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lunedì 13 gennaio 2014

La Siria verso una nuova conferenza di pace

L’incontro tra gli USA e la Russia per concordare lo svolgimento della conferenza di pace per la Siria, previsto per il 22 gennaio, deve affrontare una grande quantità di incognite di difficile definizione. Il primo punto è l’eventuale ruolo dell’Iran, che formalmente non risulta tra gli invitati; Teheran, che è l’alleato principale di Assad ha tutto l’interesse a fare sentire la propria voce in una conferenza di pace, sia per i propri assetti geopolitici, sia per rientrare dalla porta principale in un negoziato ufficiale di questa importanza. Per Washington non dovrebbero esserci problemi ad una partecipazione iraniana, che va inquadrata nei rinnovati rapporti tra le due amministrazioni, dopo tanti anni di ostilità, che sono ripresi in occasione del cambio di governo a Teheran e per la ripresa delle trattative per il nucleare iraniano. Anche per Mosca, non dovrebbero esserci problemi sulla partecipazione dell’Iran, la Russia è per il mantenimento dello status quo e troverebbe in Teheran un alleato diplomatico praticamente certo. Altri partecipanti dovrebbero essere: il rappresentante delle Nazioni Unite per la Siria: Lakdhar Brahimi ed i rappresentanti del gruppo di undici paesi che sostengono la coalizione dell’opposizione moderata. In questo gruppo (che comprende: Gran Bretagna, Germania , Italia, Francia , Arabia Saudita , Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Giordania , USA , Turchia), vi sono tendenze differenti: infatti i paesi del Golfo sosterrebbero anche l’opposizione sunnita di matrice fondamentalista, che mira a creare in almeno alcune zone del paese siriano, califfati dove la legge fondamentale deve essere la sharia. SI capisce, quindi, come la trattativa possa essere difficoltosa già tra i membri che dovrebbero trovare una soluzione con Assad. L’evoluzione della guerra siriana, pur mantenendo il conflitto con Damasco, ha creato una spaccatura fonti di un ulteriore conflitto interno all’opposizione, che vede su fronti opposti i fautori della creazione di uno stato democratico, contro coloro vedono, per la Siria, un futuro di stato confessionale integralista di matrice sunnita. Questa divisione ha permesso ad Assad di mantenere il potere, lasciando il paese in una situazione di violenza, che non ha ancora trovato uno sbocco. Se Kerry ostenta, come sempre, un ottimismo, che non pare giustificato, altri non sono dello stesso parere, proprio per le evidenti difficoltà, presenti ancora prima di iniziare la trattativa con il regime di Damasco. D’altro canto Assad è ben conscio di questa situazione, e dopo avere scongiurato l’attacco americano trattando sulle armi chimiche, cercherà, anche grazie all’appoggio di russi ed iraniani di guadagnare ancora tempo. Per farlo dovrà cedere sulle condizioni che gli americani e gli europei ritengono più urgenti: come la creazione di corridoi umanitari e la limitazione, se non il fermo totale dell’uso delle armi pesanti. La volontà di Assad è quella di andare a Ginevra per ribadire l’intenzione di non cedere il potere in alcun modo, vanificando le aspettative dell’opposizione democratica che spinge per una transizione controllata. Questa era la soluzione che, fino a qualche tempo fa, era vista come una via d’uscita per il dittatore e la sua famiglia, che poteva sperare in un esilio dorato, ad esempio in Russia, ed era anche la soluzione preferita dagli americani. Tuttavia la crescita di potenza militare delle milizie sunnite, appoggiate anche da Al Qaeda, ha cambiato i piani di Washington, che non ha la piena garanzia del mantenimento del potere da parte della coalizione democratica e vede con preoccupazione la frantumazione del paese con ampie zone in mano agli integralisti, sul confine israeliano. Con questa prospettiva e con l’evoluzione in senso positivo dei rapporti con Teheran, per gli Stati Uniti, Assad rappresenta, al momento il male minore, anche se una sua vittoria piena sul piano diplomatico rappresenterebbe una perdita di credibilità per Washington. Una via di uscita potrebbe essere una moratoria del conflitto con il naturale epilogo delle urne, una soluzione che scontenterebbe completamente soltanto i combattenti islamici, i quali a quel punto, potrebbero essere oggetto di una azione militare coordinata da più paesi. Chiaramente dopo l’eventuale consultazione elettorale, qualunque vincitore dovrebbe accettare un periodo di presenza di caschi blu dell’ONU, per evitare rappresaglie e vendette sui vinti, che farebbero ripartire immediatamente un nuovo conflitto.

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