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mercoledì 5 agosto 2015

La Turchia come variabile nella guerra contro lo Stato islamico

La variabile turca è il vero interrogativo di questa fase della lotta allo Stato islamico. Per la Turchia gli obiettivi principali non sono coincidenti con quelli degli Stati Uniti e malgrado abbia permesso all’aviazione militare di Washington di bombardare il califfato partendo dalle proprie basi, in cambio sembra avere ottenuto il benestare per colpire le postazioni del Partito dei lavoratori curdi. Per Ankara la presenza dello Stato islamico è un fattore temporaneo, che non viene visto come destabilizzante sul lungo periodo, viene, cioè interpretato come perdente sul medio periodo. Per la Turchia gli obiettivi principali sono, prima di tutto scongiurare la creazione di uno stato curdo indipendente ed abbattere il regime di Assad, per instaurare una zona di influenza, fondamentalmente sunnita sulla Siria. Washington ha obiettivi differenti: il primo, innanzitutto è quello di debellare il califfato, che non viene valutato come un pericolo transitorio, ma capace di estendere in maniera sempre maggiore la sua sovranità nella regione mediorientale. La valutazione turca sembra viziata da motivi di opportunità, che non ne suggeriscono una percezione di alleato affidabile; il sospetto, infatti è che Ankara ritenga strumentale l’azione del califfato ai propri interessi. Lo Stato islamico è nemico sia di Assad, che dei curdi, gli stessi nemici della Turchia e da qui consegue la sostanziale benevolenza con cui lo stato turco ha trattato fino ad ora le forze integraliste sunnite. Pare evidente un reale calcolo politico e militare, che comprende la volontà di sfruttare i successi militari dei fondamentalisti, per poi, magari, combatterli in un momento successivo o comunque quando gli obiettivi turchi saranno facilmente raggiungibili. Fino ad ora, infatti, il comportamento di Ankara verso lo Stato islamico è stato molto ambiguo e fonte di preoccupazione da parte degli Stati Uniti, verso i quali la fedeltà è parsa allentata. La Casa Bianca ha fatto pressione sulla Turchia, perché uno schieramento esplicito contro il califfato presentava un duplice vantaggio: da un lato quello logistico, rappresentato dalla vicinanza dei suoi aeroporti militari alle posizioni degli islamisti, dall’altro lato di tipo politico, perché la Turchia è l’unico stato islamico presente nell’Alleanza Atlantica. Tuttavia il calcolo strategico politico di Washington non sembra avere tenuto conto della contropartita richiesta dal paese turco, rappresentata dalla lotta ai curdi. Occorre ricordare che i curdi, non solo fino ad ora ma ancora attualmente, sono ben più importanti della Turchia nell’economia della guerra allo Stato islamico, schierando, insieme agli iraniani,  le uniche truppe di terra efficienti contro il califfato, fattore che ha permesso il presidio e la riconquista di diverse zone irakene e siriane. Con i bombardamenti turchi contro le formazioni curde del Partito curdo dei lavoratori, stretti alleati dei curdi irakeni, si rischia di innescare una guerra nella guerra, che può solo avvantaggiare sia lo Stato islamico, che la Siria di Assad. Sembra evidente che il calcolo del Pentagono sia stato quanto meno avventato, e rischi di essere aggiunto agli errori che hanno trascinato il medio oriente nella situazione attuale. Non si può non considerare l’attuale condotta della Turchia meno grave di come è stata gestita la situazione del paese irakeno, con il governo lasciato in mano esclusivamente agli sciiti e neppure della mancata reazione alle repressioni di Assad, che hanno dato il via alla guerra siriana, che avrebbe potuto indebolire da subito il regime favorendo l’opposizione laica. Analizzando il comportamento statunitense sembra che sia dettato da una approssimazione preoccupante derivante dalla mancanza di una accurata visione di insieme del quadro complessivo della situazione, a cui va aggiunta una immobilità militare, che si basa esclusivamente sull’uso dell’arma aerea, con l’impegno di qualche istruttore sul campo e forniture sempre più parsimoniose. In questo quadro, alienarsi la fiducia dei curdi appare un suicidio strategico difficilmente comprensibile. Sarebbe stato ben diverso se gli USA, prima di concordare l’uso delle basi turche, avessero profuso un impegno notevole nella ripresa e nello sviluppo del processo di pace tra Turchia e curdi. Deve essere specificato che Erdogan ha patito non poco l’affermazione del partito socialista curdo, votato anche dai turchi, che gli ha impedito di raggiungere la maggioranza assoluta e quindi di variare la costituzione. Questo fatto non è stato colto nella maniera adeguata dagli analisti americani, perché ha rappresentato una volontà di rivalsa del presidente turco, che si è materializzata con i bombardamenti delle basi curde. La valutazione di Erdogan come alleato, rappresenta un ulteriore punto debole nel quadro generale della lotta allo Stato islamico e nella definizione dello scenario del medio oriente: il presidente turco non può essere considerato affidabile, neppure in stato di emergenza, come deve essere stato considerato quello attuale dagli strateghi del Pentagono. Erdogan ha il solo obiettivo di raggiungere i suoi scopi e non è qualche sporadico bombardamento su postazioni periferiche del califfato a garantirne l’affidabilità; quindi la domanda è se ha senso mettere a rischio la forte alleanza con i curdi soltanto per usare basi militari più ravvicinate al territorio dello Stato islamico. Un ipotetica risposta può essere quella di avere elaborato un piano che preveda la creazione del Kurdistan soltanto sottraendo territorio all’Iraq, dove la comunità curda gode già di ampia autonomia ed esercita praticamente la propria sovranità, ma escludendo sicuramente le istanze curde nella Turchia e regolando, con dispositivi a favore di Ankara, la possibile divisione della Siria, da cui potrebbe derivare una zona di autonomia curda. Questa ipotesi sembra la più probabile, ma sottintende un lavoro diplomatico progressivo di cui i risultati non possono essere dati per acquisiti. Nel mentre la guerra contro il califfato continua e l’apporto delle truppe curde di terra rimane essenziale. Tuttavia c’è il rischio che i curdi turchi vengano distratti dai loro compiti contro lo Stato islamico per intraprendere azioni contro Ankara; questo pericolo è reale perché si è già verificato e rischia di allargarsi ancora. La Turchia sembra insistere su questa strada perché così facendo riduce la possibilità di una autonomia curda in Siria, che i curdi siriani senza l’appoggio di quelli turchi non possono raggiungere; ciò è ancora più motivato perché tra curdi e forze di Assad sarebbe in corso un tacito accordo di non aggressione per facilitare i combattimenti contro le milizie sunnite; un elemento in più per Ankara per combattere i curdi. Ma gli americani devono valutare bene questa situazione che indebolisce l’impianto militare contro il califfato, perché i combattenti laici siriani non sono giudicati pronti a condurre una lotta sul terreno contro lo Stato islamico e le forze regolari siriane, per cui l’unica strada sembra essere quella di favorire una pace o, almeno un dialogo tra Ankara ed i curdi, affinché i combattenti  curdi continuino a lavorare per gli Stati Uniti sul terreno.

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