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venerdì 22 agosto 2014
Gli errori degli USA in medio oriente, rischiano di favorire Cina e Russia in altre contese con Washington
La strategia americana di contenimento dell’avanzata dell’esercito dello stato islamico dell’Iraq e del Levante si scontra con lo scetticismo della maggioranza degli americani, che pensano, nella percentuale del 60%, che gli USA dovrebbero prestare meno attenzione e risorse alle questioni internazionali. I movimenti in questo campo per Obama non sono agevoli, anche per la sua popolarità ridotta al 40%. Questi fattori indicano che manca il sostegno della società statunitense alla politica in Iraq; paradossalmente questa sfiducia è dovuta al fatto che la maggior parte dell’elettorato americano si riconosce nei valori più vicini al Partito Democratico, quello del presidente in carica, il quale è costretto dagli eventi a portare avanti una politica, in campo internazionale, più di destra. Obama paga anche colpe non sue: la pessima gestione della questione irachena è cominciata molto prima del suo insediamento, tuttavia il principale inquilino della Casa Bianca è nel pieno del suo secondo mandato ed avrebbe avuto tutto il tempo per rimediare almeno alla gran parte degli errori dei suoi predecessori. Nella fretta di abbandonare l’Iraq, l’amministrazione USA non è stata, infatti, abbastanza incisiva nell’imporre una linea che sapesse dividere il potere tra le diverse componenti sociali del paese, con il risultato di penalizzare i sunniti, la cui alleanza è stata decisiva per l’avanzata delle forze del califfato. Queste stesse forze hanno avuto la loro genesi in Siria, dove sono state lasciate crescere, malgrado gli avvertimenti della parte democratica dell’opposizione ad Assad. Obama, che aveva incentrato l’azione degli USA nel sud est asiatico, scelta in ottica commerciale ed economica, che poteva andare bene se il medio oriente fosse stato pacificato, ha temporeggiato troppo, basando la sua soddisfazione sulla risoluzione della questione delle armi chimiche, di fatto molto limitata, nel quadro della crisi siriana. Il Presidente USA non ha capito che la scelta era tra il sostegno ad un accordo tra la parte democratica della ribellione siriana con lo stesso Assad in funzione contraria alla parte integralista sunnita. Certo il progetto più ambizioso doveva essere quello di fare cadere Assad e consegnare il paese alle forze democratiche, ma si trattava di una operazione troppo ambiziosa, condizionata da ragioni di costi e di opportunità politica, anche se si poteva cercare di aggregare maggiormente le forze occidentali per una operazione tipo quella libica, che comunque ha avuto conseguenze altamente negative, anche al di fuori dell’ONU. Certo non era facile prevedere un tale sviluppo della situazione, ma, d’altra parte, vi erano abbondanti indizi, che un soggetto emergente avrebbe potuto riempire gli ampi vuoti di potere presenti. Un altro aspetto che è stato trascurato sono stati i finanziamenti alle forze che avevano dichiarato esplicitamente di volere ricreare il califfato; questi finanziamenti sono arrivati grazie a paesi alleati degli USA, che la Casa Bianca non ha saputo dissuadere da praticare politiche strumentali ai loro interessi, ma contrari a quelli americani. Per altro ora sono le stesse monarchie del Golfo a temere un allargamento del contagio integralista, ma ormai il grado di autonomia finanziaria del califfato è talmente alto da non avere più quasi bisogno di altre contribuzioni. Lo stato attuale dello scenario richiede quindi un intervento, che poteva essere risparmiato con una gestione più oculata della situazione e con azioni decisamente più limitate. I raid aerei dei soli americani possono contenere il pericolo ma non annientarlo: senza una forza di terra che sappia presidiare il territorio l’esercito del califfato non può essere sconfitto. Le sole forze armate curde possono, a malapena, difendere il loro territorio, comunque con il supporto dell’aviazione USA, mentre l’esercito iracheno ha mostrato tutta la sua inadeguatezza e non può essere un limite efficace contro i più determinati, ed anche preparati, combattenti integralisti. In questo panorama risulta assordante il silenzio di Russia e Cina, che continuano nella loro politica della non ingerenza, ma che rischiano in uguale maniera dell’occidente. Uno stato islamico come vuole essere il califfato potrebbe avere una notevole influenza sulle popolazioni musulmane delle due potenze, che hanno già un difficile rapporto con Mosca e Pechino. Se per quest’ultima vale la convinzione, peraltro totalmente errata, di essere convinta di governare questa opposizione, per il Cremlino dovrebbe essere differente l’approccio, per la lunga esperienza con i ribelli ceceni e le altre popolazioni musulmane del Caucaso. La Russia e la Cina non sono citate a caso,perché rappresentano l’ostacolo, per ora insuperabile, all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU a favore di una operazione sotto le insegne delle Nazioni Unite. Questa soluzione rappresenterebbe la condizione ideale per sconfiggere le forze dello Stato islamico, in un quadro di coesione comune, che costituirebbe per Obama una via di uscita molto favorevole di fronte all’opinione pubblica del suo paese. Il sospetto è che sia la Russia, che la Cina, facciano mancare il proprio assenso ad un intervento dell’ONU, per indebolire Obama e trarne vantaggio per particolari questioni di politica estera in cui sono interessate. Per Mosca,occupata nella questione ucraina proprio con gli USA come avversario, potrebbe essere avvantaggiata da un impegno maggiore degli USA in Iraq, che sarebbero distratti dal loro appoggio a Kiev. Ugualmente la Cina vedrebbe non più centrale la regione del sud est asiatico negli interessi americani e potrebbe avvantaggiarsene. Si tratta di scenari tutt’altro che impossibili, che potrebbero alterare gli equilibri precari di quelle zone a sfavore di Washington.
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