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mercoledì 19 giugno 2013

La difficile situazione delle trattative per l'Afghanistan

La triangolazione USA, Afghanistan e talebani per portare il paese alla pace continua a subire battute d’arresto, che non facilitano una soluzione positiva. Nell’ultimo episodio, il presidente afgano ha sospeso i negoziati per l’accordo di sicurezza bilaterale con gli Stati Uniti. Dietro a questa decisione ci sarebbe il disappunto della massima carica del paese per la annunciata ripresa delle trattative tra i rappresentanti dei talebani e l’amministrazione americana. Il tutto sta avvenendo in un clima surriscaldato da continui attentati contro le forze NATO, per la mancata volontà della proclamazione del cessate il fuoco da parte degli integralisti islamici. Gli USA appaiono in un cul de sac, provocato dalla loro decisione di ritirare le truppe, decisione avversata da Hamid karzai, conscio delle difficoltà di mantenere il controllo sul territorio con le sole truppe regolari, ma anche dalla strategia che prevede trattative ad oltranza con i loro nemici più forti. I talebani rifiutano anche di riconoscere l’autorità del presidente afgano, in quanto espressione di un governo filo occidentale ed illegittimo ai loro occhi. La tattica dei combattenti islamici è stata quella di accettare e rifiutare, a tempi alternati, i colloqui di pace, in un gioco estenuante per una diplomazia regolare come quella americana, che, infatti, non ha ottenuto ancora alcun risultato. Prova evidente sono gli attentati e le imboscate contro le truppe occidentali, che dimostrano una volontà in senso contrario alla pacificazione, tuttavia gli americani sono costretti a giocare su due tavoli contemporaneamente per uscire dal pantano dell’Afghanistan. Da una parte i colloqui con le autorità di Kabul servono per concordare una uscita di scena onorevole e nello stesso tempo cercare di assicurare la continuità all’amministrazione afgana, dall’altra parte, è ormai evidente, che senza una forma di accordo con i talebani, la prima parte del teorema americano non può avverarsi. Questa dichiarazione di resa rende gli integralisti particolarmente forti nelle loro posizioni, specialmente in quella di non volere riconoscere il presidente che siede a Kabul. Questo ultimo passaggio rappresenta il vero anello debole della catena, quello senza il quale non si può raggiungere alcun risultato. L’incomunicabilità tra i talebani ed il governo di Kabul costringe Washington a ricercare soluzioni sempre più impraticabili, che permettono agli integralisti di guadagnare tempo per riorganizzarsi per il momento nel quale le truppe NATO abbandoneranno il paese. Se questo è vero il destino dello stato faticosamente costruito dagli USA è già segnato verso un ritorno della teocrazia islamica, con tutto il corollario di conseguenze derivanti, tra cui l’aspetto del terrorismo internazionale, che costituivano le ragioni della guerra intrapresa. Gli Stati Uniti sono dunque davanti ad una scelta fondamentale: preservare in qualche maniera il paese o abbandonarlo al proprio destino, sprecando la lunga teoria di sforzi compiuti. Risulta comprensibile che la diplomazia americana non tralasci alcun tentativo, ma appare chiaro fin d’ora che dai colloqui con i talebani non potrà uscire alcunché di rilevante, proprio per l’atteggiamento dimostrato fino ad ora di estremo tatticismo della controparte, che non ha prodotto alcun progresso tangibile. Per gli USA l’unica via d’uscita sarebbe quella di ampliare il coinvolgimento internazionale nella tutela del paese, anche a nuove superpotenze come la Cina e l’India, che avrebbero tutto l’interesse a non avere l’integralismo islamico al potere sui propri confini, ciò potrebbe anche costituire un interessante laboratorio politico internazionale per sviluppare nuove forme di intesa per una più completa ed estesa cooperazione sopranazionale.

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