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lunedì 15 giugno 2015

L'obiettivo della sconfitta totale della fame non è ancora stato raggiunto

Nel recente rapporto dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e del Programma alimentare mondiale, si evidenzia come il numero delle persone che patiscono la fame nel mondo sia sceso di 216 milioni, rispetto ai dati del periodo del biennio 1990-92 e con ben 72 stati in via di sviluppo, sui 129 iniziali, che sono riusciti a raggiungere l’obiettivo, fissato per il 2015 di dimezzare la fame nel mondo. Ancora, se si confrontano i dati del 1990-92 con quelli attuali la percentuale dei denutriti è calata dal 18,6 per cento al 10,9 per cento. Pur trattandosi di dati incoraggianti, anche in considerazione che sono maturati in una congiuntura difficile, causata dalla crisi economica e dall’incremento demografico, il numero di chi soffre la fame a livello planetario, appare ancora troppo consistente: sono infatti almeno 795 milioni, le persone denutrite. Su questo dato si vanno ad intersecare problemi di ordine geopolitico, tali anche da scatenare guerre e violenze tra i popoli e le nazioni. Sovente l’arma della fame è usata da gruppi politici o terroristici per alterare gli equilibri di intere regioni del pianeta. Non per niente i programmi delle organizzazioni umanitarie vengono spesso ostacolati, perché mantenere il monopolio delle forniture alimentari significa avere anche il politico, o, almeno la concreta capacità di condizionare parti di territorio di una nazione. Una conseguenza diretta della fame e delle carestie è il movimento migratorio, che ha assunto proporzioni enormi, è che divenuto un problema per diverse nazioni, non solo occidentali. D’altro canto, l’accesso al cibo rappresenta un forte fattore del condizionamento della vita politica, che va oltre i singoli confini nazionali ed influenza ormai le politiche degli stati più ricchi. Ma guardare al solo bisogno di cibo in modo isolato dal contesto politico rappresenta un grave errore in fase di analisi, giacché la lotta alla fame deve essere ricompresa in un programma più vasto di accesso ai diritti, che sappia andare oltre il soddisfacimento di quelli primari. Una programmazione dell’autosufficienza alimentare non può essere pensata disgiunta da una consapevolezza e dall’esercizio dei diritti civili, prima di tutto come cittadini e come lavoratori. Questi intendimenti si scontrano con livelli di istruzione ancora bassi e l’invasività della religione, spesso quella islamica, nelle sue forme più estreme, all’interno delle società più povere, andando a rappresentare un ostacolo al successo  più completo dello sviluppo. Deve essere specificato che i progressi tecnologici consentono la lavorazione di suoli prima non produttivi ed in questo senso esistono delle obiettive facilitazioni per lavorare nel senso dell’autosufficienza alimentare; questo fattore può permettere una maggiore razionalizzazione degli aiuti internazionali e quindi anche un maggiore coinvolgimento dei paesi sviluppati. Una azione in tal senso dovrebbe partire da quei paesi non attraversati da problemi interni per poi estendersi a quelli martoriati da guerre civili e terrorismo. Questa gradualità potrebbe rientrare anche in una sorta di accoglienza provvisoria di quei profughi che fuggono per la fame, senza essere costretti ad attraversare interi continenti per assicurarsi un futuro migliore. Si tratta, certo, di uno sforzo considerevole a livello organizzativo, nel quale le Nazioni Unite dovrebbero avere la guida ed il coordinamento, ma soprattutto usare la persuasione presso i paesi ricchi, per ottenere i giusti finanziamenti, che poi non sarebbero altro che investimenti per creare, in momenti successivi nuovi mercati.

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