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lunedì 1 luglio 2013
Le cause della protesta egiziana
La frattura democratica, che si sta consumando in Egitto, è maturata grazie al verificarsi di diverse condizioni che hanno concorso a creare uno stato di tensione, che inevitabilmente non poteva non esplodere. La rivoluzione contro un regime tirannico come quello di Mubarak, era partita, probabilmente, da una minoranza ben determinata della popolazione egiziana, affinché fossero cambiate le condizioni economiche, politiche e sociali del paese; in questa massa, non molto organizzata, formata da elementi di grande spontaneità, derivante da uno stato di profonda prostrazione, si sono abilmente inseriti le formazioni confessionali, prima tra tutte quella dei Fratelli Musulmani, forti di una grande capacità organizzativa, maturata in clandestinità con Mubarak al governo. Questa organizzazione, che è riuscita a sopravvivere alle persecuzioni della dittatura, grazie ad una penetrazione negli strati sociali avvenuta in ragione di un apporto concreto ai bisogni della gente comune, ha saputo sfruttare la propria capacità di movimento e di aiuto per allacciare rapporti determinanti con le parti non confessionali della protesta, raggiungendo un grado di visibilità notevole. Tuttavia queste alleanze potevano durare fintanto che il nemico era comune e serviva a coalizzare forze in aperto contrasto su quasi tutti i temi da affrontare nel periodo seguente alla liberazione da Mubarak. Va anche detto che l’affermazione elettorale dei movimenti confessionali, tra i quali i Fratelli Musulmani sono la forza politica maggiore, è dipeso, oltre che dai fattori espressi precedentemente, e cioè la grande penetrazione nel tessuto sociale e la grande capacità di organizzare la protesta, è dipesa anche dal lungo periodo di dominazione di Mubarak, che ha soffocato i diritti politici in maniera molto laica, causando un sentimento, se non proprio di avversione almeno di sfiducia per i partiti che si richiamavano ad una politica slegata dall’ambiente religioso. L’affermazione di Mursi, legittimamente eletto, ha provocato una tendenza del modo di governare praticamente esclusiva ad appannaggio delle formazioni islamiche, che hanno pesantemente influenzato l’indirizzo politico dello stato in maniera assolutamente confessionale, non tenendo in alcun conto le esigenze delle minoranze, che prediligevano una visione senz’altro meno condizionata dai precetti islamici. Fin dalle fasi precedenti la promulgazione della nuova costituzione, fortemente improntata ad una visione eccessivamente islamica, si era compreso che l’Egitto era passato da una dittatura laica ad una religiosa, dove il rispetto dei diritti politici e dei diritti delle minoranze, specie quelle di religione diversa dall’islamismo o degli atei, erano nuovamente calpestati. Questa situazione è stata vissuta in maniera sempre più crescente come un abuso di potere anche da una parte consistente dell’elettorato che si era espresso a favore del presidente in carica. La condizione dell’economia, che fu uno dei principali detonatori della protesta, poi ha contribuito a riscaldare ulteriormente gli animi a causa del pessimo andamento per il paese egiziano. Il dato della disoccupazione, che ha sorpassato il 13%, crea forti tensioni sociali, a cui vanno sommate l’elevato costo del carburante e la disastrosa situazione dell’industria turistica, che vede penalizzati gli ingressi nel paese a causa della instabilità politica perdurante. La permanenza in carica del presidente Mursi è ormai oggetto di aperto contrasto, tanto che le piazze ne chiedono espressamente le dimissioni, individuandolo come responsabile dell’ascesa della sempre maggiore influenza dei Fratelli Musulmani e dello stato di degrado del paese. Per la verità i due fatti sono visti uno come la conseguenza dell’altro, dato che la virata verso l’islamismo più radicale viene individuato come motivo del peggioramento della situazione del paese. I pilastri della rivoluzione contro Mubarak erano: pane, giustizia e libertà; è facile constatare che nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto dall’apparato di governo guidato da Mursi, che, oltre al fattore religioso, viene anche screditato per non essere all’altezza di governare. I fatti egiziani dimostrano che il paese può smarcarsi dal destino comune alle altre nazioni protagoniste della primavera araba, che hanno adottato tutte un indirizzo politico di governo confessionale, tradendo le speranze occidentali di vedere affermato un modello di democrazia laica più simile ai sistemi maturi dell’ovest del mondo. La questione è di primaria importanza per il ruolo di paese guida, che l’Egitto riveste nel mondo arabo: un ribaltamento ad Il Cairo potrebbe creare un effetto di emulazione nelle masse di scontenti che popolano le nazioni della sponda meridionale del Mediterraneo. Si tratta di uno scenario possibile ma non in tempi brevi, non certo indolore e con possibili conseguenze anche gravi, come gli avvenimenti di questi giorni stanno dimostrando, anche perché l’elemento fondamentale nella vicenda è la profonda incertezza sul destino che potrà verificarsi nello svolgimento della questione. Occorre sempre ricordare il ruolo fondamentale dell’esercito egiziano, che malgrado le nomine di Mursi, resta fondamentalmente laico e si staglia come ulteriore incognita nello scenario egiziano; un peggioramento della situazione dell’ordine pubblico potrebbe provocare un intervento più deciso in un senso o nell’altro delle forze armate, che, a quel punto, diventerebbero il vero ago della bilancia sbloccando gli avvenimenti in maniera decisiva.
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