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martedì 21 aprile 2015

La tragedia dei migranti evidenzia la divisione nell'Unione Europea e la sua paralisi

Una delle conseguenze maggiori dell’instabilità politica e della povertà di alcune regioni del mondo è costituito dal fenomeno delle migrazioni. Intere parti di  popolazione di una o più nazioni si spostano per necessità. A causa delle carestie o della negazione dei diritti civili, grandi masse di persone si dirigono verso quei paesi che detengono maggiori risorse e quindi sono ritenute mete che consentono di migliorare la qualità della vita. Non si tratta di parassiti, o meglio non lo è la grande maggior parte di essi, ma di persone che cercano di uscire dall’incubo della fame, della povertà e della violenza. Si tratta di un atteggiamento umano, che non dovrebbe essere difficile comprendere. La meta di queste migrazioni, che non seguono il regolare percorso stabilito dalla legge dei paesi di destinazione, vi è l’Europa, che ad una prosperità relativa, aggiunge una posizione geografica centrale, i due fattori sommati insieme costituiscono la destinazione meno difficile da raggiungere, il che non vuole dire facile, per i disperati in fuga dai loro paesi. Circa il fenomeno dell’immigrazione, però, non bisogna guardare al vecchio continente come un corpo unico, del resto l’identità comune europea vacilla, mancano istituzioni politiche comuni e Bruxelles sembra attivarsi soltanto di fronte ai conti ed alle esigenze di bilancio. La mancanza maggiore nei confronti degli arrivi dei clandestini è l’assenza di un senso comune delle frontiere e della relativa gestione: di fronte a ciò la divisione dei paesi aderenti all’Unione Europea risulta netta: da una parte quei paesi, soprattutto nella parte meridionale del continente, ma non solo, giacché anche la parte orientale dell’Europa è soggetta a questa pressione, che devono gestire il fenomeno migratorio senza alcuna assistenza degli organismi centrali, mentre dall’altra parte vi sono gli stati nordici o dell’Europa centrale, che rappresentano la meta preferita dei profughi. Le rispettive posizioni si differenziano perché i primi devono sostenere lo sforzo del primo impatto, l’arrivo dei profughi, mentre i secondi, così sostengono, devono affrontare le grandi quantità di richieste di asilo. Per il secondo tipo di paese, quelli appartenenti al primo dovrebbero fare da filtro ed impedire il più possibile l’arrivo di persone che poi, inevitabilmente, cercheranno di raggiungere il nord del continente. In questa visone si collocano perfettamente il progetto e gli scopi dell’operazione Triton, che l’Unione Europea ha pensato, non per fornire un aiuto umanitario, ma per difendere le frontiere meridionali europee, tra l’altro con un budget totalmente insufficiente. Occorre sottolineare che i governi dei paesi del nord Europa sono condizionati da un fenomeno sempre più presente che è quello del populismo e delle formazioni politiche xenofobe, che sfruttano la crisi economica per guadagnare voti associando la scarsità dei mezzi a disposizione con l’impossibilità di trasferirne ai migranti. Questa pressione politica a costretto forze di governo,sostanzialmente moderate ad intraprendere azioni per impedire l’emorragia di voti, che si sono concretizzate in azioni di mancato sostegno ai paesi che dovevano sopportare l’emergenza data dal primo impatto dell’arrivo delle ondate migratorie. Deve essere specificato che tutto questo avviene in concomitanza con l’assenza di una presenza istituzionale politica forte ed autorevole capace di mediare tra le varie esigenze con una normativa generale interna, sostenuta da una politica estera efficace. Mai come nel caso dell’emergenza dell’immigrazione si evidenzia la debolezza strutturale dell’Unione Europea, che si conferma un soggetto a livello internazionale fortemente debole. D’altro canto è un fatto che Bruxelles è uno dei maggiori fornitori di finanziamenti per la cooperazione internazionale, ma che le modalità con le quali questi contributi vengono erogati non sappiano garantire dei ritorni in termini di prestigio ed influenza, tali da consentire una gestione o una partecipazione alla gestione delle emergenze sul territorio stesso dove queste vengono originate, che spesso coincide con la destinazione dei finanziamenti. Ciò segnala, in modo evidente,  che l’Europa ha trascurato la politica estera per concentrarsi troppo su quella finanziaria, trascurando così gli effetti di uno scarso peso internazionale, che si riflette anche sugli equilibri interni. Non c’è stata, di fatto, una unione politica e siamo rimasti ad una forma di aggregazione basata soltanto sulla finanza, che si è rivelata poi soltanto a favore di alcuni stati ed a svantaggio di altri, generando tensioni ed avversioni ad una percezione, spesso concreta, di una Europa matrigna. Anche la lentezza con cui vengono convocate le riunioni dei ministri dei paesi membri, che dovrebbero avere carattere di urgenza, denotano deficienze organizzative preoccupanti, che non autorizzano alcun ottimismo. Al contrario la necessità presente possiede carattere di urgenza, ma non è certo l’unica  e neppure la prima volta, ma la triste vicenda della tragedia dei migranti potrebbe provocare una riflessione seria sugli strumenti politici dell’Unione, per una loro profonda revisione: sperare non costa nulla, anche se le premesse non vanno nella direzione dell’ottimismo.

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