Politica Internazionale

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martedì 29 novembre 2011

L'affermazione dei movimenti islamici impone un nuovo approccio dei governi occidentali

L'atteggiamento dell'occidente nei confronti della primavera araba è stato di sostegno materiale e, salvo alcune eccezioni, di simpatia generalizzata. Nell'ottica democratica occidentale la caduta dei tiranni arabi, cui peraltro l'aspetto funzionale ai governi dell'ovest è risultato acclarato, è stata inquadrata nell'ottica positiva di un possibile sviluppo democratico della forma di governo di questi paesi. Tuttavia le ipotesi di un indirizzamento verso la predominanza di movimenti di tipo laico, più conformi al modello occidentale, stanno venendo progressivamente meno in virtù delle massiccie affermazioni elettorali di formazione di ispirazione islamica. Si tratta, è vero, di partiti di indirizzo moderato, in cui la componente islamica, pur ricoprendo la centralità dell'azione politica, non si richiama praticamente mai a sistemi violenti dell'affermazione dell'islamismo entro i confini sia della società, che dello stato stesso. Ma la connotazione, che resta profondamente religiosa, rischia comunque di costituire un ostacolo nei rapporti con i governi occidentali, proprio sulla dialettica del confronto, in vista di una maggiore integrazione tra queste parti, che mirano, entrambe a trovare nuovi terreni di dialogo. La preoccupazione, da parte occidentale, è di non riuscire a trovare intese praticabili nei rapporti tra gli stati, più facile dialogare con dittatori che davano un'impronta occidentale ai loro paesi, gli esempi di Egitto e Tunisia, a questo scopo sono altamente esemplificativi. Quello che sorprende è che l'ocidente non fosse preparato a risultati elettorali del genere in paesi dove l'unica struttura sociale alternativa al soffocante abbraccio dei regimi era rappresentata soltanto dal rifugio religioso. Piuttosto può essere un elemento di novità l'affermazione dei partiti islamici anche in Marocco, governato da una monarchia più illuminata rispetto ai governi dei paesi vicini. In questo caso il fattore di emulazione con gli stati contigui può essere una spiegazione. In assoluto il fatto è lampante, il risultato democratico parla chiaro e non può essere confutato con ritorni al passato o paure che devono essere superate ad ogni costo. Quello che deve cambiare è la disposizione verso movimenti di natura teocratica che imporranno inevitabilmente nei loro paesi modi di vita nettamente in contrasto con gli usi occidentali. D'altro canto questo è quello che è emerso o sta emergendo dalle indicazioni delle urne, vi è una omogeneità dei corpi elettorali delle nazioni al voto, che indica un bisogno, quasi fisiologico di regolare le società che si sono affrancate dai regimi in maniera più orientata ai valori religiosi propri, quasi a sviluppare una reazione ad una identificazione dei valori occidentali alle dittature decadute. Se questo è vero, rappresenta un punto fondamentale da cui partire per stabilire contatti consoni con i nuovi governi, trovando quel terreno d'intesa fondamentale nel rispetto dei nuovi indirizzi assunti, che contemplano una applicazione pratica dei precetti islamici. Questo punto deve essere, anzi coltivato in maniera assidua in maniera da non favorire una deriva estremista, intensificando i rapporti di vicinanza e di collaborazione in modo di favorire il rispetto e la comprensione reciproca.

lunedì 28 novembre 2011

Hamas ed Al fatah più vicini

Anche in Palestina si comprende l'importanza di annullare nel modo maggiormente possibile le differenze tra le due formazioni di più grande peso. Se questo è obiettivamente un progetto ancora troppo ambizioso, per le note distanze, l'avere compreso che intessere sempre maggiori legami tra i due movimenti rappresenta l'unico viatico per trovare quella unità del popolo palestinese necessaria alla costruzione dello stato. L'incontro avvenuto ad Il cairo il 25 novembre cerca di percorrere pienamente questa direzione, almeno nella forma dove si usa la rassicurante formula di avere rimosso ogni divergenza tra le due parti, cosa, ovviamente non vera, ma che segnala l'ampia volontà delle due formazioni di trovare un'intesa comune sempre crescente. Il primo appuntamento di rilievo concordato, entro il piano più vasto ed ambizioso di riconciliazione nazionale, sono le elezioni previste per il prossimo maggio. Si tratta, è bene dirlo subito, di una data che difficilmente potrà essere rispettata, perchè frutto di una previsione troppo ottimistica, minata dalle sempre presenti difficoltà di trovare una intesa sulla costruzione del nuovo esecutivo palestinese. Intorno alla questione del governo ruota l'accordo di riconciliazione nazionale, che doveva essere il collante principale per la ricostruzione dello strappo tra i due movimenti avvenuto quatro anni prima. In particolare Hamas si è irrigidito nella propria contrarietà al nome designato da Al Fatah, che altri non è l'attuale premier in carica: l'ex economista della Banca mondiale Salam Fayyad. Tuttavia sull'altro punto cruciale, che anzi ha risvolti programmatici ben maggiori, l'intesa è netta e rappresenta l'istituzione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est come capitale. Anche sul piano militare la necessità di mantenere la tregua con Israele è condivisa da entrambe le parti; ciò significa molto, sopratutto per Hamas, perchè si riconosce che il processo di pace deve essere perseguito senza atti di terrorismo. Si tratta di una posizione che, tra l'altro, mette in grossa difficoltà Israele, che conta sull'estremismo di Hamas per trovare giustificazioni sempre nuove alla politica violenta del governo in carica di Tel Aviv, sopratutto sul tema delle colonie abusive che vengono di fatto permesse da Netanyahu. Inoltre la sempre minore divisione tra i due maggiori movimenti palestinesi mina una dei caposaldi della politica israeliana che contava, ed alimentava questa divisione proprio per allontanare lo spettro della creazione dello stato palestinese. Dietro il pesante lavorio per la distensione e l'accordo tra i movimenti palestinesi si distingue e si muove l'azione egiziana, che ritiene fondamentale per il grande paese confinante la creazione dello stato palestinese, come fattore di stabilizzazione regionale e l'allontanamento definitivo del problema alle proprie frontiere. Del resto una situazione stabilizzata su questo fronte, che da troppi anni mantiene una temperatura troppo elevata, va al di la del benessere del medio oriente ma riguarda il mondo intero. Una regolarizzazione definitiva della questione che comprendesse finalmente la creazione dello stato di Palestina, toglierebbe parecchie argomentazioni ad un estremismo islamico sempre più crescente ed operante in diverse aree del pianeta.

venerdì 25 novembre 2011

Dietro alla crisi dell'Euro

Sulle prospettive dell'euro ormai le ipotesi si sprecano. Mai come in questo momento, dove perfino i titoli tedeschi vanno invenduti, non vi è alcuna certezza, addirittura sulla vita della moneta unica europea. E' una situazione paradossale, fino all'estate, ma anche dopo, l'euro era la divisa più forte, tanto da sostituire, in alcune economie, il dollaro come moneta di riferimento. L'avvitamento di alcune economie, prima fra tutte quella greca, che si è scelto di non salvare fin da subito con interventi strutturali da parte dell'Europa, dispensando, viceversa, anche con ragione, consigli e rimbrotti, ha rotto la diga che ha permesso alla speculazione di sfondare, trascinando nella difficoltà altri paesi, ben più pesanti nella complessità del sistema. Ma perchè proprio ora l'euro è entrato in difficoltà, quando le condizioni erano già presenti e conosciute prima? La sola spiegazione della speculazione non può convincere completamente, non può essere soltanto una somma di speculatori tesi a guadagnare dalla sconfitta dell'euro a determinarne la sua possibile fine. E' vero che sono stati fatti errori marchiani e ripetuti da più di un soggetto che doveva regolamentare e sopratutto vigilare sulla questione, ma questo può bastare a decretare una simile e rovinosa caduta? Il sospetto che ci sia una o più mente pensante dietro a questo sviluppo di cose non può non sfiorare chi è spettatore dei fatti. Senza dubbio, anche se sul lungo periodo, una caduta dell'euro, con il ritorno a tutta la frammentazione delle singole monete nazionali, sopratutto senza una organicità univoca dell'economia europea, conviene sia alla Cina che agli USA. L'Europa, forse tranne la Germania, che sarebbe però fortemente indebolita, diventerebbe un conveniente mercato da colonizzare, non solo in senso strettamente economico, ma anche politico. La difficoltà sarebbe riuscire ad assorbire un periodo dove il principale cliente di Pechino e Washington, non sarebbe più in grado di ricevere le merci, fatto parzialmente bilanciato dalla nuova condizione europea di non essere più un concorrente pericoloso. In questa fase la contrazione delle vendite potrebbe essere ulteriormente compensata indirizzando il flusso di vendita verso nuovi mercati in espansione e l'incremento verso la clientela dei maggiori paesi emergenti. L'Europa, divisa e con le monete locali tornate in auge, sarebbe costretta, specialmente nelle economie più deboli a fare ricorso a politiche inflattive per ricercare maggiore competitività per i propri prodotti, ma nel contempo sarebbe costretta ad un indebitamento incontrollato per l'approvigionamento delle materie prime, diventando cosi' preda di potenze dotate di maggiore liquidità. E' una prospettiva reale, che si può ostacolare soltanto con l'unità continentale di tipo politico, anche soluzioni più ristrette, mantenendo cioè una unione monetaria dei soli paesi con economie virtuose, come prospettato da alcune ipotesi, si arriverebbe soltanto ad un soggetto comunque più debole nell'agone internazionale, non in grado di avere il sufficiente peso politico per bilanciare il peso dei soggetti più grandi. Se tale ipotesi può sembrare fantapolitica, si pensi alla strategia cinese di riempire di immigrati con grandi disponibilità economiche, che quindi generano più di un sospetto sulla reale necessità di lasciare la loro terra di origine, i paesi occidentali. Tale metodo appare chiaramente guidato da una strategia politica alle spalle del fenomeno, che contempla una sorta di invasione dal basso nelle strutture produttive del paese oggetto dell'immigrazione. Queste avanguardie costituiscono l'inizio della colonizzazione sopratutto perchè rifiutano una integrazione con il tessuto sociale pre esistente, rinchiudendosi in comunità a se stanti, che finiscono per fornire argomenti ad i gruppi e partiti localistici, che tanto premono su queste tematiche. Ancora una volta l'antidoto è il rafforzamento dell'unione politica continentale, per rinforzare e rilanciare la moneta unica, unico baluardo sicuro contro le speculazioni economiche.

martedì 22 novembre 2011

Superare il G7

Il numero uno di Goldman Sachs, Jim O'Neil, prevede che entro il 2027 la Cina sarà l'economia numero uno del mondo e che il PIL di India e Brasile crescerà in maniera esponenziale. Da qui la necessità di una riforma del G7, che dovrebbe riunire le maggiori economie mondiali per dare gli indirizzi dello sviluppo. Il funzionamento del G7 è infatti sostanzialmente fermo, se non per pochi aggiustamenti, alla sua fondazione avvenuta nel 1975. Da allora troppo è cambiato sia sul piano economico, che politico ed il mondo è totalmente diverso, grazie ai grandi mutamenti che hanno ridisegnato lo scenario internazionale. Non ha più senso tenere fuori dal ristretto gruppo che dovrebbe guidare l'economia mondiale sistemi economici come la Cina, il Brasile, l'India e la Russia, che costituiscono i principali motori dell'economia della terra. Secondo O'Neil la partecipazione al G7 di ben tre paesi che fanno parte dell'area euro: Germania, Francia ed Italia non ha alcun senso, sopratutto se si pensa alla forza economica non solo dell'Italia, ma anche della Francia, viceversa, una unificazione effettiva delle economie mediante riforme del governo dell'euro, sarebbe preferibile perchè porterebbe un solo socio nel G7, ma con una forza maggiore. Una partecipazione più fattiva delle nuove potenze al governo dell'economia dovrebbe essere ormai un fatto assodato, che nessun G20 mitiga, perchè troppo ampio. Viceversa un consesso più ristretto potrebbe prendere delle decisioni più appropriate, nell'ottica effettiva della potenza economica. Certo sarebbe una perdita di potenza per l'occidente ridotto, nella migliore delle ipotesi alla presenza di USA, Gran Bretagna, Giappone ed Europa (area Euro), con l'eliminazione anche del Canada perchè troppo piccolo come economia. Forse quello da riformare è proprio il pensiero della logica economica nella visione complessiva che non deve più privilegiare uno scenario che favorisce, in ambito decisionale, le economie più ricche. Però non visto da occidente questo teorema sembra volere ribadire la supremazia delle economie più ricche di più antico lignaggio, penalizzando le economie emergenti, che però sono quelle che stanno diventando prevalenti. La necessità è di riequilibrare anche in altri ambiti, quello che rappresenta la normativazzione che si cerca di dare al mercato, anche in altri ambiti, come quello sovranazionale: si pensi alla costituzione che regola il Consiglio di sicurezza dell'ONU, ancora fermo al periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra: l'apertura a maggiori soggetti potrebbe favorire una maggiore integrazione, necessaria a compensare la sempre crescente globalizzazione. Tuttavia anche prendere in esame la creazione di organismi ex novo, sopratutto per l'economia, potrebbe rappresentare una soluzione per ricercare nuove forme di governo dell'economia mondiale potrebbe essere una soluzione da percorrere. Considerando questa possibilità, ma non solo, l'apporto dell'occidente dovrebbe essere di natura maggiormente normativa, per fare sviluppare quelle legislazioni necessarie per garantire una concorrenza equa attraverso la tutela del lavoro estesa a tutte le economie, almeno quelle più rilevanti, con una maggiore permeabilità in quei sistemi economici più restii a garantire le sicurezze di base al mondo del lavoro. Si tratta di una sfida epocale per riformare in senso più ampio tutta l'economia del pianeta verso una maggiore equità, che possa garantire un pieno accesso alle opportunità per tutti i lavoratori del sistema terra.

Sulla cattura del figli di Gheddafi possibili contrasti tra CNT e Corte dell'Aja

Con la cattura di Saif al Islam, l'unico figlio di Gheddafi rimasto sul suolo libico ed il capo dei servizi segreti, Abdala Senussia, il CNT dovrebbe avere eliminato, almeno dal territorio nazionale, le potenziali minacce costituite dalla presenza di esponenti del vecchio regime. Il problema che si pone ora per la comunità internazionale è come si comporterà la giustizia libica nei confronti dei due esponenti del clan Gheddafi; l'esecuzione sommaria del dittatore libico è ancora impressa per la ferocia dei modi ed i sospetti che l'hanno accompagnata e per come sia avvenuta nonostante il mandato di cattura della Corte penale internazionale dell'Aja. Analogo mandato era stato spiccato contro i due esponenti appena catturati per crimini contro l'umanità. L'intenzione della Corte con sede in Olanda sarebbe quella di processare in ambito internazionale sopratutto il figlio di Gheddafi, che era destinato alla sua successione e si ritiene condividesse con il padre diversi segreti inerenti allo stato libico, tuttavia il vice presidente del CNT Abdelhafiz Ghogaha già annunciato che i due saranno giudicati da un tribunale del nuovo stato. Le ragioni di questa decisione sono duplici, da un lato il bisogno di cancellare la vergogna dell'uccisione di Gheddafi ed accreditarsi come stato di diritto pienamente operante e capace di garantire le condizioni per un giusto processo, dall'altro lato, però, potrebbe esserci l'interesse di scavalcare la Corte dell'Aja e quindi l'opinione pubblica internazionale, per impedire la divulgazione di segreti scomodi per le potenze alleate al CNT. Su questo tema si è discusso parecchio e per gli aspetti della repentina morte di Gheddafi, avvenuta in maniera alquanto sospetta, si riversano anche i timori per una possibile fine del figlio. Nonostante questa volontà del CNT di effettuare il processo in Libia, il nuovo governo deve comunque collaborare con la Corte dell'Aja per dimostrare almeno le proprie buone intenzioni in campo giuridico sul piano internazionale, anche perchè il governo libico non ha esercitato il proprio diritto di contestare la competenza della Corte internazionale, in quanto i capi d'accusa contestati agli imputati sono i medesimi. Quello che appare è un CNT ancora poco abituato a rapportarsi con le organizzazioni internazionali, in bilico tra il desiderio di regolare entro i propri confini le questioni con il passato regime e nello stesso tempo di apparire affidabile sul piano internazionale. La questione è fondamentale per l'immagine del regime che si rifletterà sul piano internazionale, una esecuzione sommaria non sarà tollerata dalla comunità internazionale, ed è ormai fuori dalle opzioni disponibili per il nuovo governo libico, che, anzi, dovrà prepararsi ad per effettuare un processo con tutte le garanzie, anche se probabilmente in contrasto con la Corte dell'Aja.

lunedì 21 novembre 2011

Il nuovo pericolo per la democrazia si chiama tecnocrazia

Passata la prima fase di euforia, sulla nomina del nuovo governo tecnocratico italiano cominciano a crearsi dubbi e domande. Il necessario cambio, praticamente imposto da una Unione Europea impaurita dalle possibili conseguenze di un crollo italiano, porterà nelle case dei cittadini del belpaese una serie di sacrifici, che non ne miglioreranno la situazione rispetto all'immediato passato. Si dirà, ed in parte è vero, che sono provvedimenti necessari ed investimenti per migliorare il futuro, tuttavia se il peso del risanamento continuerà a ricadere sulla stessa parte della popolazione, ciò dovrà essere, per forza, materia di analisi da parte dei burocrati di Bruxelles. Senza un'adeguata ripartizione dei sacrifici su base proporzionale della ricchezza manca uno dei requisiti principe per cui è nata la stessa Unione Europea: l'uguaglianza, sia in senso letterale, che in senso lato. Attualmente per l'Europa, appare sempre più chiaro, le questioni di fondo, quelle riguardanti i principi, sono rimaste indietro rispetto ai freddi numeri, l'urgenza di riportare a valori adeguati gli indici economici ha tralasciato il metodo sul come riportare entro binari prestabiliti i fondamentali economici. La percezione, da lontano, è che agli eurocrati, sia di matrice politica, che di matrice burocratica, interessi il solo raggiungimento del risultato, come se i numeri indicassero poi la reale conseguenza sulla maggior parte dei cittadini. Se questo è vero, lo è però, solo fino ad un certo punto: senza una equa redistribuzione della ricchezza e quindi un benessere maggiormente diffuso, l'efficienza dimostrata dai risultati vale poco, se non per garantire ulteriore benessere a chi già lo aveva. La questione è fondamentale per un analista di fatti politici, il nuovo governo italiano, che non gode, se non formalmente, ma non effettivamente, di una investitura democratica, è composto da si da tecnici, ma che provengono per buona parte da settori dai quali maggiormente si individuano le colpe della situazione attuale. Non che i nuovi ministri italiani siano, fino a prova contraria, tra chi ha causato la crisi, ma ragioni di opportunità avrebbero consigliato scelte differenti. Ma il silenzio, anzi l'entusiasmo, europeo su questa direzione intrapresa la dice lunga all'approvazione riservata ad un governo che costituisce un precedente pericoloso. A parte dubbi di natura di legittimità più che condivisibili, quello che l'Europa ha avvallato è un governo che vuole garantire una direzione ben incanalata da Bruxelles senza che il corpo elettorale italiano possa esprimere un parere vincolante. Il fatto negativo è che la UE eserciti una funzione non statuata nei confronti di un paese, colpevole finchè si vuole di leggerezza politica ed economica, facendo ricadere letteralmente la sua decisione dall'alto, pur con tutte le attenuanti di urgenza che hanno provocatola misura. Certamente le istituzioni italiane, fin dal Presidente della Repubblica, non sono state obbligate da un golpe militare, e pagano la scarsa competenza in materia economico finanziaria del precedente governo, ma in questo caso sono state ostaggio di Bruxelles. E qui si ritorna all'inizio di questa riflessione, le decisioni che andranno a subire i cittadini italiani, che sono è bene ricordarlo le vittime di questa situazione, giacchè non è vero come si dice che hanno vissuto al di sopra delle loro capcità, ma la verità è semmai il contrario (perlomeno per la maggiore parte di essi), saranno quindi frutto di una mancanza di legittimità, che potrà essere solo sanata da provvedimenti effettivamente tesi a stabilire una equità sociale fin qui mancata tramite una effettiva redistribuzione della ricchezza e delle opportunità sociali. Allora, se questo si verificherà, si potrà giustificare l'ingerenza europea perchè attuata in nome dei principi ispiratori dell'unione sovranazionale del vecchio continente, viceversa sarà solo un ulteriore passo verso la tecnocrazia totale, una forma più soft di dispotismo, ma sempre una interruzione di democrazia. Occorre prestare attenzione a questo possibile sviluppo della UE, l'Italia in questo senso può costituire un valido laboratorio per chi vuole portare la barra delle decisioni in mano agli esperti escludendo di fatto le decisioni di merito, quelle che solo la politica può portare.

sabato 19 novembre 2011

Kenya ed Israele si alleano contro Al Shabab (e contro l'Iran)

Tra Israele ed Iran non c'è solo il conflitto potenziale che ruota intorno all'atomica di Teheran, ormai tra i due paesi esiste tutta una guerra sotterranea fatta di alleanze ed aiuto ai reciproci nemici. L'ultimo caso riguarda la fornitura di supporto al Kenya nella lotta contro la milizia Al Shabab, che con frequenti incursioni dalla parte somala della frontiera, porta il terrorismo islamico mediante azioni militari ed attentati fin dentro il territorio di Nairobi. Lo scopo è formare una coalizione contro il fondamentalismo islamico, cui dietro si sospetta ci siano i concreti aiuti iraniani. L'alleanza conviene ad ambo le parti, per il Kenya la competenza militare e l'attrezzatura israeliana possono costituire un sostanziale rafforzamento della misure adottate schierata contro le milizie islamiche, per Israele il lavoro diretto sul campo può consentire un lavoro di intelligence in maniera di ricavare informazioni di prima mano, sia sull'attività di Al Shabab, che sui suoi canali di supporto, tra cui si sospetta la fattiva attività dell'Iran. Del resto la presenza della repubblica islamica nella regione non rappresenta un mistero, la marina militare iraniana pattuglia il golfo di Aden, ufficialmente per combattere la presenza della pirateria che sovente attacca le navi mercantili, durante la recente carestia il regime di Teheran ha donato alla Somalia una cifra attorno ai 43 milioni di dollari ed è diventato il principale partner commerciale del paese del corno d'Africa. E' logico che avere soldati e funzionari israeliani al confine di un paese dove certamente stazionano omologhi iraniani può diventare una fonte di confronto pericoloso e, se possibile di peggioramento della situazione regionale proprio tra Kenya e Somalia. Un aggravamento dei rapporti tra i due stati potrebbe causare una situazione molto più pericolosa sul fronte delle grandi migrazioni provocate dalle carestie ed in parte aggravate dall'atteggiamento delle milizie islamiche, che impediscono il fluire regolare delgi aiuti, indirizzando verso il Kenya grandi masse di disperati. E' una tattica usata per mettere in ginocchio il paese kenyano, aggravata ulteriormente dai ripetuti rapimenti avvenuti sul confine dei due stati, operati nei confronti di cittadini europei. Con queste tattiche Al Shabab prova a sfondare in Kenya e quindi ad allargare la sua zona di influenza e di conseguenza portare l'estremismo islamico nel paese di Nairobi. La zona è considerata particolarmente fertile per un possibile attecchimento del fondamentalismo islamico proprio per le grandi masse di somali, la cui gran parte è proprio di religione islamica, costretti a fuggire dalla fame e tenuti all'oscuro delle manovre di interdizione sui rifornimenti alimentari operati da Al Shabab. Per Israele è necessario cercare di bloccare questa tendenza proprio per togliere consenso alla nazione iraniana, che necessita di sempre un maggior numero di alleati, ma l'alleanza con il Kenya, al di la della necessità strumentale, significa anche dimostrare al panorama diplomatico mondiale, che Tel Aviv possiede ancora capacità di trovare nuove sponde con cui intessere rapporti internazionali.