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lunedì 3 giugno 2013

Per evitare l'estremismo la Turchia ha bisogno dell'Europa

I fatti turchi svelano il malessere di un paese costretto ad un processo di islamizzazione non condiviso dalla maggioranza della popolazione. Malgrado il successo elettorale del premier Erdogan, il numero degli scontenti sta crescendo e questa insoddisfazione non è mitigata da una oggettiva crescita del paese, ottenuta grazie a politiche economiche mirate, che ha portato un livello di benessere maggiormente diffuso nella cittadinanza. Ma quello a cui si assiste non è paragonabile alle primavere arabe, che si differenziavano dal caso turco, per differenti e peggiori condizioni di partenza. La Turchia, come è stato detto da subito, non si trova in una situazione economica disastrosa, ma, anzi, si colloca nettamente all'opposto, e non soffre per una mancanza di diritti, solamente che questi diritti vengono compressi in nome di una presenza più forte della religione all'interno degli aspetti politici e sociali del paese a discapito di una visione più laica, che fino alle ultime disposizioni governative, consentiva un equilibrio che costituiva un punto di riferimento sia all'interno dell'islam, che verso i paesi occidentali. La Turchia era proprio il modello al quale guardavano, almeno inizialmente, i paesi usciti dalle primavere arabe: un insieme di norme e comportamenti rispettosi della religiosità araba, all'interno di uno stato laico, in grado di essere protagonista sempre più nella scena internazionale e sul piano economico. La Turchia, proprio grazie a questi sentimenti che riusciva ad infondere in paesi e governi che uscivano da anni di dittatura, ha da subito sfruttato l'occasione, mostrando di sapere porsi come una sorta di paese capofila del panarabismo, in una visione, che voleva ricalcare, a grandi linee e trasportata nell'attuale momento storico, l'influenza dell'impero ottomano. Questa linea, occorre riconoscerlo, è stata anche un poco una direzione obbligata, dettata dal rifiuto della UE affinchè la Turchia diventasse un paese membro; bisogna riconoscere che le responsabilità del fallimento dell'inclusione di Ankara vanno ricercate in entrambe le parti, ma l'irrigidimento di Bruxelles, pur basato anche su ragioni oggettive, ha determinato che la Turchia si concentrasse maggiormente dove poteva trovare sbocchi e non chiusure. Probabilmente il cambiamento di comportamento del governo turco, più che da ragioni interne è dovuto a motivazioni estere, che hanno avuto una ricaduta enorme sugli equilibri dello stato. La necessità di porsi a partner arabi in una maniera sempre più consona a determinati costumi ha obbligato la decisione di intraprendere azioni lesive di diritti civili acquisiti, che hanno generato fenomeni di contrarietà anche nei settori costituiti da elettori del premier in carica. L'occidente deve guardare con preoccupazione a questi fenomeni perchè la Turchia rappresenta, al momento, l'unico ponte che possa consentire un dialogo con l'islam moderato. Certo i detrattori dell'ingresso della Turchia in Europa avranno facili argomenti per giustificare di avere scongiurato un membro così ingombrante, diretto verso una pericolosa deriva confessionale, in realtà un processo di inclusione concordato da entrambe le parti avrebbe potuto attenuare le pulsioni religiose, che stanno facendosi strada in una società che, come modi di vita, resta ancora più vicina allo stile occidentale. Anche le timide retromarce che Erdogan ha iniziato a mettere in campo, pur non sconfessando il suo operato, dimostrano che l'entità del fronte laico risulta essere ancora abbastanza consistente e, sopratutto, temuto in vista dell'appuntamento elettorale del prossimo anno. L'Unione Europea dovrebbe riprendere, dunque, un dialogo interrotto per riportare Ankara verso Bruxelles, sia per scongiurare una deriva islamica ai suoi confini, sia per includere un nuovo membro capace di portare una vitalità economica necessaria al vecchio continente, che costituirebbe senz'altro la base per una integrazione essenziale nello scenario internazionale.

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