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martedì 7 ottobre 2014
I calcoli tattici dietro la caduta della città di Kobani
Senza aiuti consistenti, ben oltre le rade incursioni aeree, la città curda di Kobani è destinata a cadere in modo definitivo alla conquista dell’esercito del califfato. La strenue resistenza dei combattenti curdi, non aiutati dall’alleanza organizzata da Obama e senza alcun aiuto da parte turca, è molto vicino ad una sconfitta, che rischia di diventare un simbolo per le bandiere nere dell’esercito islamico. Con questa vittoria militare i jihadisti arrivano in immediata contiguità con il confine di Ankara ed aprono scenari di difficile previsione e risoluzione. Resta difficile spiegare come la Turchia possa tollerare una vicinanza così prossima con terroristi, che combattono completamente al di fuori del diritto internazionale ed hanno assunto comportamenti ben oltre il limite dell’atrocità. Occorre specificare che la situazione, formale ma in gran parte superata, dice che se Ankara dovesse varcare i confini dello stato siriano, dove si trova, appunto, Kobani, il regime di Damasco, ha già annunciato, che l’atto sarebbe considerato come ostile, una vera e propria invasione; tuttavia, Assad, ha da tempo perso il controllo e la sovranità su questa porzione di territorio siriano e la sua denuncia non dovrebbe avere ormai che un valore soltanto simbolico. Questa lettura potrebbe risultare ancora più vera se le forze armate turche, certamente in grado di fare arretrare le forze del califfato, dovessero a limitarsi al controllo, anche come forza umanitaria, di una zona tale da creare una sorta di cuscinetto tra la Turchia ed il califfato, in attesa di nuovi sviluppi. Una ipotesi della reticenza della Turchia ad agire contro lo stato islamico è il conseguimento dell’obiettivo della salvezza del personale diplomatico del consolato di Mosul sequestrato dai jihadisti, intorno al quale sarebbe stata intessuta una trattativa con scambio di prigionieri. Il tentativo, pur legittimo, di salvare i propri funzionari da parte del governo turco, implicherebbe una trattativa con gli uomini del califfato, che, implicitamente, comporterebbe una sorta di riconoscimento formale, atto in totale contrarietà alla linea politica di Obama, che si è rifiutato fermamente ad ogni forma di negoziato con i terroristi per salvare gli ostaggi americani. Si deve anche considerare una ulteriore possibilità, che non esclude quella precedente, per spiegare la cautela turca e che può essere stata dettata dalla stessa NATO. Se l’esercito di Ankara dovesse attaccare il califfato, lo stato islamico potrebbe rispondere con, poniamo, lanci di razzi sul territorio della Turchia, configurando la fattispecie giuridica dell’attacco militare ad uno stato membro dell’Alleanza Atlantica, che, sarebbe obbligata a rispondere in prima persona, anche con mezzi oltre l’uso dell’arma aerea. La volontà della Casa Bianca è quella di non impegnare effettivi statunitensi sul terreno. A questa situazione si potrebbe ovviare con truppe provenienti da paesi sunniti, ma, malgrado l’adesione alla coalizione contro lo stato islamico, i dettagli tecnici sono ancora lontano dall’essere risolti. Rimane l’emergenza umanitaria per il popolo curdo, a cui gli USA sono debitori per essere stati, fino ad ora determinanti sul terreno, nell’azione di contenimento delle forze jihadiste. La scarsa azione statunitense, in appoggio a Kobani, si può spiegare come la decisione di un sacrificio tattico per obbligare la Turchia ad una azione, nella quale Ankara è restia per i motivi sopra ipotizzati, deve essere anche detto, che un impiego dell’esercito turco, quello di un paese sunnita e tecnicamente preparato, rappresenta per la Casa Bianca la soluzione migliore, perché sicuramente in grado di sconfiggere le truppe del califfato sul terreno e, nello stesso tempo, obbligare quelle di Assad ad una probabile resa. All’interno di una alleanza improvvisata, dove la fiducia reciproca manca, le tattiche per conseguire un risultato passano sulla vita di migliaia di persone, ma gli USA hanno pensato di sfruttare la pericolosa vicinanza tra califfato e Turchia, ormai confinanti, per dare una accelerata al conflitto, anche per evitare pericolosi contagi mediatici in Nigeria, Somalia e fino alle propaggini musulmane dell’Asia orientale, nelle Filippine. L’avanzata troppo rapida delle forze dello stato islamico, imporrebbe altre soluzioni, più chiare, ma il quadro generale dello scenario, non favorisce decisioni ragionevoli e tutto viene deciso senza una pianificazione necessaria e la guerra passa per tatticismi che rischiano di rendere sempre più potente il califfato.
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