Politica Internazionale

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mercoledì 22 giugno 2011

Cresce il numero dei rifugiati

Sale il problema dei rifugiati nel mondo. Le guerre, le carestie ed i disastri naturali sono la causa dello sviluppo esponenziale del numero dei richiedenti asilo, ma la pressione maggiore a cui le nazioni sono sottoposte, dalle masse dei rifugiati, contrariamente a quanto si crede non è nei paesi industrializzati, il cosi detto primo mondo, ma nei paesi in via di sviluppo. E' significativo registrare che i maggiori paesi che danno rifugio sono: Pakistan, Iran e Siria, ed anche considerando un rapporto di rifugiati con il reddito per abitante, i paesi in via di sviluppo sono notevolmente avanti rispetto al mondo industrializzato. Lo scenario che si para davanti ad un osservatore attento, presenta subito uno squilibrio di grande portata, i paesi ricchi non fanno molto per risolvere il problema. Non solo, inoltre hanno messo tutti in piedi, indiscriminatamente, sistemi legali atti ad ostacolare ed ostracizzare l'ingresso dei rifugiati all'inerno dei loro territori. Si tratta, evidentemente, di un modo di preservare risorse e livello di vita, in un momento di grossa crisi economica, non sacrificando alcuna parte di reddito per dare aiuto. Anzi, l'incremento del successo elettorale di partiti e formazioni che coprono un ampio spettro, che va dal localismo fino alla xenofobia più marcata, hanno accentuato questa modalità di esclusione. Ma è irreale che paesi più poveri, affetti da problemi endemici di carenza strutturale, con povertà conclamata, possano farsi carico della gran parte della massa dei rifugiati. La prima ragione dello stato di cose attuale è una impreparazione storica dei paesi ricchi, che hanno vissuto prima da colonizzatori materiali, poi da sfruttatori economici dei paesi poveri, senza mai porsi la questione che la storia avrebbe, prima o poi presentato il conto, si è trattato di andare avanti su uno stato di cose sedimentato e stratificato che non ha mai creato nei governi una mentalità di gestione dell'accoglienza; a questa mancanza si è cercato di supplire con strategie improvvisate, fino alla chiusura di questi ultimi tempi, vista come soluzione alla loro stessa incapacità. La seconda ragione, è figlia della prima, la mancanza di capacità di governare il fenomeno da partae delle organizzazioni sovranazionali è dovuta al fatto, che gli organi di comando e controllo sono composti, in maggior parte da rappresentanti dei paesi ricchi, così il cane si morde la coda. D'altro canto questi paesi sono i maggiori finanziatori degli enti sovranazionali e così il cerchio si chiude. La soluzione immediata non esiste, ma è chiaro che la situazione sta diventando di una portata difficilmente ancora gestibile, senza un adeguato coordinamento, ma sopratutto con uno stravolgimento nella modalità di affrontare le cose, la bomba a tempo non può che scoppiare

martedì 21 giugno 2011

USA: ritiro anticipato da Kabul e posibili sviluppi

L'approssimarsi, sempre più veloce, delle elezioni americane, accelera il ritiro anticipato degli USA, dalla guerra afghana. Obama ha bisogno di mietere consensi in maniera esponenziale e raggiungere l'obiettivo di un ritiro anticipato può significare la mossa decisiva in chiave elettorale. Gli USA non negano neppure più l'evidenza, come fatto fino ad ora, di avere in corso trattative con i talebani, per arrivare ad una qualche conclusione. Il fatto che non vi sia più alcun tipo di rammarico nell'ammettere le relazioni ufficialmente con i peggiori nemici, significa che la necessità di uscire dal pantano afghano si è fatta più pressante. Obama deve comunque combattere su più fronti, non solo quello elettorale, sganciarsi da Kabul, significa anche liberare risorse, sia logistiche che economiche, per affrontare le nuove emergenze che si affacciano sullo scacchiere. Non è un caso che la questione palestinese sia costantemente monitorata. L'amministrazione USA, pur essendo il principale alleato di Israele potrebbe dovere intervenire come forza di dissuasione, oltre che di protezione, proprio nei confronti di Tel Aviv, se la situazione dovesse degenerare, anche grazie ai nuovi assetti del mondo arabo. Inoltre lo scenario siriano, cui dietro sta l'Iran ed il conseguente atteggiamento della Turchia, membro della NATO, potrebbero richiedere forme di intervento da valutare.

lunedì 20 giugno 2011

Isrele mette in pericolo il rattato di Oslo

Israele ha paura del riconoscimento dell'ONU per la Palestina. Mentre si avvicina la data della discussione per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, Tel Aviv teme che il processo di riconoscimento internazionale inneschi una azione irreversibile che la costringa ad una trattativa da posizione di svantaggio. La battaglia per ora è tutta diplomatica, ma Israele mostra un timore significativo e si agita come una belva ferita. La minaccia di disconoscere il trattato di Oslo, segna un punto critico fino ad ora mai raggiunto. Intanto brilla il silenzio USA, che pur lavorando sottotraccia, sul piano pubblico ostenta una distanza che ha una sola valenza: Israele non gode dell'appoggio del suo maggior alleato sullka questione. Il governo in carica a Tel Aviv sta isolando il paese in un momento particolarmente delicato, i sommovimenti politici ai suoi confini consiglierebbero una tattica contrassegnata da maggiore cautela, ma la direzione presa va nel senso opposto. Stressare la situazione sul piano internazionale, può costringere l'intera scena a schierarsi dalla parte della Palestina, che in fondo richiede, solo un riconoscimento internazionale, praticamente a costo zero. La strategia rigida di Israele non può che essere perdente, sia che la Palestina ottenga il riconoscimento, sia che non l'ottenga, in questo secondo caso l'atto formale sarà solo rinviato, ma la discussione che ne potrebbe discendere potrebbe provocare danni ancora maggiori per Tel Aviv, come dimostra la pressione di questi giorni di soggetti sovranazionali come la Lega araba. Ad un osservatore esterno appare lampante come il riconoscimento palestinese, sia ormai un atto dovuto e costituisca un primo fondamentale passo nel processo di pacificazione. Il problema, a questo punto è che il governo in carica in Israele non voglia realmente regolare le cose, ma se così fosse sarebbe meglio chiarirlo del tutto, con tutte le conseguenze del caso. Infatti anche sul fronte interno l'opposizione sta montando e la partita è ancora tutta aperta.

Isrele mette in pericolo il rattato di Oslo

Israele ha paura del riconoscimento dell'ONU per la Palestina. Mentre si avvicina la data della discussione per l'ingresso nelle Nazioni Unite della Palestina, Tel Aviv teme che il processo di riconoscimento internazionale inneschi una azione irreversibile che la costringa ad una trattativa da posizione di svantaggio. La battaglia per ora è tutta diplomatica, ma Israele mostra un timore significativo e si agita come una belva ferita. La minaccia di disconoscere il trattato di Oslo, segna un punto critico fino ad ora mai raggiunto. Intanto brilla il silenzio USA, che pur lavorando sottotraccia, sul piano pubblico ostenta una distanza che ha una sola valenza: Israele non gode dell'appoggio del suo maggior alleato sullka questione. Il governo in carica a Tel Aviv sta isolando il paese in un momento particolarmente delicato, i sommovimenti politici ai suoi confini consiglierebbero una tattica contrassegnata da maggiore cautela, ma la direzione presa va nel senso opposto. Stressare la situazione sul piano internazionale, può costringere l'intera scena a schierarsi dalla parte della Palestina, che in fondo richiede, solo un riconoscimento internazionale, praticamente a costo zero. La strategia rigida di Israele non può che essere perdente, sia che la Palestina ottenga il riconoscimento, sia che non l'ottenga, in questo secondo caso l'atto formale sarà solo rinviato, ma la discussione che ne potrebbe discendere potrebbe provocare danni ancora maggiori per Tel Aviv, come dimostra la pressione di questi giorni di soggetti sovranazionali come la Lega araba. Ad un osservatore esterno appare lampante come il riconoscimento palestinese, sia ormai un atto dovuto e costituisca un primo fondamentale passo nel processo di pacificazione. Il problema, a questo punto è che il governo in carica in Israele non voglia realmente regolare le cose, ma se così fosse sarebbe meglio chiarirlo del tutto, con tutte le conseguenze del caso. Infatti anche sul fronte interno l'opposizione sta montando e la partita è ancora tutta aperta.

sabato 18 giugno 2011

L'Italia ancora in Libia?

La riunone del partito della Lega Nord, componente del governo italiano, potrà decidere le prossime mosse della politica estera italiana. Una delle minacce principali, dopo le sconfitte nelle elezioni delle amministrative e dei referendum, è stata quella di togliere i fnanziamenti per la guerra in Libia, alla quale l'Italia partecipa nella coalizione dei volenterosi. Quale membro della NATO, Roma è stata praticamente obbligata a partecipare, ma con scarsa convinzione ed i maggiori oppositori erano proprio nelle fila della Lega Nord. Il risultato elettorale negativo ha accelerato la situazione, la Lega pensa che per recuperare il suo elettorato perduto, uno dei mezzi sia proprio il taglio delle spese militari contingenti, per girare la voce di bilancio verso capitoli più spendibili in chiave elettorale. Non è un mistero che proprio dalla base del partito siano arrivati ripetuti solleciti per un uso più oculato delle risorse. Questo gesto sarebbe significativo in chiave interna, ma condannerebbe il già compromesso prestigio internazionale del bel paese. Un'Italia che si ritira dalla coalizione, per meri problemi elettorali, scivolerebbe nel punto più basso della propria credibilità. La questione è importante, sopratutto se si pensa che con la Libia, il rapporto italiano è privilegiato, abbandonare la contesa vorrebbe dire precludersi ogni futuro rapporto con un nuovo governo nato dalla parte ribelle. Inoltre sono sul piato i rapporti con gli USA, che non tollererebbero uno sganciamento repentino. Per Berlsconi il problema è scottante, si trova letteralmente tra l'incudine ed il martello.

giovedì 16 giugno 2011

L'asse Mosca-Pechino

"La comunità internazionale può portare un aiuto significativo per non lasciare deteriorare la situazione, ma nessuna forza straniera si deve ingerire negli affari interni delle nazioni". Questa è la dichiarazione congiunta di Russia e Cina, sottoscritta da Dmitri Medvedev e Hu Jintao, durante la visita del premier cinese a Mosca. I due paesi sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU e la dichiarazione rappresenta più di una dichiarazione di intenti, si tratta di una pietra tombale quasi definitiva, sulle speranze di risolvere, per via militare, tramite la benedizione dell'ONU, le crisi che si stanno man mano affacciando nel teatro internazionale. Cina e Russia auspicano l'adozione di mezzi che passino solo per la via pacifica per risolvere i conflitti. E' palese che questo mezzo sia il migliore ma non sempre la via del negoziato pare percorribile. D'altra parte la dottrina abbracciata da Cina e Russia, riguardo alla politica internazionale, non contempla, come già molte volte ribadito, l'ingerenza degli affari interni dei paesi coinvolti. La posizione non è contestabile e rappresenta un legittimo modo di rapportarsi con altri stati, d'altro canto, però, il veloce cambiamento degli assetti del panorama internazionale, impone anche, specialmente alle organizzazioni internazionali, ed in particolar modo all'ONU, una risposta che richiede sempre di più il requisito della rapidità. Talvolta bloccare in lunghe ed estenuanti trattative, situazioni particolarmente e potenzialmente esplosive può essere molto pericoloso. La conseguenza immediata di questa decisione sino-russa, sarà l'impossibilità di ricorrere all'ombrello ONU, come copertura dell'intervento militare, ciò provocherà, se e quando si renderà necessario, che i protagonisti dovranno agire in proprio. Questo fatto renderà senz'altro più complicate le relazioni internazionali e si porrà sempre più frequentemente la domanda sull'utilità della stessa ONU. Infatti l'atteggiamento di Pechino e Mosca blocca sul nascere lo spazio di manovra militare delle Nazioni Unite. Con questo fatto non sembra più rinviabile una riforma dell'ONU, come già richiesto dalla Merkel, in modo da garantire una indipendenza politica e di manovra effettiva.

L'ONU denuncia la Siria

L'ONU denuncia pubblicamente la repressione siriana. Sono state infatti arrivate numerose denunce, riguardo a torture ed uccisioni, presso l'ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite. A rivolgersi all'ufficio dell'ONU sono stati diversi testimoni e molte vittime delle forze di sicurezza siriane. Secondo queste denunce i morti sarebbero 1.100 ed i detenuti oltre 10.000. Tra i morti numerosi si contano i donne e bambini. L'accanimento delle forze siriane è stato tale anche verso i feriti, impedendo loro di essere soccorsi e curati dal personale medico. Il regime siriano ha colpito diversi civili disarmati mediante l'uso di cecchini posti sui tetti di palazzi pubblici in zone molto popolate. Negli ultimi giorni sono entrati in azione anche elicotteri, che hanno colpito dal cielo, specialmente nella città di Jisr al Shughur. Intanto continua la fuga verso il territorio turco di diversi profughi siriani, che sono costretti alla fuga per potere salva la vita. Sul fronte dell'informazione continua il divieto del regime per i giornalisti stranieri, che non possono documentare le violenze di Assad. Nel frattempo, a Damasco il governo ha organizzato una manifestazione imponente di sostegno al regime, richiamando nelle vie principali un gran numero di persone. La strategia del governo siriano è di addebitare la situazione del paese a gruppi terroristici che agirebbero su ispirazione straniera. La presa ufficiale dell'ONU pone ora la Siria in una posizione più scomoda, perchè pone all'attenzione del Consiglio di sicurezza la situazione nel paese. Pare, tuttavia, difficile che si arrivi, nell'immediato, ad una risoluzione che preveda l'uso della forza, come per la LIbia. Russia e Cina, già bruciate, per la loro astensione, che ha garantito l'intervento militare, sono sempre più restie ad entrare nelle sfere di interesse interno di altri stati ed il prolungato impegno libico delle forze occidentali, non fa che giocare a favore del regime di Assad.