Politica Internazionale

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martedì 31 gennaio 2012

La Russia non condanna Assad

Dietro al peggioramento della situazione in Siria, dove aumentano i morti per le repressioni di Assad, vi è anche la mancata compattezza del mondo diplomatico. Infatti, se da una parte UE ed USA, ma non solo, visto le ultime risoluzioni della Lega Araba, spingono per una risoluzione della situazione, che tarda però ad arrivare, e si interrogano sulle possibili modalità di intervento per fermare le vere e proprie strage che si stanno compiendo sul territorio siriano, Cina, ma sopratutto Russia, frenano, sopratutto in sede ONU, ogni eventuale azione di contrasto al regime di Damasco. Si è tentato di interpretare più volte questa tendenza con l'assunto fondamentale che governa la politica estera dei due colossi ex comunisti, che si concretizza nella minore ingerenza possibile negli affari interni degli altri stati. Anche la scottante esperienza, per il loro punto di vista, che i due stati hanno vissuto con l'astensione all'intervento in Libia, concessa dopo molti dubbi e perplessità, nella sede del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che ha dato il via al conflitto contro Gheddafi, costituisce un precedente pericoloso per riuscire a coinvolgere Mosca e Pechino in un'altra azione analoga, anche solo a livello diplomatico, questa volta contro la Siria. I governi dei due paesi sono ritornati più volte su quell'astensione, strappata quasi con l'inganno dall'Occidente, come errore di politica internazionale da non ripetere nella loro azione sul panorama internazionale. Tuttavia ciò potrebbe non essere sufficiente a giustificare, ma sopratutto a comprendere, la mancata azione contro la violenza di Assad. Ciò vale per la Cina ma ancora di più per la Russia, che ha, invece, altre ragioni per contrastare, con la sua immobilità, i pur flebili tentativi di mettere un fermo a quella che è ormai diventata una vera e propria guerra civile, dove hanno perso la vita oltre cinquemila persone. Per Mosca, alle prese con l'indipendentismo delle Repubbliche del Caucaso, Assad costituisce una diga, che impedisce l'allargamento delle istanze dei ribelli siriani ai suoi territori. La Russia per continuare a coltivare sogni di grande potenza, cioè di ritornare ad essere tale, deve impedire ogni possibile forma di disgregazione dei suoi territori, ma non solo, deve evitare di avere stati ai suoi confini dove l'islamismo più estremo possa prendere il potere. Ma non sono solo gli assetti geopolitici a preoccupare Mosca, la Siria di Assad rappresenta un partner commerciale importante per la Russia nel mercato degli armamenti, grazie ai consistenti acquisti fatti da Damasco per rimodernare il proprio arsenale. Inoltre la flotta militare russa è presente, con una sua base, nel territorio siriano, nella città di Tartus. Esistono quindi dei motivi che vanno al di là della regola del non intervento negli affari interni di un paese straniero, che Mosca afferma caratterizzare la propria politica estera. Ma questa posizione della Russia appare di insostenibile immobilità di fronte ai possibili problemi che potrebbero nascere dalla caduta di Assad; l'azione del governo russo, con questa condotta, rivela un atteggiamento di mancata novità rispetto alle questioni che si evolvono nella periferia del suo territorio e che non sembra essersi evoluto di molto rispetto alle posizioni sovietiche. Senza una prospettiva di più larghe vedute, nel tempo, la Russia è destinata a capitolare su quegli argomenti che ora la tengono ancorata su posizioni di estrema prudenza diplomatica. Non affrontare con una politica lungimirante i problemi che la assillano dall'interno in specifiche porzioni del suo territorio, rende Mosca una potenza incompiuta e di secondo piano e che, malgrado le sue risorse naturali, non può contare nemmeno sullo strapotere economico che caratterizza la Cina. Viceversa risolvere i conflitti indipendentisti e le difficili relazioni con l'avanzamento della religione islamica, senza ricorrere all'uso della forza, ma con una politica più democratica, potrebbe permettere a Mosca di essere più libera anche sul piano internazionale, senza dovere contare su alleanze, ormai insostenibili come quella siriana.

lunedì 30 gennaio 2012

Sulla Grecia l'intollerabile proposta tedesca

La pretesa tedesca di mettere sotto la tutela di un commissario UE il paese greco, va oltre ogni possibile intrusione tollerabile. Se messa in atto questa misura significherebbe la fine della sovranità del popolo ellenico sul suo territorio e la sua gestione ed andrebbe a costituire un precedente pericoloso, che la dice lunga sulle velleità della Germania. Nonostante la difficile situazione, più volte definita disperata, della Grecia, non si può dire che il governo di Atene non abbia sottoposto i suoi cittadini a misure economiche durissime, che ne hanno peggiorato in maniera considerevole la qualità della vita. Non è questa la sede, ne l'intento, per valutare la validità di questi provvedimenti, ma piuttosto registrare un fatto di rilevanza politica internazionale di una gravità inaudita. A prescindere dalle cause del disastro greco, sul quale però è bene ricordare i lauti guadagni anche delle banche tedesche, risulta inconcepibile come nel 2010 un paese possa volere imporre la propria volontà su di un'altro in maniera così sfacciata, ed ancora più grave è che ciò accada nella cornice dell'Unione Europea e nel quasi totale silenzio delle istituzioni centrali di Bruxelles. E' pur vero che la Germania è ormai il socio di maggioranza dell'euro, ma un simile comportamento non è tollerabile, perchè mina le fondamenta stesse dell'Europa. Diventa così necessario mettere un freno a questa volontà dirigista della Merkel, che sconfina in un autoritarismo da fermare ad ogni costo. Le ragioni di una tale sortita, vanno ricercate nella difficoltà della cancelliera con il proprio corpo elettorale, che non comprende che le ragioni della sopravvivenza stessa dell'economia tedesca sono intimamente legate alla salvezza dell'euro. Ma tale difficoltà non giustifica lo scivolone politico commesso nel volere togliere la propria sovranità alla Grecia. La dichiarazione d'intenti della Merkel diventa così un pericoloso programma, che rischia di diventare un precedente autoritario da applicare ad altri paesi in crisi, andando a prefigurare scenari inquietanti come la sospensione delle regole e della vita democratica, in nome di dati economici poco chiari e verificabili. E' chiaro che questa allerta vale non solo per la Germania ma per ogni altro attore che volesse farsi portatore di simili iniziative. Infatti non sarebbe tollerabile nemmeno se la proposta fosse venuta dalle Istituzioni Europee centrali, perchè sarebbe comunque una violazione del diritto internazionale ed andrebbe a costituire una interruzione dell'esercizio della sovranità democratica di un intero popolo. Questa evoluzione delle possibili soluzioni della crisi dell'euro costituisce una casistica fin qui non prevista dagli analisti politici, che dovranno colmare in fretta questo vuoto. Infatti, nonostante si speri che questa soluzione non sia praticata, occorre immaginare i possibili scenari che potrebbero innescarsi. Obiettivamente è molto difficile che qualsiasi nazione, sopratutto occidentale, possa accettare una tale risoluzione, inoltre la Grecia è uscita da una dittatura in tempi relativamente recenti e volerne imporre un'altra, per di più di matrice straniera, non sembra la migliore soluzione per salvare la moneta unica. Forse l'intenzione della Merkel era una dichiarazione ad uso e consumo interno, ma se così fosse, appare impossibile non rilevare l'imperizia di chi guida la prima nazione europea. Viceversa se quanto dichiarato corrisponde ad una reale intenzione la cosa che avrebbe dovuto scattare immediatamente, dovrebbe essere stata una univoca dichiarazione dei capi di stato contro questa proposta. Così non è stato. Questo significa che il pericolo di una sospensione dei diritti democratici in nome di aggiustamenti economico finanziari dell'area dell'euro non è poi una idea così peregrina. Il rischio concreto, Dio non voglia sia così, è di avviare l'Europa ad un avvicinamento con i metodi produttivi ed i suoi corollari, propri del sistema cinese? Ma se così fosse quello che aspetta il vecchio continente è una fase storica di confusione continua e di povertà pressochè totale. Una soluzione, per la verità ancora troppo poco battuta, è la costituzione, finalmente, degli Stati Uniti d'Europa, una unione dove tutti i popoli europei che lo vogliono, siano insieme in modo politico certo e dove lo strumento della moneta unica sia soltanto accessorio all'unità politica e di indirizzo.

venerdì 27 gennaio 2012

Nel futuro sempre più guerre non saranno dichiarate

Il sistema della difesa degli USA cambia impostazione. Le forze armate statunitensi subiranno una drastica riduzione di uomini, ma non abbasseranno la propria capacità di intervento. Il futuro delle forze armate sarà potenziare le truppe di elite, gli apparati radiocomandati, come i droni e tagliare la quantità a favore di una maggiore qualità, potenziando le eccellenze. I cambiamenti degli scenari internazionali impongono, dunque una revisione basata su interventi non più in grande scala, ma imperniati su azioni rapide e chirurgiche, sul modello dell'eliminazione di Bin Laden. Questo non vuole dire diminuire gli investimenti, che anzi in tecnologia saranno aumentati, ma contenere i costi di gestione imposti da un esercito numeroso. Diventa così sottointeso che le guerre in grande scala, che prevedono un impegno temporale lungo, escono dalla futura agenda della Casa Bianca. Fondamentale sarà l'appoggio di un servizio segreto capace di operare al meglio dietro le quinte per permettere l'incisività dell'azione mirata ed anche lo sviluppo di una rete di contatti a livello ufficiale con gli stati alleati, maggiormente basata sulla fiducia e sullo scambio continuo di informazioni. Esiste, tuttavia, una considerazione da fare sulla base del diritto internazionale, sempre più spesso, infatti, e non è pratica dei soli Stati Uniti, si registrano azioni militari compiute su territorio straniero, senza che sia seguita la prassi della dichiarazione di guerra o per lo meno del permesso del paese sulla cui terra queste azioni vengono compiute. Questo perchè in numerosi casi ci si trova davanti a conflitti non dichiarati, il cui sviluppo viola il diritto internazionale condiviso. Il già citato esempio dell'eliminazione di Bin Laden è l'esempio più famoso di queste pratiche, ma ogni giorno vengono usati droni per bombardare o soltanto per compiere ricognizioni su territori di nazioni che sono considerate nemiche o che possono ospitare avversari terroristici. Spesso vengono usati anche mezzi convenzionali come l'impiego dell'aviiazione con personale a bordo o ci si trova di fronte a sconfinamenti di truppe, come nei casi degli eserciti turco ed iraniano, nelle rappresaglie avvenute contro i curdi in territorio iraqeno. La sterzata ufficiale degli USA, che praticava già queste forme di guerra, registra soltanto la certezza della direzione nella quale si svilupperanno i conflitti del futuro. Siamo e saremo di fronte, cioè, ad atti che possono essere considerati come terroristici, perchè compiuti al di fuori della normale prassi prevista dal diritto internazionale. Questa tendenza non è certo da considerarsi positiva, perchè potrebbe dare il via ad azioni e reazioni totalmente al di fuori delle norme. E' facile prevedere un ricorso sempre più massiccio a strutture internazionali, come l'ONU o il tribunale dell'Aja, che potenzialmente si troveranno a decidere su fatti che andranno ad infrangere le norme vigenti, ma senza la necessaria capacità sanzionatoria, interrotta proprio dall'estensione della nuova pratica di guerra. In senso generale una azione militare è da evitare fino all'utilizzo dell'ultima opzione disponibile che possa scongiurarla, ma una azione compiuta da uno stato senza il necessario corollario normativo è destinata a giustificarne altre, venendo così a creare l'uscita dai canoni del diritto. Senza un freno condiviso siamo di fronte alla totale imposizione della esclusiva legge del più forte. E' chiaro che questa è la massima estremizzazione, perchè nel mezzo esiste ancora un ruolo della diplomazia, ma in concreto l'ipotesi è ormai più che un caso di scuola.

In Tibet torna la repressione cinese

Nel Tibet si riapre una stagione di violenza e repressione. Gli episodi di questi giorni riportano la regione alla drammatica situazione del 2008, con manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza di Pechino, che si vedono costrette a reagire all'ondata di ribellione provocata da una lunga serie di suicidi di monaci, che si danno fuoco dopo essersi cosparsi di carburante. L'alta drammaticità del metodo del suicidio, giunta ad una alta spettacolarizzazione, ha un grande potere sulla popolazione ed è infatti molto temuta da Pechino, sia perchè ha una gran presa sulla folla dei tibetani, sia perchè suscita sdegno profondo nell'opinione pubblica internazionale. Il fatto che Pechino abbia ammesso la presenza di morti, un comportamento molto differente da quello solito di chiusura totale sull'argomento Tibet, può soltanto significare che la situazione sta degenerando pericolosamente. Il centro della protesta si trova nella provincia di Sichuan, nella città di Seda, che è sottoposta al coprifuoco e risulta completamente isolata perchè circondata dalle truppe cinesi. Anche nel distretto di Aba, sempre nel Sichuan, vi sono tensioni. I rivoltosi hanno attaccato le forze cinesi con pietre e bombole di gas e nella zona del distretto di Luhuo, un monastero sarebbe assediato perchè vi si sarebbero rifugiati diversi rivoltosi. Il tema centrale rivendicato dai dimostranti verte, oltre alla libertà del Tibet, sulla continua opera di sradicamento delle tradizioni, usi e costumi autoctoni; processo che Pechino porta avanti per nazionalizzare il Tibet e piegarlo così ad un atteggiamento più malleabile verso la Cina. La politica cinese in Tibet segue un approccio composto da un misto di violenza fisica unito ad una politica che tende a normalizzare il territorio mediante una azione scientifica tesa ad erodere l'identità culturale, religiosa e linguistica del popolo tibetano, con il fine di assumerne l'assoluto controllo. Le normali resistenze di un popolo, che nutre per i propri valori un attaccamento assoluto, costituiscono, anche grazie al notevole apporto del fattore religioso, un ostacolo che Pechino, negli anni, non ha mai saputo gestire. Non sono bastati infatti l'ingente spiegamento militare ed i massicci inserimenti di cittadini cinesi nelle zone tibetane allo scopo di scalfire la presenza preponderante degli elementi culturali locali. La Cina per giustificare le repressioni compiute ricorre al solito ritornello delle dittature in difficoltà, che è quello di accusare gruppi, o addirittura nazioni straniere di soffiare sul fuoco delle rivolte, per fomentare le istanze separatiste ed in ultima analisi minare l'integrità territoriali cinese. Il problema è molto sentito dalle autorità di Pechino per le evidenti ripercussioni sul piano internazionale. Nonostante l'influenza economica cinese, capace di soffocare lo sdegno delle nazioni più potenti, si deve ricordare ancora il voltafaccia del vicepresidente americano Biden sull'argomento, ci sono state alcune eccezioni, la più rilevante delle quali è stata l'atteggiamento della cancelliera Merkel; ma esiste una grande quantità di pressione esercitata da movimenti pacifisti ed organizzazioni di pensiero capaci comunque di sollevare il problema in maniera molto rilevante sul piano internazionale. Dopo lo schiaffo del Nobel al Dalai Lama, Pechino, proprio a causa delle proprie ambizioni di protagonismo nel teatro internazionale non può permettersi altre forme di pressione sui diritti civili oltre a quelle che già patisce sul fronte propriamente interno. Tuttavia l'amministrazione cinese non può cedere sul fronte interno alla protesta tibetana, un cui eventuale successo, anche di ridotte dimensioni, potrebbe rappresentare una crepa nell'efficiente sistema volto a normalizzare l'impero. La questione non è di poco conto, perchè su di essa si basa il progetto espansionistico economico cinese da percorrere mediante un pugno di ferro sistematico all'interno del proprio territorio da praticare senza cedimenti. Difficile fare una previsione positiva sul futuro del Tibet, che deve restare un esempio, se possibile da contrastare, su come le dittature cercano di distruggere le tradizioni dei popoli sottomessi per cancellare ogni forma di opposizione.

mercoledì 25 gennaio 2012

Obama inizia la campagna elettorale

Barack Obama entra in campagna elettorale, con un discorso rivolto alla nazione molto americano, che punta sui calori unificanti degli Stati Uniti, ma che, nel dare speranza ai cittadini ed elettori statunitensi, punta anche a mascherare molti promesse non mantenute ed obiettivi mancati. Il ritornello di una America più giusta, con eguali opportunità e regole uguali per tutti va sempre bene per tutte le occasioni, ma il presidente uscente dovrà convincere i suoi concittadini e spiegare il perchè se nei quattro anni appena trascorsi non si sono raggiunti questi traguardi, dovrebbe riuscirci nei prossimi quattro. La visione di Obama è che gli USA, rispetto al 2008, sono migliori, in realtà ciò in assoluto non è vero perchè i dati economici parlano chiaro, ma se si pensa ad una nazione guidata da un presidente repubblicano nel periodo 2008-2012, periodo attraversato da turbolenze economiche che non si verificavano da decenni, che avesse guidato la nazione con una politica di sfrenato liberismo, il risultato, in termini di povertà e maggiore diseguaglianza, ed in ultima analisi la condizione generale della maggioranza della popolazione, sarebbe stato ben peggiore di quello ottenuto dal presidente uscente. Quindi uscendo dai freddi numeri assoluti e pensando a quello che potrebbe potuto essere, Obama non ha poi fatto male, anche se non ha fatto abbastanza. A parziale scusante occorre dire che per la metà del suo mandato, il presidente USA, si è dovuto rapportare con un potere legislativo in mano al partito repubblicano, che non ne ha certo appoggiato la politica e le intenzioni. Il non avere le mani libere, giunta con la mancanza di necessario coraggio, ed anche capacità politica, per scardinare consuetudini ormai consolidate, ha generato una immagine di Obama in netto contrasto con quella creata in campagna elettorale, sulla quale si è addensata una quantità di speranze ed aspettative, obiettivamente difficile da mantenere, sopratutto in una situazione di difficoltà economica conclamata. Tuttavia, favorito anche dal ritornato clima elettorale, il presidente uscente riconferma la propria volontà, che è anche programma politico annunciato, di fare pagare più tasse ai ricchi per creare la possibilità di maggiori investimenti nella sanità, nella scuola e nella ricerca. Questa è soltanto la base di partenza per per impedire il ritorno alle politiche liberiste, specialmente praticate dagli anni ottanta in poi, dei repubblicani, individuate come le vere cause dello sfascio americano. Non si può dare torto ad Obama a colpevolizzare queste politiche, che tanti danni hanno fatto anche nel resto del mondo, il problema è che nei quattro anni trascorsi alla Casa Bianca, non si sia praticata una alternativa efficace, seppure per i limiti sopra considerati, che sapesse ribaltarne gli effetti. Tuttavia gli sfidanti possibili vanno nel senso opposto a quello nel quale Obama vuole andare, in questo senso il tentativo di proporsi come ideale rappresentante della classe media, per tutelarne gli interessi, fa compiere ad Obama un salto di qualità nella propria campagna elettorale. In effetti fare riguadagnare posizioni, o anche semplicemente cercare di mantenerne la posizione, nella scala sociale alla classe media, rappresenta il migliore investimento elettorale di fronte alla deriva liberista. La costruzione di uno stato sociale con basi consolidati e risultati certi, può rappresentare, malgrado tutte le promesse non mantenute, la principale trincea contro una possibile avanzata repubblicana. Anche se, malgrado il basso gradimento nei sondaggi del presidente uscente, il livello degli sfidanti è talmente basso, sia per i personaggi in se, che per i loro programmi, che
Obama pare, in questo momento, il favorito più accreditato per la vittoria finale, semmai un punto debole nel suo programma elettorale è la mancanza della presentazione di una visione che punti alla supremazia americana, al pensare in grande, anche in politica estera, temi a cui l'elettorato americano è sempre sensibile, anche se ultimamente in maniera minore per il crescente interesse per i temi economici. Tuttavia l'accresciuto livello di pragmatismo dell'americano medio non può non essere sollecitato dalla ricchezza dei temi riguardanti l'economia, sia in senso stretto, che in senso allargato, presenti nel programma elettorale di Barack Obama, temi che nei programmi degli sfidanti repubblicani restano ancora a livello nebuloso e contraddittorio, andando a costituire il vero tallone d'Achille degli sfidanti.

martedì 24 gennaio 2012

Partono le sanzioni all'Iran

L'azione congiunta di USA e UE, con il supporto fondamentale dell'Arabia Saudita, permetterà di dare avvio alla sanzioni contro l'Iran a causa del problema nucleare. Riyad è in grado, con la propria produzione in eccesso, di compensare il mancato apporto dei barili iraniani sul computo totale della produzione. Inoltre l'introduzione graduale delle sanzioni permetterà una ricaduta più morbida sul sistema economico mondiale. Proprio per questo motivo gli analisti internazionali sono propensi a credere che non vi sarà un aumento del greggio, particolarmente temuto in questa fase della congiuntura economica. Questo aspetto costituisce una ulteriore sconfitta per la tattica di Teheran, che puntava proprio sugli effetti negativi di un possibile aumento del greggio, per scongiurare le sanzioni a suo danno. Nel contempo, però, è anche un possibile elemento di accelerazione della tensione e dell'esasperazione dell'Iran, che si vede ormai accerchiato, e che potrebbe portare a mettere in pratica decisioni estreme, come il più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz. Anche perchè il possibile avvicinamento con la Cina, che non sostiene le sanzioni, dal punto di vista commerciale non è avvenuto, dato che Pechino, ha ridotto gli acquisiti di greggio iraniano sulla base di una controversia per i pagamenti, ed ha aumentato le proprie forniture da Venezuela, Kazakhistan ed Iraq, in modo da mantenere inalterate le quote in entrata del numero dei barili. L'atteggiamento cinese ha così rappresentato una elegante via di uscita sul piano diplomatico, che gli ha permesso formalmente di non allinearsi agli USA, ma che in concreto, ne ha messo in pratica la politica antinucleare dell'Iran. E' proprio questo, dal punto di vista dell'analisi internazionale, il dato più rilevante: Pechino, aldilà delle dichiarazioni di facciata, con questa manovra mostra chiaramente di non gradire lo sviluppo di una potenza nucleare in mano a radicali islamici, vicino ai propri territori. Teheran, che credeva di fare leva su di una rivalità tra Washington e Pechino, esce totalmente sconfitto sul piano diplomatico ed a questo punto poco possono valere le gite propagandistiche di Ahmadinejad in quei paesi che una volta si sarebbero definiti non allineati. Resta ancora la soluzione di bloccare lo stretto di Hormuz, da dove transita il 20% della domanda globale di petrolio del mondo. Questo tentativo estremo di scongiurare le sanzioni, che avranno un effetto decisamente negativo sull'economia iraniana, potrebbe provocare un rialzo incontrollato del prezzo al barile, si stima fino a 200 dollari, provocando una recessione mondiale, che se dovesse verificarsi anche per un periodo non lungo, complicherebbe di non poco la già difficile situazione economica del pianeta. Conviene a Teheran intraprendere una tale misura? La reazione del mondo intero, o almeno della maggioranza delle nazioni, a quel punto, non potrebbe essere che rapida, proprio per accorciare il più velocemente possibile i giorni di blocco dello stretto. L'ipotesi di un conflitto di mare sembrerebbe la più probabile, ma anche il bombardamento tanto caldeggiato dagli israeliani potrebbe concretizzarsi perchè permetterebbe tempi di risoluzione più breve. Ahmadinejad è conscio di questo sviluppo e seppure dotato di una forza armata tutt'altro che da sottovalutare, non potrebbe che avere la peggio. Dunque il blocco di Hormuz parrebbe meno probabile, nonostante le minacce, più facile che il governo iraniano continui la sua protesta per l'ingerenza interna sulpiano diplomatico e propagandistico, supportata da una azione diplomatica che possa portare nuovi alleati alla propria causa, lasciando, di fatto, in stallo la questione e continuando al proprio interno nello sviluppo del progetto nucleare. Ma se, alla fine, Teheran riuscirà ad avere la sua atomica, la prospettiva sarà per forza variata.

lunedì 23 gennaio 2012

Il punto della situazione della difficile transizione democratica ad un anno dalle rivolte

Ad un anno di distanza dall'inizio del processo dell'abbandono dei popoli nord africani della tirannia e dopo la conclusione dell'operazione in Iraq degli USA, sembra opportuno compiere alcune riflessioni sul cammino della democrazia e sui passi avanti che le nuove istituzioni dei paesi coinvolti nel passaggio della forma di goveno stanno compiendo. Innanzitutto, a prescindere dalle vere ragioni che hanno mosso gli interventi occidentali, occorre chiedere se l'apporto esterno ha consentito, oltre al successo militare, anche una maturazione, sia delle strutture alternative a quelle contestate e decadute e se, nel contempo gli strati sociali sono stati capaci di favorire la transizione democratica. Ma ancora prima è necessario domandarsi con quale tipo, livello e grado di democrazia si vuole misurare questi progressi. Non è possibile, infatti, confrontare situazioni ormai sedimentate da anni, grazie a strutture sociali ben definite e forme di partecipazione alla vita politica diffuse e la cui accessibilità è garantita, con situazioni di totale novità all'introduzione della vita democratica. In questo senso, pur registrando il successo dell'abbattimento del regime di Saddam, gli USA hanno compiuto un errore di valutazione marchiano, credendo che fosse sufficiente eliminare la causa della mancanza di democrazia per riempirne il vuoto. Non è stato così. L'Iraq odierno è uno stato di polizia, in preda al terrore continuo, proprio perchè gli americano non hanno saputo consentire la crescita di quella parte sociale che poteva generare le condizioni per lo sviluppo della vita demcocratica. E' vero che la NATO ha imparato la lezione, perchè in Afghanistan, oltre che alla lotta armata, si è puntato sul coinvolgimento della popolazione mediante la costruzione di infrastrutture, quali scuole ed ospedali, che possono costituire il germe fondativo su cui aprire la libertà di confronto. Ma ancora questo è insufficiente, perchè il paragone è con situazioni di totale differenza da quelle occidentali, come la condizione femminile o la divisione tribale, che non permetteranno, forse mai, di raggiungere gli standard dell'ovest del mondo. Nell'Africa settentrionale le cose vanno in una direzione simile: a parte la Tunisia, dove il risultato elettorale ha comunque destato preoccupazioni agli occidentali per l'affermazione dei movimenti religiosi islamici, peraltro avvenuta in una situazione di totale regolarità del voto, in Libia ed Egitto, la transizione democratica appare ingolfata per problemi, seppure differenti, di chiara origine interna. Sulla Libia la previsione era facile, che la strada verso la democrazia non sarebbe stata agevole, dopo l'asprezza del conflitto che ha portato alla morte di Gheddafi, appariva quasi scontato. La causa ostativa maggiore è la struttura sociale divisa rigidamente in forma tribale, questi compartimenti stagni della società, non favoriscono una apertura trasversale, necessaria alla creazione di partiti, che possano caratterizzarsi, seppure da angolazioni politiche diverse, per la presentazione di programmi politici di ambito generale. L'ostacolo, malgrado i concreti tentativi di parte dei protagonisti politici libici, è obiettivamente difficile, ed ha già costituito dissidi pesanti in seno al CNT, proprio nella sua sede principale di Bengasi, centro nevralgico della rivolta. Il punto è cruciale perchè se non si oltrepassa la visione esclusivamente tribale la divisione permane ed il rischio di una ulteriore guerra civile è dietro l'angolo. Questa volta all'occidente non si possono imputare grandi colpe, se non di non avere investito abbastanza negli aiuti extra militari alle nascenti istituzioni libiche, che hanno in definitiva bisogno di creare un bagaglio culturale alla popolazione in generale per assuefarsi alla pratica democratica oltre la divisione in clan. Per l'Egitto la situazione è ancora differente, giacchè sono stati gli stessi egiziani a cadere nella trappola della tutela militare nel passaggio alla democrazia. Quella egiziana è stata, anche per l'importanza del paese, la rivoluzione più seguita e forse più analizzata dai media occidentali. Il paese, nonostante anni di dittatura ha mantenuto una vitalità culturale, che ha permesso una presenza articolata di movimenti e partiti, anche se fuori legge, che parevano essere l'ideale terreno di coltura per facilitare ed assorbire in tempi brevi la democrazia. Il ruolo di mediazione dell'esercito ha consentito una transizione da Mubarak, che ha limitato le perdite umane, che potevano essere più ingenti senza un cuscinetto tra i contendenti. Ma questo ruolo, che all'inizio è stato visto con favore dalla parte dei manifestanti che volevano la caduta della dittatura, non si è evoluto in senso democratico e le forze armate stanno procrastinando questa funzione che si sono auto affidati, mantenendo il paese in una sorta di limbo che ne prevede la tutela, impedendo di fatto la piena transizione alla democrazia. Sulle ragioni di questa impasse, si è intravista anche la possibilità di un interesse USA, per non lasciare l'Egitto ad una potenziale deriva islamica, che comprometta la posizione israeliana nella regione. I rapporti tra le forze armate egiziane e gli Stati Uniti possono fare credere alla veridicità di questi sospetti, tuttavia la situazione non potrà continuare all'infinito, se vi è una verità in queste congetture, meglio sarebbe per Washington lavorare direttamente con tutte le parti che possono concorrere alla formazione di un governo democraticamente eletto. Peraltro sulle buone intenzioni di tutte le parti che hanno contribuito alla caduta della dittatura, non sembrano esservi dubbi: le relazioni tra i movimenti ed i partiti di orientamento più diverso sono tali da potere permettere una transizione pacifica verso una democrazia che, nell'intero panorama, potrebbe avvicinarsi maggiormente ai criteri occidentali.