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venerdì 29 maggio 2015
Birmania: lo strano silenzio di Aung San Suu Kyi sulla questione dei Rohingyas
Agli appelli per la difficile situazione del popolo dei Rohingya, vittime dell’estremismo buddista presente in Birmania, hanno aderito diversi premi Nobel per la pace, tra cui la massima autorità della religione buddista, il Dalai Lama e l’arcivescovo Desmond Tutu, oltre a varie personalità mondiali ed organizzazioni umanitarie. La vicenda del popolo musulmano dei Rohingya è trascurata da anni dalla comunità internazionale, questa popolazione, pur essendo presente da diverso tempo in Birmania e stanziata sul territorio statale è ampiamente discriminata ed esclusa dai più elementari diritti, quali la cittadinanza e, fra gli altri, l’accesso al mondo del lavoro ed alle cure mediche. La situazione insostenibile, anche a causa di recenti scontri religiosi causati dagli estremisti buddisti, che hanno provocato oltre 120 morti, i Rohingya sono stati costretti a fuggire dal paese birmano ed a diventare migranti in ostaggio di organizzazioni criminali. L’accresciuto afflusso dell’immigrazione clandestina, in una sorta di ripetizione della situazione del mediterraneo meridionale, ha costretto i paesi di destinazione dei flussi migratori, quali Malesia, Indonesia e Thailandia a chiudere le proprie frontiere, fornendo soltanto aiuti materiali in alto mare; il risultato è che i cargo mercantili stipati di persone si sono trasformati in veri e propri campi di concentramento galleggianti, dove i migranti sono sottoposti, oltre a ricatti economici, ad ogni forma di violenza, fino all’omicidio. In tutta questa situazione sorprende il silenzio della premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi, sollecitata all’intervento in favore dei migranti musulmani, anche dal Dalai Lama. Per ora la premio Nobel birmana ha risposto che solo il governo in carica potrebbe fare qualcosa, nonostante la sua continua partecipazione alle sedute parlamentari, Aung San Suu Kyi, fornisce l’impressione di non volere intervenire nella questione. Secondo diversi analisti il partito della premio Nobel è dato per favorito alle prossime elezioni nazionali ed un suo eventuale pronunciamento in favore dei profughi musulmani, potrebbe costituire l’unico motivo per pregiudicare una vittoria annunciata. Se questo scenario dovesse essere veritiero Aung San Suu Kyi manterrebbe un comportamento speculativo, con il solo scopo di ottenere voti, in netto contrasto con la sua storia personale e politica. Questa impressione è condivisa dal rappresentante di Human Rights Watch, che nutre forti dubbi sulla coerenza della donna che vinse il premio Nobel nel 1991. Aung San Suu Kyi è stata un vero e proprio simbolo per i diritti civili e democratici, è stata per quindici anni agli arresti domiciliari ed ha sacrificato il suo ruolo di madre per la lotta per la democrazia nel suo paese. Aung San Suu Kyi sembra essersi piegata alle esigenze politiche imposte da un ambiente dove il buddismo estremista è sempre più rilevante in una società che è diventata intollerante e che usa la matrice religiosa per risolvere questioni, che andrebbero affrontate nella maniera opposta. Se questa analisi è vera, il mito di Aung San Suu Kyi decade miseramente e le prospettive per un eventuale governo del suo partito non offrono speranze per un processo democratico lungamente atteso dalla comunità internazionale. Non anteporre la protezione delle minoranze, che dovrebbe diventare un punto del programma elettorale di ogni forza politica che si batte per i diritti civili, al mero risultato elettorale, denota una mancanza di personalità politica, che non assicura una garanzia di insediare un percorso democratico in maniera sufficiente. Se Aung San Suu Kyi vincerà le elezioni, potrebbe essere imbarazzante per le nazioni democratiche e le organizzazioni sovranazionali avere rapporti con la maggiore rappresentante di una forza politica che non ha detto, ne fatto nulla per aiutare un popolo perseguitato ed allo stremo.
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