Politica Internazionale

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lunedì 31 gennaio 2011

Israele preoccupato per la situazione in Egitto

Israele esprime vive preoccupazioni per la situazione egiziana e conferma il suo appoggio a Mubarak. La dichiarazione esplicita e chiara nei tempi e nei modi esprime lo stato di agitazione che si vive nel paese della stella di David. Fino a questa dichiarazione ufficiale Israele ha tenuto un basso profilo non solo sulla crisi egiziana ma riguardo anche a quelle che si stanno sviluppando nella sponda sud del Mediterraneo. Basso profilo non significa però disinteresse, l'attività diplomatica di Tel Avivè stata diretta ed intensa verso quei paesi occidentali che, in qualche modo con le loro dihiarazioni hanno portato sostegno alla rivolta popolare al Cairo. Per Israele Mubarak rappresenta la garanzia del rispetto degli accordi di Camp David in vigore dal 1978 e mai messi in discussione da parte egiziana. Ciò ha permesso, su quel fronte, una situazione sicura ed assodata per Tel Aviv, da non mettere più in discussione.Israele nelle comunicazioni diplomatiche ha asserito che è preferibile la stabilità che la mancanza di democrazia. E' chiaro che questa visione è maggiormente funzionale allo stato israeliano che teme la possibile affermazione, in una competizione elettorale scevra da controlli, di movimenti islamici di natura integralista. Tuttavia la preoccupazione appare legittima, Israele potrebbe ritrovarsi ai confini un paese dove lo status quo è stato sovvertito e che quindi potrebbe volere ridiscutere da capo un accordo ormai consolidato nel tempo, questo creerebbe una pericolosa falla nel sistema difensivo del paese. Tel Aviv teme di essere stretta in un abbraccio mortale da vicini pesantemente influenzati da posizioni integraliste, con la minaccia sempre viva dell'Iran teocratico. I paesi occidentali hanno di fatto appoggiato la rivolta egiziana, bisogna vedere, se come pare c'è qualcosa di più; quello messo in moto nelle vie del Cairo appare un processo inevitabile da cui non si torna indietro quindi non pare peregrina l'idea di cercare di influenzare la transizione democratica verso soluzioni che salvaguardino il mondo intero da una pericolosa escalation in senso religioso. Per il momento appare difficile fare un pronostico data la molteplicità degli attori in campo e la situazione è di totale incertezza; rimane da augurarsi che la vicenda prenda una direzione che sia conveniente al popolo egiziano ma che non comprometta delicati equilibri che risultano decisivi per la pace mondiale.

Il Pakistan aumenta il suo arsenale nucleare

Il Pakistan ha accelerato la produzione di testate nucleari portando il numero in suo possesso a più di cento; fino a quattro anni fa sia calcola che il numero fosse tra le trenta e sessanta unità. La maggior parte di queste testate sono schierate lungo la frontiera con l'India, la quale, a sua volta dispone di un proprio arsenale nucleare, seppure valutato in misura leggermente minore. Mentre l'India cresceva economicamente, forte di una progressiva democratizzazione tesa a modernizzare il suo tessuto economico e sociale, il Pakistan restava impigliato in una fase di riforme incompiuta ed ostaggio di gruppi religiosi estremisti. Certo ha pesato la linea di confine con l'Afghanistan rifugio delle milizie Talebane e teatro di sempre maggiori scontri, inoltre da non trascurare le catastrofi naturali che hanno messo in ginocchio un paese già in difficoltà economica. Tuttavia malgrado queste condizioni avverse i dirigenti pakistani hanno sempre ostentato un comportamento ambiguo con l'unico alleato potenziale che potesse trarli d'impaccio dalla difficile situazione. Con gli Stati Uniti il rapporto non sempre è apparso leale nella guerra afgana, determinando spesso scontri, anche pesanti sul piano diplomatico. I problemi maggiori sono le relazioni con il servizio segreto pakistano che viene sospettato di attuare una vera e propria politica doppiogiochista in combutta con le milizie talebane. In altre aree il potere effettivo è esercitato su base tribale con modalità completamente distaccate da Islamabad ed in definitiva la nazione pakistana è un territorio dove il potere del governo centrale è limitato e di fatto, come sostengono alcuni osservatori, alla sola capitale e nelle zone immediatamente circostanti. In questo quadro drammatico una ragione di coesione è l'avversione nazionalistica alla vicina India, che suscita ulteriori invidie per la sua crescita economica. Secondo George Perkovich, specialista in non proliferazione nucleare della 'Carnegie Endowment for International Peace' si tratta di una riequilibrazione psicologica per il popolo pakistano perseguitato dal complesso di inferiorità con l'India. In ogni caso siamo di fronte ad una guerra fredda su scala locale che non promette niente di buono: il mondo intero deve interrogarsi sulle misure di sicurezza delle testate pakistane a chi sono in mano e sopratutto a chi potrebbero finire. Sul piano dipomatico l'India ha trovato una sponda nella Russia in virtù della collaborazione economica tra i due paesi, Mosca ha manifestato pubblicamente disaccordo circa la proliferazione pakistana. Va comunque ricordato che nessuno dei due paesi ha sottoscritto il trattato di non proliferazione nucleare, sono le uniche due nazioni in possesso di armi nucleari a non averlo fatto in compagnia di Israele.

sabato 29 gennaio 2011

La Palestina riconosciuta dal Paraguay

Lo stato Palestinese è stato riconosciuto dal Paraguay come stato libero ed indipendente all'interno delle frontiere del del 1967. Il processo di riconoscimento della Palestina come stato è un processo ormai avanzato nel continente sudamericano, sono infatti già dodici gli stati che hanno formalmente compiuto il passo diplomatico del riconoscimento ufficiale; mancano soltanto Uruguay, Suriname e Colombia. I primi due procederanno al riconoscimento durante il 2011, mentre per la Colombia non è previsto alcun passo in questa direzione perchè Israele è ritenuto un alleato militare strategico. I dirigenti palestinesi hanno investito molto lavoro diplomatico per aumentare il riconoscimento del proprio stato, infatti l'aumento del numero dei riconoscimenti è giudicato essenziale per le loro rivendicazioni davanti al consiglio di sicurezza dell'ONU. Questa soluzione è da intendersi come via pacifica alla costituzione dello stato palestinese e dovrebbe essere incoraggiata da tutto il mondo diplomatico mondiale per porre fine all'annosa questione con israele. La costituzione dello stato palestinese sarebbe una pietra miliare per scongiurare il pericolo dell'uso dell'opzione militare. Da rilevare l'omogeneità di comportamento degli stati sudamericani che, sebbene in maggioranza siano alleati degli USA, dimostrano una certa indipendenza nella politica estera, testimone di una sempre maggiore autonomia dei paesi del continente, impensabile fino a due decenni addietro.

Argentina e Brasile si alleano per il nucleare pacifico

Argentina e Brasile diventeranno il nuovo polo nucleare del sud america. La carenza delle risorse energetiche obbliga i paesi a sganciarsi sempre più dal giogo petrolifero, inoltre la lotta all'inquinamento atmosferico sta diventando sempre più una bandiera dietro la quale crescono i seguaci. Argentina e Brasile intendono unire gli sforzi e sfruttare le sinergie di un'alleanza tesa a costruire a medio termine un reattore nucleare che garantisca una certa indipendenza energetica per i due paesi. Nell'immediato è presente la volontà di iniziare un percorso comune di ricerca sfruttando le conoscenze maturate da Buenos Aires per la costruzione di reattori nucleari e le risorse presenti nel colosso brasiliano. Naturalmente nell'accordo viene più volte sottolineata la natura pacifica della ricerca comune, anche in forza dell'adesione dei due paesi alla rinuncia alle armi atomiche. E' significativo che i capi di stato dei due paesi che hanno portato alla firma dell'accordo siano due donne; l'accordo di natura economica mira a proiettare i due paesi all'avanguardi della risoluzione del problema energetico ma pone anche interrogativi di tipo diplomatico su iniziative analoghe portate o che saranno portate avanti da altri paesi. Il caso dell'Iran è esemplificativo, tuttavia la discriminante è la rinuncia esplicita all'arma atomica e la disponibilità continua ad ispezioni di organizzazioni sovranazionali che certifichino i fini pacifici della ricerca e dello sviluppo dei progetti. Dal punto di vista geopolitico appare assai rilevante l'evoluzione dei due paesi più importanti della regione sudamericana, il sudamerica investe risorse per diventare sempre più protagonista e restare sul mercato globalizzato investendo in tecnologia avanzata, l'unico strumento possibile per sganciarsi dallo strapotere delle superpotenze.

venerdì 28 gennaio 2011

La sponda brasiliana per Obama

Il recente cambio al vertice del governo brasiliano rafforzerà le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Brasilia. La nuova presidente del colosso sudamericano ha visioni diverse rispetto al predecessore, visioni che collimano con la politica estera americana e sulle quali Obama intende sviluppare un dialogo sempre più fitto. L'aspetto più rilevante è il cambiamento circa la questione iraniana, Lula ha sempre mantenuto un aspetto di neutralità rispetto al problema nucleare di Teheran, sostenendo la legittimità per la repubblica teocratica di effettuare ricerche sullo sviluppo nucleare come fonte di energia alternativa, senza entrare nel merito dei possibili sviluppi militari. La Rousseff non ha la stessa opinione e teme l'atomica in mano al regime iraniano. Per Obama significa trovare un alleato importante, il peso specifico del Brasile è in notevole crescita, le riforme economiche volute da Lula hanno fatto salire la considerazione del paese verdeoro sia sul piano economico che su quello politico, premettendogli di ritagliarsi sempre maggiore importanza nella regione. La politica della nuova presidente pare tendere ad una maggiore importanza sulla scena politica internazionale proprio in forza della potenza economica. Il Brasile attuale ha laforza per imporsi anche tra i giganti che dominano la diplomazia mondiale. La forte personalità della nuova numero uno di Brasilia e dei suoi programmi ha già attratto molti consensi tra gli opinionisti internazionali in forza della sua visione dello sviluppo sostenibile, della ripartizione del reddito e della ricerca delle energie alternative e rinnovabili. Proprio per questo pare il naturale partner di Obama con il quale condivide gran parte della visione politica d'assieme. Inoltre per un paese come gli USA, sempre alla ricerca di alleanze per contenere lo strapotere cinese portare dalla propria parte il Brasile siginifica un successo di portata enorme sul piano diplomatico, economico ed in un futuro possibile anche militare. Su quest'ultimo piano è significativo l'acquisto proprio dagli Stati Uniti da parte del Brasile di una consistente partita di aerei da guerra per la propria aviazione militare. La prossima visita in Brasile di Obama suggellerà questi valori comuni in una relazione sempre più stabile.

giovedì 27 gennaio 2011

Il destino dei paesi in rivolta

Le rivolte che stanno caratterizzando i paesi arabi della sponda sud del Mediterraneo si stanno allargando, è di oggi il caso dello Yemen, dove la protesta è scesa nelle strade, mentre in Siria si chiudono i social network per evitare le comunicazioni tra la popolazione. Pare importante analizzare il momento storico, l'attuale, in cui si sviluppano questi moti di piazza in società e contro governi con caratteristiche differenti. Il dato comune è la crisi economica che ha fatto precipitare in situazione di povertà vasti strati sociali tra cui anche quelli che godevano del favore dei regimi; qui si innesta la cattiva gestione delle ricchezze di alcuni paesi colpiti dalle rivolte, Tunisia ma sopratutto Algeria sono ricche di materie prime e con una redistribuzione più equa avrebbero permesso un maggiore favore verso i governi in carica. Peraltro questi governi sono tutti caratterizzati da una negazione dei diritti civili, chi in forme più violente e repressive, chi in maniera più attenuata ed hanno un'altra caratteristica comune il sostegno occidentale, fornito più che altro per impedire l'avanzata al potere dei partiti mussulmani. Si tratta di una strategia politica comprensibile dopo gli errori fatti in nazioni come l'Iran ma con una attuazione fondamentalmente miope, giacchè non ha previsto una crescita in senso democratico dei paesi in questione e si è limitata al mantenimento dello status quo. La facilitazione portata da internet ha permesso alla popolazione di sfuggire, anche se parzialmente, al controllo delle autorità e della censura, consentendo una coordinazione dei manifestanti, i quali oltre alle cause di natura economica sono spronati dalla presa di coscienza di vivere senza i diritti democratici, grazie al continuo scambio di idee dovuti ai mezzi di comunicazione ed anche dal grande tasso di emigrazione verso i paesi occidentali. Ci troviamo di fronte a società in continua evoluzione, ma schiacciate, nella loro forma di rivolta, tra istanze politico economiche e religiose. Gli strati sociali sono attratti dalla vita occidentale dove sono assicurati i diritti politici ma contemporaneamente sono affascinati dalla tradizione religiosa ed ondeggiano tra voglia di modernità e tradizione. Entrambi le cose sono state negate dai regimi oggetto di rivolta, la modernizzazione culturale e politica è stata stroncata per il mantenimento dei ceti al potere e la tradizione religiosa è stata avversata perchè la laicità è più facile da arginare. Il risultato è che abbiamo paesi in rivolta dove a guidare gli insorti non si ha una classe dirigente preparata ad affrontare una transizione sia in un senso che nell'altro. Ciò potrà creare, a seconda del risultato, un pericoloso vuoto di potere che potrebbe essere riempito da movimenti estremisti con le conseguenze facilmente immaginabili. Sono proprio le possibili conseguenze, il destino che ne sarà, il tratto più comune tra tutti questi paesi in subbuglio: una incertezza totale per come andrà a finire, non si può cioè prevedere come per i paesi dell'Est europeo un finale democratico, qui l'incognita religiosa è troppo rilevante.

mercoledì 26 gennaio 2011

Obama rafforzato dal discorso dell’unione

Il discorso di Obama sullo stato della nazione ha riportato alla ribalta, tra gli altri, il tema della supremazia mondiale degli Stati Uniti. Su questo tema il popolo statunitense è molto sensibile, l'argomento permette di fare leva sull'unità della nazione e consente di trattare temi molto scottanti da prospettive differenti da quelle della polemica politica infuocata, che ultimamente ha caratterizzato la scena americana anche per l'irruzione del movimento dei Tea Party. Agli occhi di un europeo la questione della supremazia mondiale può sembrare un inutile orpello, residuato della guerra fredda, ma per gli americani è la chiave di volta per arrivare a parlare dei temi centrali tra cui quelli economici che in questo momento contraddistinguono la discussione. Obama ha illustrato il suo programma per confermare la leadership mondiale, ed i punti contemplano l'incremento delle infrastrutture, l'aumento della quota di PIL per scuola e ricerca per mantenere ed incrementare con sempre nuove soluzioni l'industria americana a livelli di eccellenza. Per reperire questi incrementi relativi ai capitoli di bilancio appositi il governo americano deve però diminuire altre voci di spesa che sono state individuate nella riduzione delle spese militari e nei contributi all'industria petrolifera. La destra avrebbe preferito la riduzione della spesa sociale, ma le due risposte differenti al discorso dello stato dell'unione hanno rivelato una profonda divisione tra Partito Repubblicano e Tea Party, che di fatto rafforzano il presidente in carica.