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lunedì 16 dicembre 2013

In Cina cresce il problema dei conflitti etnici

La Cina patisce nuovamente le tensioni etniche, che, ancora una volta, si sono verificate nella regione autonoma dello Xinjiang, territorio che costituisce la patria della minoranza musulmana della Cina occidentale. L’ennesima rivolta ha fatto registrare nuovamente un tragico bilancio, almeno 14 le vittime, provocato dalla repressione della polizia, della quale si segnalano altre due morti. Si tratta dell’ennesimo segnale per Pechino, della difficoltà di riuscire a gestire le istanze locali delle minoranze, soprattutto di quelle che si discostano per valori sociali e religiosi, dalla linea unica del Partito Comunista. Questo ultimo episodio, segue l’attacco terroristico, avvenuto nella città proibita, che causò la morte di cinque persone ed il ferimento di alte quaranta, vera e propria violazione avvenuta nel cuore del potere cinese; un fatto senza precedenti che ha costituito una assoluta novità per il controllatissimo stato cinese. L’atteggiamento del governo centrale è sempre stato quello di scoraggiare politiche di autonomia delle minoranze, che una volta concesse , potrebbero portare alla dissoluzione dello stato cinese dalla sua forma attuale. Se s può comprendere l’impostazione di Pechino, di un argomento di difficile comprensione e soprattutto accettazione, appare meno giustificata la scelta di una rigidità, praticamente estrema, che non permette alcun dialogo tra le parti. La politica del governo centrale, nelle regioni abitate da minoranze etniche è essenzialmente composta da due modalità, che procedono assieme: da un lato l’immissione di investimenti massicci, specie rivolte all’aumento di infrastrutture, mentre da un altro lato si favorisce una grande immigrazione di cinesi, fedeli al regime, provenienti da altre parti del paese, in modo da alterare la composizione sociale del territorio. Queste immigrazioni vengono favorite da sostanziosi aiuti economici, sotto forma di lavori bene remunerati e forniscono soluzioni sul fronte abitativo, che rappresenta, per alcune parti del paese, una emergenza costante. Guadagnandosi il favore di questi nuovi abitanti, Pechino punta a rompere il fronte comune che unisce le etnie locali, ma così facendo spesso esaspera gli animi, anche in ragione del fatto, dell’applicazione di una legislazione che mira a restringere gli usi e costumi locali, ed anche il credo religioso, per imporre gli stili di vita cinesi, cercando così di uniformare i comportamenti in modo di soffocare le tradizioni locali. Questa impostazione prevede, che se i nuovi costumi non sono graditi alla popolazione autoctona, generando dimostrazioni di disapprovazione, intervengano mezzi coercitivi per non lasciare spazio a motivi di dissenso. In Tibet sono state scelte pratiche di non violenza, che prevedono il suicidio dei monaci, praticato per suscitare il massimo sdegno nel mondo, soprattutto nell’occidente, mentre nello Xinjiang sembra esservi una organizzazione più strutturata per rispondere in maniera violenta ai propositi cinesi. L’attentato nella città proibita testimonia di un vero e proprio salto di qualità, anche militare, per cercare di rispondere alla stretta di Pechino. I provvedimenti ulteriori che il governo cinese ha preso nei confronti della regione autonoma dono di forte limitazione delle informazioni ed il divieto di ingresso per la stampa estera. Ufficialmente la Cina afferma di avere concesso molte libertà agli uiguri, ma le organizzazioni dei diritti umani e formazioni in esilio parlano di continua violazione dei diritti civili e di repressioni continue, praticate con violenza dalle forze dell’ordine. La grande determinazione della Cina è dovuta anche alla necessità del controllo dello Xinjiang, a causa della ricchezza di materie prime, come il gas, presenti nella regione, che la concessione di una qualche forma di autonomia politica ne potrebbe diminuire la completa disponibilità per Pechino. Il problema dell’ordine pubblico resta comunque centrale, per stessa ammissione dei media governativi, che parlano di oltre 190 attacchi terroristici nello Xinjiang, compiuti da attentatori per lo più sotto i trenta anni e, che quindi, testimoniano un disagio sempre crescente nella popolazione giovanile della regione, operanti in piccoli nuclei o singolarmente, rendendo molto ardua l’attività di prevenzione e costringendo Pechino ad un grande sforzo economico e militare sempre crescente per presidiare il territorio.

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