del sud europa ci sono anche gli stati del nord ed anche i Paesi Bassi. Su questi contrasti si gioca il futuro non solo economico, ma anche politico dell'Unione Europea. Le titubanze degli euro scettici, che non vedevano di buon occhio un'unione monetaria senza il sostegno di una effettiva unione politica, si stanno avverando in pieno. A questo punto è necessaria una decisone drastica: chi non accetta una piena unione sia politica che monetaria deve essere messo fuori dalla UE. Chi vuole essere dentro deve accettare tutta una serie di regole che possono anche limitare la sovranità statale in favore di quella comunitaria. Solo così si potrà uscire dall'assioma che ha governato l'euro finora, che è stato quello di preoccuparsi essenzialmente di contenere il fenomeno inflattivo. Questo ha bloccato il fenomeno della crescita, anche nelle economie più forti, come quella tedesca, che ha tassi di crescita molto bassi. Questo dato è il più rilevante, dato che senza crescita economica gli stati non possono incassare denaro che può andare a coprire il debito pubblico, vero nodo del problema. L'euro, creato in un momento di grande inflazione, non ha saputo rispondere alle mutate condizioni dell'economia, questa rigidità giunta con l'elevato debito pubblico di alcuni stati, ha creato l'esposizione ai fenomeni speculativi.

venerdì 23 settembre 2011

Una proposta per ripensare la finanza

Il nodo cruciale è che non si ferma chi va per obiettivi a brevissimo termine. Il fattore tempo è sempre più decisivo e determinante, si è lasciato perdere il medio ed il breve termine, mentre sarebbe necessario procedere a lungo periodo. In questo l'informatica è stata dannosa, accelerando i tempi del lavoro ha aperto opportunità di velocizzare i tempi del guadagno. Questo è vero sopratutto per le borse ed i mercati, la febbre del guadagno velocissimo è la grande responsabile dell'avvitamento delle borse, chi specula è favorito dai mezzi tecnologici e dalla bassa velocità dei tempi di reazione degli organismi politici, poi le divisioni e l'incompetenza aggiungono carico. Ma il fattore tempo è la chiave di chi maneggia grandi capitali e sposta guadagni, facendo le fortune o le sfortune di aziende e stati. La dimensione democratica non può competere con queste regole, non gioca ad armi pari, con strutture compresse che fanno della velocità decisionale il loro punto forte. Di fronte ai disastri economici di questi giorni, di fronte all'enorme mole di denaro bruciata, occorre ripensare tutto il rapporto con la finanza, mediante il quale lo stato non può fare a meno di rapportarsi. Non potendo agire sugli orologi, una manovra equa potrebbe essere una forma di tassazione sui guadagni ottenuti spostando somme di denaro investite per acquistare azioni e dopo un dato tempo subito rivendute. L'intenzione di questa tassazione dovrebbe essere scoraggiare gli investimenti fini a se stessi, per incoraggiare gli investimenti durevoli che puntano sulla crescita dell'azienda su cui si è investito. Sembra una ovvietà, ma non la è. La misura non è una negazione del mercato, ma una manovra in favore degli investimenti reali che puntano alla crescita di una azienda, con investimenti durevoli. Si potrebbe pensare anche ad una diminuzione della tassazione dei dividendi direttamente proporzionale al tempo della tenuta dei titoli nel portafogli. Misure del genere permetterebbero di creare una nuova rete di protezione per lo stato e gli azionisti, contro le speculazioni e di instaurare una nuova visione del mercato finanziario. Stroncare la volatilità degli investimenti vuole dire costringere gli investitori ad interventi più ponderati e concreti, ma sopratutto rimettere al centro la natura del valore della produzione, quale essa sia; esistono, infatti, aziende sottoquotate, con un valore nominale dell'azione sottostimato, rispetto al valore reale dell'azienda stessa costituito da impianti, attrezzature, know-how e valore del prodotto. Rimettere al centro il lavoro reale al posto della speculazione è ormai diventato essenziale dato il mancato governo del fenomeno essenzialmente speculativo che ha preso il sopravvento. E' facile prevedere le obiezioni degli ultra liberisti, che sicuramente intendono questa proposta come una negazione delle leggi del mercato e forse anche un taglio al reperimento delle risorse attraverso il mecato borsistico, ma il senso è di ridare all'economia un valore reale oggettivamente valutato, senza che sia soggetto a influenze esterne che niente o poco hanno a che fare con l'effettivo valore intrinseco di quello che si vuole stimare.

I tentennamenti di Obama sulla Palestina

Mentre Israele mette in opera un dispositivo anti sommossa imponente, in attesa del discorso di Abu Mazen all'ONU, occorre fare alcune riflessioni sul comportamento del Presidente degli USA e del governo americano. L'argomento della politica estera riguardante il problema israelo palestinese, costituiva una parte importante del programma elettorale di Barack Obama e doveva essere la chiave di volta per risolvere definitivamente la questione. Non è andata così, anche l'attuale Presidente USA si è adagiato su posizioni filo israeliane, limitandosi a fornire ai palestinesi aiuti materiali, certamente molto importanti, ma senza assicurare loro, almeno, la propria imparzialità. Obama non ha saputo sganciarsi dalla logica di principale alleato dei Israele, favorendo così uno stallo della situazione. Pur essendo in completo disaccordo con il premier di Tel Aviv, Obama non ha saputo tranciare il cordone ombelicale che lega Washington ad Israele, ed ha solo assunto un atteggiamento distaccato, sul piano diplomatico, che non è servito per sbloccare i negoziati, ma ha obbligato Abu Mazen al passo della richiesta del riconoscimento in sede ONU. Non avere saputo esercitare la pressione dovuta su Israele, pur in un quadro di alleanza stretta e dovuta, potrà avere conseguenze non previste. Inoltre gli USA sembrano non avere presa nemmeno più sugli alleati di lungo corso come la Turchia: anche in questo caso Obama sembra avere scelto il basso profilo, che, tuttavia, non ha risolto la profonda divisione tra Ankara e Tel Aviv. La dottrina di Obama, che sostanzialmente dice che gli USA non devono essere più il centro del mondo, è condivisibile e comprensibile, ma andrebbe attuata in maniera meno netta, se questa è la vera intenzione del Presidente USA. A meno che non si nasconda dietro questa nuova direzione una incapacità di fondo nella risoluzione delle controversie diplomatiche, che, volenti o nolenti, vedono gli USA sono ancora parte in causa, come è assolutamente vero per il caso della Palestina. Non è possibile che gli USA, ora vogliano sfilarsi dalle trattative per il processo di pace, dopo esserne stati i protagonisti per molti anni. Quello che si percepisce è, in effetti, una sorta di mancanza di capacità di essere i gestori delle trattative, manca l'azione decisa ed anche decisiva, in un verso o in un altro, che aveva contraddistinto il passato. Comunque vada, insomma, per gli elettori di Obama si profila un'altra delusione.

mercoledì 21 settembre 2011

Fine del ruolo USA come gendarme del mondo

Obama rende ufficiale la sua dottrina in politica estera. L'intenzione americana di cessare di essere il gendarme del mondo, più volte sottolineata ed iniziata ad essere praticata con la guerra libica, è ora diventata linea ufficiale del governo di Washington. Questa decisione non è il frutto della situazione economica attuale, ma è l'attuazione, sul lungo periodo, di quello programmato da Obama già in campagna elettorale. La tragedia dell'undici settembre, dopo l'eliminazione di Bin Laden, pur restando nella storia degli Stati Uniti, con questo passo appare superata; come è superata la dottrina interventista che ha caratterizzato l'azione diplomatica americana nel secolo scorso. Obama, di fatto, riposiziona gli USA nel panorama internazionale, pur restando nazione di riferimento, Washington si avvia a dare supremazia agli organismi internazionali per la risoluzione delle dispute internazionali. E' una direzione, quella intrapresa, che rafforza l'importanza dell'ONU, dove peraltro gli USA siedono come membro permanente del Consiglio di sicurezza, ed anche della NATO, nel quadro di potenziali interventi decisi in modo collegiale. L'intenzione di Obama è di mettere e sopratutto di fare percepire, gli USA, come una nazione al pari delle altre e che con le altre si rapporta non in maniera univoca ed autonoma, ma seguendo delle vie, che dovrebbero essere comuni. Allo stesso tempo si tratta di una rivoluzione ed anche una auto dismissione di responsabilità non più sostenibili, sia dal lato politico diplomatico, che economico. Il mondo dovrà abituarsi a vedere gli USA in modo differente, tramontata la figura imperialista, Washington non accorrerà più dove vi è l'ingiustizia, effettivamente rilevata o frutto di un'analisi di convenienza, ma, semmai, adirà ad organismi terzi investiti di autorità legittima per dirimere le questioni. L'apporto americano potrà esserci ma solo come contributo e sotto il mandato di organizzazioni internazionali. Tale decisione sposa l'opinione maggioritaria dei cittadini americani, comprendente quindi anche elettori non democratici, che sono stanchi dell'alto costo sociale, in termini di vittime e dei grandi costi finanziari che l'amministrazione USA ha sostenuto fino ad ora. Il guadagno ottenuto non è stato percepito in modo sufficiente per giustificare tale impegno. Quello che viene richiesto è, viceversa, una maggiore attenzione ai problemi interni, il che non vuole dire che gli USA si ripiegheranno su se stessi, ma significa, innanzitutto una razionalizzazione delle risorse economiche e politiche verso la politica estera, da cui consegue una nuova dimensione dell'approccio ai problemi internazionali. Ma gli USA non abdicheranno a quelli che ritengono i loro punti chiave, soltanto in determinate situazioni non agiranno in prima persona come l'esperienza libica ha chiaramente insegnato.

martedì 20 settembre 2011

Fronte UE per la Turchia

Le minacce turche alla UE, per la carica della prossima presidenza a Bruxelles, di Cipro, parte greca, nascondono, in realtà, altri fini ed hanno una responsabilità da cercare dentro all'Europa. Erdogan, dopo il rifiuto all'ingresso nella UE, ha rivolto lo sguardo della Turchia verso oriente, riscuotendo successi sia diplomatici che economici. Agendo fuori da un contesto normativo rigido, come poteva essere quello comunitario, Istanbul è riuscita a trarre maggiori vantaggi ed ha capito di potere prendere un ruolo da protagonista. L'occasione della primavera araba ha rappresentato la possibilità di incrementare ulteriormente la strategia diplomatica di aumentare l'influenza turca, tanto da fare pensare ad un chiaro fenomeno di neo ottomanesimo. Quando era in auge il dibattito sulla opportunità di fare accedere alla UE la Turchia, nessuno ha mai preventivato che lo sbocco, in caso di rifiuto, fosse di trasformare Istanbul, se non in un nemico, un avversario. Le tante obiezioni proposte, peraltro maggiormente di natura religiosa o sociale, provenienti dai gruppi di estrema destra o localistici, non hanno mai analizzato i costi ed i benefici dell'esclusione turca. Il dibattito si è focalizzato su temi troppo ristretti che ne hanno fatto perdere la visuale complessiva. La Turchia è da tempo un paese in crescita, che ha tentato di canalizzare le proprie capacità ed attitudini verso quello che doveva essere l'approdo naturale del più occidentale dei paesi islamici. Poteva trattarsi di una opportunità sia per Istanbul che per tutta la UE, l'allargamento verso l'oriente dell'Unione Europea avrebbe permesso, oltre ad un maggiore e più vasto mercato, anche una potenzialità diplomatica di ben altra portata. Inserire il paese turco, nell'alveo del vecchio continente, voleva dire allargare la sfera d'influenza comunitaria verso zone più restie all'ingerenza occidentale. Al contrario trattare il problema come un mero fatto religioso ha troncato pesantemente i possibili sviluppi positivi, creando gelo tra le due parti. Anche il recente confronto con Israele, dettato, al di là dei tragici fatti dello scorso anno, dalla necessità di figurare come rappresentante in tutto e per tutto del popolo arabo, si spotrebbe risolvere in altro modo, senza tenere costituire una minaccia per la pace. Ora la Turchia ha innestato una marcia, sul piano internazionale, contraria alla politica della UE, che tende al protagonismo nell'area araba del Mediterraneo del sud, nell'area del vicino oriente e fino oltre la pianura mesopotamica. Questa sorta di ritorno all'impero ottomano, non deve essere guardato con sufficienza dall'occidente, la Turchia possiede strutture politiche e strumenti di affinità tali da potere influenzare le nascenti democrazie arabe, prive praticamente di tutti gli strumenti per fare il salto nella nuova forma di stato. Istanbul si è preparata con dovizia a diventare il principale concorrente dell'Europa sul terreno del meridione del mediterraneo, dove si giocherà una partita fondamentale per il futuro del Mare Nostrum. La questione cipriota è in parte strumentale, perchè serve ad alzare la temperatura contro l'Europa in chiave di espansione verso i territori arabi ed in parte oggettiva, perchè riguarda la comunità e lo stato filo turco dell'isola. Se Cipro assolve il suo mandato di sei mesi alla guida della UE, acquista una visibilità troppo elevata per quello che vuole apparire Erdogan, che ne risulterebbe sminuito. Per il capo del governo turco costringere la UE ad abdicare rappresenterebbe una vittoria notevole da gettare sul tavolo del prestigio nel mondo arabo. Tuttavia appare difficile che Erdogan possa vedere le sue richieste esaudite, ciò non impedirà comunque, di intraprendere con la UE una battaglia diplomatica da cui ha tutto da guadagnare.

L'unificazione europea non è più procrastinabile

Alla fine qulacuno lo ha detto: senza l'Euro crolla la UE. Si tratta di una equazione inevitabile, una eventuale morte della moneta unica, mette fine ad anni di sforzi per favorire l'integrazione del continente, si torna irrimediabilmente indietro nel tempo e sopratutto fuori dalle esigenze temporali attuali, che richiedono unità contro divisione ed aggregazione contro isolamento. L'economia mondiale impone scelte drastiche, prima di tutto politiche. Una guida unificata dei problemi del continente è la prima cosa da fare, per imporre una linea politica unica, i personalismi ed il mancato riconoscimento in un organismo superiore devono cedere il passo ad una accettazione convinta di un centralismo maggiormente veloce e capace di prendere decisioni univoche, lineari e determinanti. Occorre mettere linee e regole chiare, dalle quali deve essere impossibile derogare, chi non accetta, rinunciando anche a parte della propria sovranità, deve essere messo fuori dal sistema politico e finanziario. Il momento impone scelte nette dalle quali ripartire, ma che devono essere accettate con piena convinzione. La necessità di una svolta importante è scritta negli avvenimenti che si susseguono: il possibile default greco, pur essendo una sconfitta per la zona euro ed un dramma per Atene, non inficierebbe il nocciolo duro della moneta unica. Non così se si arrivasse a situazioni altrettanto pericolose per Italia, fortemente indiziata su quella strada, e Francia, di cui non si parla, probabilmente per paura di alterare in modo ancora più grave le borse, ma che ha valori tali da non scongiurare situazioni altrettanto nefaste. L'effetto domino che si andrebbe ad innescare andrebbe a gravare sulla totalità dell'economia mondiale. Non è un caso che la Cina sia vicina ad acquistare titoli italiani e che anche Brasile, India e Sud Africa intendano gettare consistenti dosi di liquidità nel sistema finanziario europeo. Si tratta di aiuti ben accetti, che risolvono momentaneamente situazioni di grande difficoltà, ma che, andando ad alleggerire situazioni incancrenite, non permettono un aiuto strutturale al sistema, perchè non vengono investiti per sviluppare progetti, ma vanno a rifinanziare il costo degli interessi. Senza stabilità politica a livello continentale ed il ridisegno delle regole finanziarie, in ambito europeo, si alimenta soltanto la speculazione. Tra l'altro non è da escludere che proprio la rete degli speculatori abbia preso di mira la zona euro per distruggere la moneta unica, che potenzialmente può rappresentare il loro nemico peggiore, proprio per gli strumenti a disposizione. Mai come ora l'accelerazione necessaria per l'unificazione è stata più vitale.

domenica 18 settembre 2011

Considerazioni sul debito pubblico cinese

Il debito delle amministrazioni provinciali cinesi ammonterebbe a 2.300 miliardi di dollari. La stima sarebbe corroborata dal fatto che diverse amministrazioni locali cinesi sono vicne al default. Se si trasferisce questa somma, da sola, al debito dello stato cinese, la Repubblica Popolare diventa il secondo stato al mondo ad avere il più alto debito pubblico, dietro agli USA. La ragione del debito pubblico delle amministrazioni locali è dovuta in gran parte al fatto, che tali amministrazioni devono farsi carico della costruzione delle infrastrutture, strade, ferrovie, aeroporti, metropolitane, che costituiscono parte integrante dei motivi dello sviluppo cinese. Quindi lo stato centrale non può permettere, in ultima analisi, che le amministrazioni più esposte falliscano e deve quindi intervenire con la propria liquidità a coprire i buchi del debito. Ma così facendo toglie capitale da destinare alla crescita industriale, finora sostenuta in modo massiccio e chiave di volta per l'affermazione a potenza di rango mondiale. La questione del debito delle amministrazioni locali costituisce una sorta di debito occulto per il dragone, che Pechino non rende pubblico, cercando di mantenerlo il più nascosto possibile. Ma l'entità accumulata ha ormai raggiunto livelli di guardia, che non permette la continuazione della politica dello struzzo. Il PIL cinese ha già iniziato a contrarsi ed una delle cause è proprio l'alto tasso di indebitamento presente nel mercato finanziario globale del paese. Del resto anche i fenomeni inflattivi si sono presentati in maniera massiccia, rendendo il sistema cinese tutt'altro che immune dalle patologie dei sistemi capitalistici. Oltre a riflessi di tipo sociale, che si stanno acuendo e che sono dovuti a questa situazione economica, la Cina deve rivedere la propria politica finanziaria per non restare intrappolata nella spirale generata da debito ed inflazione, che può portare a situazioni che Pechino potrebbe non essere preparata a gestire. In questo momento pare difficile comprimere le opere pubbliche, che sono necessarie per completare le infrastrutture necessarie al paese, quindi resta la stretta sul credito per l'industria, con un conseguente abbassamento della produzione, dettata anche dalla minore richiesta di beni, proveniente dai paesi esteri sottoposti alla crisi mondiale. La contrazione della produzione però può metere in moto fenomeni di disoccupazione interna a cui si dovrà dare necessariamente risposta. Le masse che premono dall'interno del paese non si possono disperdere con semplici operazioni di polizia, volente o nolente Pechino dovrà ripensare il proprio atteggiamento sul welfare investendo maggiore risorse per il benessere dei propri cittadini. Socialmente la Cina, ha quindi davanti due strade per affrontare la crisi: o inasprire le misure restrittive o assumere, pur nel quadro del regime al governo, modifiche che introducano un mix di riforme che permettano ad almeno parte dell'economia di sfuggire al rigido controllo. Ma pur essendo la seconda strada la più logica per noi occidentali, le vie prese dal governo cinese paiono andare nella prima direzione, gettando il paese verso un abisso di terrore, che però avrà nelle leggi immutabili del mercato finanziario, uno dei peggiori nemici.