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mercoledì 7 agosto 2013

L'evoluzione di Al Qaeda

L’allarme di questi giorni, cha ha portato alla chiusura di numerose ambasciate USA nei paesi arabi per la minaccia di attentati, impone una riflessione sull’evoluzione del principale movimento terroristico di matrice islamica, Al Qaeda, che risulta, malgrado le decimazioni patite, sempre al centro del radicalismo religioso proveniente dal mondo arabo. Se la dimensione di grande organizzazione terroristica è quasi del tutto fallita, dopo la campagna militare che Washington ha intrapreso in diverse parti del mondo e che ha culminato con l’uccisione di Osama Bin Laden, Al Qaeda non è affatto sconfitta. L’organizzazione terroristica ha saputo trasformarsi da movimento con una visione di azione globale in tante piccole frazioni, cha hanno il vantaggio di essere meno individuabili e militarmente più efficaci. Certo non si tratta di obiettivi di grande portata, attualmente la ripetizione dell’undici settembre appare altamente improbabile, tuttavia la capacità di tenere sotto pressione grandi nazioni con azioni circoscritte ma potenzialmente devastanti, riveste una peculiarità centrale dell’esistenza stessa di Al Qaeda. La volontà militare dei vertici dell’organizzazione si è convertita alle esigenze stesse di sopravvivenza dell’organizzazione, individuate nella capacità di eseguire attentati frequenti ma ad impatto minore, ma tale comunque da destare forte impressione a livello mediatico. L’esempio classico è il recente atto terroristico compiuto a Boston. Le modalità attuative si concretizzeranno quindi, nella presenza di piccole cellule, definite dormienti, perfettamente integrate nel tessuto sociale del paese ospitante, ma in grado di entrare in azione con modesto preavviso o, addirittura, su propria decisione indipendente. Si capisce che contro un nemico così sfuggente i grandi eserciti possono poco, ma diventa preponderante l’azione di prevenzione tramite l’intelligence. Non a caso molti americani non si sono scandalizzati per le intercettazioni della sicurezza americana, ma, anzi si sono detti favorevoli a pagare il sacrificio della loro privacy in cambio di una maggiore sicurezza. Ma limitarsi a prevenire all’interno dei confini dell’occidente l’azione degli appartenenti ad Al Qaeda è totalmente insufficiente. Di fronte alla prospettiva di scomparire, di crescere di nuovo rapidamente o di intraprendere un percorso graduale di ricrescita del movimento, i dirigenti di Al Qaeda hanno scelto questa ultima opzione, anche in ragione della necessità di una riorganizzazione più ponderata e capace di fornire risposte più elastiche agli scenari mondiali, da non trascurare anche il peso della crisi economica che ha ridotto i finanziamenti ed ha imposto una politica di massimizzazione dei risultati a fronte di minori sforzi, sia organizzativi che finanziari. La differenziazione della presenza geografica è uno dei fattori di maggior successo per il proseguimento della vita di Al Qaeda, se la pressione della NATO in Afghanistan ha costretto i suoi appartenenti a trovare rifugio nelle valli al confine con il Pakistan senza averne del tutto ragione, il proselitismo in Africa, specialmente nella regione sub sahariana, costituisce l’investimento in capitale umano più sostanzioso. La presenza di un tessuto sociale spesso al confine con la povertà più estrema ha rappresentato il terreno di coltura più fertile per gli estremisti islamici, che in breve tempo, anche grazie ad alleanze con popolazioni locali da sempre in lotta per loro indipendenza, hanno allargato in maniera molto veloce la loro area di influenza. Da segnalare anche il caso iracheno, dove l’abbandono del terreno delle truppe USA ha fatto piombare il paese nel più assoluto terrore, a causa di una serie continua di attentati portati avanti da esponenti locali di Al Qaeda. Questa fattispecie promette di ripetersi anche in Afghanistan, quando i militari americani lasceranno il paese nel prossimo anno. Quello che emerge è un quadro molto preoccupante, perché molto frammentato e quindi difficilmente controllabile a livello globale. In questa fase non è azzardato dire che tra gli aderenti di Al Qaeda africani esistono profonde differenze da quelli pachistani, più simili a quelli iracheni; in quest’ottica definire Al Qaeda come movimento unico rappresenta un’analisi grossolana ed errata, occorre individuare invece il ruolo dei vertici dell’organizzazione come catalizzatori di influenza sui gruppi più nuovi, senza avere, tuttavia, la diretta capacità gerarchica di indirizzo. Questa peculiarità può andare bene fintanto che il movimento è ancora in una fase di riorganizzazione, dove l’importanza maggiore è che si trasmetta al nemico, sia l’occidente nel suo insieme o un governo locale sottoposto alla sua influenza, la sensazione di essere sotto attacco, subendo continuamente la minaccia terroristica. Viceversa in un’ottica di medio lungo periodo, l’eccessiva frammentazione di questa internazionale del terrorismo islamico, sul piano politico presenta tutta la sua debolezza ed inconsistenza. Troppo diverse le situazioni di Pakistan, Somalia, Siria ed altri paesi dove l’azione di Al Qaeda viene esplicata. Se questo elemento può scartare l’ipotesi di affrontare un monolite, con conseguenze che potrebbero ricomprendere anche scenari di guerra globale, l’aspetto più urgente resta fronteggiare una struttura che si è data sul campo una organizzazione militare di tipo cellulare, in grado di compiere attentati in qualsiasi momento. Se la prevenzione a livello di intelligence resta l’arma più efficace, anche un diverso approccio con le esigenze di quei popoli che presentano le caratteristiche maggiori per permettere l’espansione di Al Qaeda, potrebbe essere una soluzione da percorrere.

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