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lunedì 12 agosto 2013
La decisione di nuovi insediamenti israeliani mette in pericolo la ripresa delle trattative
La decisione di approvare la costruzione di ulteriori 800 nuove abitazioni nelle colonie, su territorio di fatto palestinese, prova che le intenzioni di Tel Aviv, riguardo all’imminente ripresa del processo di pace non sono serie. Il problema è soprattutto interno all’esecutivo israeliano, dove la controversa decisione pare essere stata presa per accontentare la parte più a destra che sostiene il governo. Questa circostanza mette in luce tutte le contraddizioni presenti nel governo di Israele, dove la volontà di riprendere un processo di pace, che porti ad una conclusione definitiva dell’annosa questione, appare chiaramente non condivisa da tutte le componenti che compongono la compagine di governo. Se queste condizioni erano già note, si sperava che l’importanza della posta in gioco finale potesse permettere di arrivare ad un compromesso, che potesse portare ad un equilibrio tra le varie componenti del governo. Quello che era atteso da USA e Palestinesi, prima di tutto, e da tutto il panorama internazionale, era che Israele affrontasse la questione con un minimo di compattezza, che potesse evitare eccessi in grado di mettere in pericolo le trattative, ancora prima del loro inizio. Questa speranza è condivisa anche da una parte consistente della stessa opinione pubblica israeliana, che inquadra nella definizione del processo di pace una occasione per guadagnare una pacificazione territoriale necessaria per un maggiore sviluppo dello stato israeliano, basato sulla stabilità e sull'equilibrio internazionale. Nella vicenda la posizione di Benjamin Netanyahu, non esce del tutto chiara: se, da un lato, sono risapute le sue posizioni riguardo agli insediamenti, più volte concretizzatesi con l’avvallo a nuovi insediamenti, questa volta le promesse fatte a Washington parevano indirizzare il leader israeliano su di un orientamento più prudente, tuttavia la concessione dei nuovi alloggi, concessa proprio in deroga alle promesse fatte agli USA, lo pone in apparente posizione subalterna, quasi ricattabile, da parte della parte più estrema dell’esecutivo, che aveva accolto in maniera negativa la decisione di liberare gli oltre cento prigionieri palestinesi. Se questa lettura fosse vera, Netanyahu sembrerebbe ostaggio di una parte politica non certo favorevole alla ripresa delle trattative, fattore non secondario, in grado di compromettere il buon esito del negoziato. Un primo effetto della decisione della costruzione dei nuovi alloggi è stato quello di irrigidire la posizione del capo dei negoziatori dell’Autorità Palestinese, Saeb Erekat, che ha subito messo in chiaro che la ripresa dei colloqui è già compromessa ancora prima di partire. Secondo parte della stampa israeliana, sia gli USA, che i palestinesi sarebbero già stati a conoscenza della decisione, che sarebbe stata presa proprio per equilibrare la liberazione dei prigionieri ed equilibrare, quindi la decisione per tacitare la destra israeliana. Tale versione appare però troppo lacunosa per la evidente sproporzione a favore di Israele e soprattutto sembra fatta apposta per guadagnare tempo sull’incremento degli insediamenti, se inquadrata in un piano che mira a suscitare lo sdegno dei dirigenti della Palestina, che non potrebbero accettare di sedersi ad un tavolo di trattative, già compromesso da una evidente violazione. Un ritardo della ripresa dei negoziati permetterebbe ad Israele di guadagnare tempo per impiantare nuove colonie, peraltro una tattica ampiamente usata da Tel Aviv da diverso tempo. Adesso occorre verificare quale sarà la reazione americana, con Washington a sua volta, in balia degli umori variabili di Israele, che, ancora una volta, ne esce con una pessima figura.
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