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mercoledì 10 luglio 2013

Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti finanziano il nuovo governo dell'Egitto

I finanziamenti che l’Egitto riceverà da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, rispettivamente di 5.000 milioni di dollari e di 3.000 milioni di dollari, rappresentano l’approvazione del cambio politico operato con la deposizione di Mursi e dimostrano l’ostilità dei due maggiori paesi del Golfo Persico al movimento dei Fratelli Musulmani. Sia Abu Dhabi che Riyad sono state tra le prime capitali a congratularsi con Il Cairo per la nuova impostazione politica del paese a differenza del comune alleato, il Qatar, che aveva sostenuto finanziariamente l’Egitto negli ultimi due anni. Questa differenza di visione, giunta anche all’irritazione diplomatica turca, può segnare una diatriba all’interno del mondo arabo sunnita, dove stanno prendendo campo due visioni opposte nella visione degli equilibri regionali. I movimenti come i Fratelli musulmani, in verità non sono mai stati graditi ai governi di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, per la loro intransigenza, sia nelle questioni interne che internazionali; è singolare che questa diffidenza provenga da stati dove l’osservanza dei precetti musulmani è tra le più strette, tuttavia quello che turba Riyad ed Abu Dhabi è più la parte degli equilibri internazionali, che il versante interno. I due paesi del Golfo temono una pericolosa escalation dei movimenti fondamentalisti in una nazione particolarmente influente nel mondo arabo, come l’Egitto, che, oltre tutto, si trova nella delicata posizione geopolitica data dal confine con Israele. Con la grave situazione siriana, dagli esiti sempre più incerti, una alterazione della stabilità tra Il Cairo e Tel Aviv verrebbe a rappresentare una minaccia concreta per l’equilibrio del medio oriente. Non è escluso che dietro la mossa dei due paesi vi sia anche un accordo con gli USA, che preferiscono non apparire direttamente nelle vicende interne del mondo arabo, secondo la nuova dottrina politica di Obama. Gli aiuti economici acuiranno il fastidio turco per la deposizione di Mursi, perché rappresentano una visione diametralmente opposta a quanto sperato da l’Ankara e cioè uno sviluppo di forme di governo moderatamente islamiche capaci di governare lo sviluppo del mondo arabo. Questa valutazione però non pare neppure più valida neanche per la Turchia dove la ricerca dell’imposizione di regole troppo ispirate a precetti religiosi ha scatenato le proteste di questi giorni. Forse la tattica di Erdogan era un progressivo incremento del peso religioso nelle leggi del paese, sostenuto anche da una pratica analoga in un paese molto importante nel mondo arabo come l’Egitto. Come si vede le due tendenze si scontrano, presumibilmente, con opposti interessi: da una parte ragioni di ordine internazionale impongono un maggiore gradimento dell’intervento dei militari nella vita politica del paese egiziano, dall’altra parte motivi di ordine interno giustificavano lo stravolgimento delle regole democratiche. La partita egiziana, tuttavia è tutt’altro che conclusa ed è in continua evoluzione e per la sua analisi non sono affatto da trascurare queste forze esterne, molto vicine all’Egitto, sia per ragioni geografiche, che, soprattutto, religiose. Come dimostra il finanziamento dei paesi del Golfo e l’attività diplomatica turca le ragioni esogene, alla fine, potranno avere un peso quasi equivalente a quelle endogene; ma per il momento gli aiuti economici arrivati in Egitto possono permettere di alleviare una crisi, che resta, insieme alla materia dei diritti, una delle ragioni costanti delle manifestazioni. Dovrà essere l’operato del nuovo governo egiziano a convertire gli aiuti, forze esogene, in provvedimenti concreti interni, forze endogene, capaci di risollevare l’economia del paese e con essi dare una maggiore serenità al sistema sociale per arrivare in fondo alla crisi politica.

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