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martedì 5 agosto 2014

Le implicazioni della tregua israeliana

Ora che è partita la tregua nella Striscia di Gaza e le truppe israeliane si stanno ritirando, mantenendo però un contingente al confine pronto ad intervenire, la priorità è la ricostruzione delle abitazioni rase al suolo dai bombardamenti di Tel Aviv e la ricostruzione economica di una zona fortemente condizionata dalla restrizioni di Israele. Non bisogna dimenticare, poi la possibilità che le autorità palestinesi ricorrano presso la Corte internazionale per le ripetute violazioni contro i diritti umani, che potrebbero portare anche ad una incriminazione del governo israeliano per crimini contro l’umanità; l’ipotesi non è remota e potrà costituire un ostacolo non da poco per eventuali trattative di pace, ma costituirebbe un ostacolo praticamente insormontabile per permettere al paese israeliano di uscire dall’isolamento. Tuttavia queste questioni sono ora secondarie rispetto alla situazione di emergenza in cui si trova la popolazione e che deve prevedere un programma veloce di ricostruzione, sia di abitazioni, che di infrastrutture. Le dichiarazioni del governo di Israele, che mettono la sicurezza dello stato davanti ad ogni cosa, potrebbero provocare impedimenti notevoli sulla fornitura del materiale, anche a causa dell’uso fatto da Hamas del cemento inviato nella Striscia, impiegato, secondo Tel Aviv, per costruire i tunnel, anziché le case. Per raggiungere un accordo duraturo, in grado di soddisfare le esigenze primarie occorrerebbe che Hamas assumesse una posizione di secondo piano, in maniera da non influenzare troppo negativamente le decisioni di Tel Aviv. Hamas, però, nonostante l’ostracismo nel mondo arabo, causato dalla vicinanza con i Fratelli musulmani, nella Striscia gode di un seguito ancora notevole, che si basa sul senso di ribellione degli abitanti di Gaza, costretti a vivere in una prigione a cielo aperto e di un prestigio accresciuto dalla condotta contro gli israeliani e dalle stragi compiute dalle forze armate di quel paese. Per arrivare ad un decisione costruttiva Hamas dovrebbe avere meno rilievo per favorire l’ascesa di leader più moderati. Questo programma era quello che Abu Mazen voleva perseguire e che aveva intrapreso con successo, suscitando vive preoccupazioni nell’esecutivo israeliano, che sono state sicuramente alla base delle decisioni di usare la forza contro la Striscia. Per Tel Aviv è fondamentale avere una controparte estremista, che possa giustificare l’uso delle maniere forti. Si spiega anche così il mancato annientamento di Hamas e la stessa decisione di non occupare militarmente la striscia per non sottrarre all’organizzazione definita terrorista, ma eletta a maggioranza in consultazioni democratiche, il potere politico. Hamas, in queste condizioni, è prigioniera del suo ruolo: di fronte a tanta violenza non può presentarsi con ragionevolezza e freddo calcolo politico, ma questo la rende funzionale a Tel Aviv per i propri scopi. Quello costruito dal capo del governo israeliano è uno scenario bloccato che conviene soltanto al soggetto più forte. Per spezzare l’egemonia di Hamas è, invece essenziale concedere maggiori libertà economiche, come quella richiesta per la pesca, agli abitanti di Gaza, in modo da favorire lo sviluppo economico e rompere l’isolamento. Un maggiore benessere è la condizione essenziale per troncare l’estremismo che raccoglie tanti favori a Gaza. Ma subito è necessario ridare speranza a chi è sopravissuto: ripristinare le infrastrutture, le strade, gli acquedotti e le fognature, in modo da scongiurare epidemie,ciò deve essere una preminenza assoluta insieme con la ricostruzione delle scuole e degli ospedali. Israele, a parole, ha affermato che permetterà la ricostruzione in un quadro di smilitarizzazione di Gaza, tuttavia fonti di Tel Aviv hanno già stimato in circa 3.000 razzi l’arsenale ancora in mano ad Hamas. Questa stima potrebbe costituire l’ostacolo a favorire la ricostruzione, ma sarebbe anche un segnale rivelatore delle reali intenzioni israeliane, che hanno lasciato così tante armi in mano al nemico. D’altra parte ciò coincide con i peggiori timori di chi accusava Israele di volere prendere tempo all’infinito per avanzare ancora con la costruzione delle colonie: la situazione venutasi a creare ha distolto qualsiasi attenzione verso quel tema e permetterà a Tel Aviv di continuare la propria politica di sottrazione di territorio della Cisgiordania. I dati forniti dall’esercito di Israele parlano di circa 900 terroristi uccisi, mentre le stime internazionali contano circa 1.850 morti totali; quindi, se i dati israeliani fossero anche veri, avremmo circa 950 vittime di troppo da annoverare tra i civili. Questa tragica contabilità non può essere giustificata con il diritto alla difesa, ma deve essere inquadrata in un progetto politico più ampio funzionale anche all’espansione delle colonie e verso il quale le nazioni civili e le organizzazioni internazionali devono chiedere il conto ad Israele. Sacrificare vittime inermi a progetti politici discutibili e che infrangono le leggi internazionali non deve essere più permesso per non compromettere la pace nel mondo.

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