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martedì 3 luglio 2012

L'Inghilterra vuole uscire dall'Europa?

Il pensiero anti europeo inglese si concretizza nella possibilità di effettuare un referendum per uscire dall'Unione Europea, come ha prospettato il premier Cameron. L'euro scetticismo di Londra non è una novità, l'adesione alla casa comune europea è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento tiepido, tipico di chi voleva sfruttare le possibilità derivanti dall'adesione con Bruxelles, senza, però, condividerne i lati meno vantaggiosi per il proprio sistema. L'impulso di unificazione europea dato dall'adozione della moneta unica è stato subito scartato in nome della sterlina, paravento di ragioni ben meno di bandiera. In realtà Londra non ha mai pensato seriamente di contribuire alla costruzione di una potenza europea, sopratutto dal lato politico e mascherando questa intenzione con ragioni economiche. L'incremento della crisi finanziaria ha poi aggiunto ulteriori perplessità ad una adesione al progetto europeo già poco convinta. In effetti attualmente i motivi politici sono ormai diventati equivalenti a quelli economici. L'Inghilterra non può tollerare le restrizioni, che saranno sempre più stringenti, che Bruxelles imporrà agli stati membri, in nome degli accordi recentemente sottoscritti in materia di debito e bilancio e che sono destinati a creare perdite consistenti di sovranità da parte dei governi nazionali. Per una nazione che ha perso il suo tessuto industriale e manifatturiero e che ha come principale attività la finanza, è impossibile accettare di non avere le mani libere da controlli sulla speculazione, significherebbe perdere consistenti quote di mercato, sopratutto a causa del contrasto di quelli canali speculativi operanti da Londra, che sono oggetto di attenzione da parte delle istituzioni europee. Quello che Cameron teme di più è la crescente influenza che sta acquistando l'area dell'euro su argomenti riguardanti l'intera Unione Europea, anche, quindi, su quella parte che non ha e non intende aderire alla moneta unica. La destinazione presa da Bruxelles prevede come punto di arrivo una maggiore integrazione politica, che riguarderà sia i già citati aspetti fiscali, che la politica estera e la difesa. Si tratta di argomenti sui quali i governi inglesi, di ogni colore, hanno sempre mostrato una certa ritrosia a rinunciare alla propria autonomia, ma il rovescio della medaglia è che un Regno Unito fuori dall'Unione Europea perderebbe, inevitabilmente, peso politico ed autorevolezza, riducendosi a diventare un alleato subalterno agli Stati Uniti. Neppure la strada di una rinegoziazione degli accordi con la UE pare una via praticabile, seppure l'atteggiamento comunitario è stato fino ad ora anche troppo paziente con Londra, non appare verosimile che Bruxelles conceda altri vantaggi agli inglesi senza contropartite adeguate. Se, infatti, l'Unione Europea può tranquillamente permettersi l'uscita della Gran Bretagna, acquisendone addirittura dei vantaggi, l'isolazionismo a cui rischia di condannarsi Londra non può che significare diventare un paese di secondo piano, dal punto di vista politico e diplomatico e più povero da quello economico. Certo il Regno Unito può diventare una sorta di paradiso fiscale, come Cameron ha scorrettamente proposto ai ricchi francesi in caso di aumento delle tasse patrimoniali, come previsto dal programma elettorale di Hollande, ma una tale politica non farebbe altro che accelerare l'indebolimento inglese nei confronti degli ex partner europei. E' palese che senza una trasformazione radicale della propria economia Londra non può che stare a metà del guado, ma è l'atteggiamento delle istituzioni europee che deve cambiare per mettere fuori dai trattati chi non aderisce al progetto di unificazione europea, l'unico che può permettere al vecchio continente di stare al passo dei colossi che dominano la scena mondiale.

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