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lunedì 10 ottobre 2016
Trump: il Partito Repubblicano è sempre più diviso
L’evoluzione della campagna elettorale di Trump, per alcuni versi prevedibile, aumenta in maniera maggiore la frattura all’interno del Partito repubblicano. Per i vertici del partito si tratta della conferma della loro inadeguatezza a dirigere uno dei due partiti statunitensi e, sopratutto, di essere stati passivi di fronte all’importanza sempre crescente nella destra americana, del movimento del Tea party, da cui il fenomeno Trump discende direttamente. Per il Partito repubblicano è la fine di una politica conservatrice ma saldamente all’interno di limiti predefiniti: Trump ha trascinato il nome del partito verso una deriva populista e di tale basso livello politico, che ripristinare la credibilità di questa forza politica sarà un impresa, non impossibile, ma certamente molto ardua. Ciò non è un bene ne per gli Stati Uniti, ne per il mondo intero; la possibilità che una delle due formazioni politiche del paese più importante del mondo prenda un tale indirizzo, non può che costituire una fonte di preoccupazione per tutta la platea internazionale: amici e nemici degli USA. Al momento il Partito è diviso, con buona parte della leadership, che si è già espressa apertamente contro il candidato miliardario e con la parte restante che si ostina a non pronunciarsi, ma che spera in una sua sconfitta. Soltanto una pare esigua si dice favorevole a Trump, un po perchè convinta del personaggio, un po per non sconfessare il responso degli elettori repubblicani. Nella base del partito la divisione è meno netta, ma riguarda comunque, una spaccatura che si attesta pressoché sulla metà degli elettori, ma, dove, il consenso a Trump è destinato a calare permanendo in uno zoccolo duro disposto ad accettare qualsiasi caduta di stile, ma che pare largamente insufficiente per sconfiggere la Clinton. La sensazione è che il pensiero della maggioranza del vertice sia di pensare ad una sorta di rifondazione, che riporti il Partito repubblicano entro il solco dei suoi tradizionali valori, che non può non passare attraverso il fallimento elettorale di Trump. Il gioco è comunque rischioso perchè se si verificherà questa ipotesi sarà per Trump facile addossare delle colpe specifiche per la sconfitta all’organizzazione del partito, che sta già facendo poco per sostenere quello che è ufficialmente il suo candidato. Quello che si rischia è uno scontro permanente per la ragione di consegnare il paese ai democratici. Uscire da questa situazione non sarà certo facile e le soluzioni improvvisate e di breve periodo non potranno che aggravare lo stato delle cose. Uno degli scenari possibile, infatti è che il partito sia conquistato definitivamente dal Tea Party, ancora influente, e diventi una formazione di chiaro stampo populista, che, se anche minoritaria sul piano interno, possa trascinare anche i democratici su di una deriva politica pericolosa. Per evitare questa eventualità il Partito repubblicano deve rivedere la sua politica e portare tesi e ricette nuove, che seppure nel solco della propria tradizione, possano sconfiggere l’influenza delle parti più arretrate del paese. Si deve, cioè, trovare, una modalità nuova di dialogo con i potenziali elettori, senza scendere sul terreno populista come è stato fatto nelle primarie del partito, dove è apparso chiaro che l’iscritto classico del Partito repubblicano non è attrezzato per competere con chi si propone le soluzioni populiste per risolvere i problemi del paese. Questo fatto rappresenta anche un sintomo del distacco dei vertici del partito dalle esigenze delle masse, che si identificano con la destra, perchè sorpassati proprio a destra dagli ideali del Tea Party. In parte la resposabilità per essere arrivati a questo punto è proprio imputabile ai vertici del partito, che hanno creduto inizialmente, di essere capaci di sfruttare l’apporto che il Tea Party poteva convogliare nelle fila del partito, credendo di governare il fenomeno, cosa che è sfuggita di mano, anche per l’assenza di proposte alternative in grado di ridare all’elettorato la fiducia necessaria nella parte istituzionale del movimento politico. In pratica quello che è successo è stato una strategia politica errata: invece di puntare sui contenuti politici si è creduto di approfittare delle difficoltà dei democratici, attraverso il reperimento di un consenso più facile, ma che si basava su divergenze ideali consistenti. Da quel momento in poi la conseguenza è stata quella di arrivare ad esprimere Trump come candidato del Partito, un candidato che rappresenta il sintomo evidente del cattivo funzionamento dell’apparato del partito, incapace di proteggersi da ingerenze esterne. Certamente la radicalizzazione dello scontro sulla scena politica americana è stato un elemento, in un certo senso, di sorpresa, che ha determinato l’allontanamento politico di due partiti che non esprimevano, storicamente, teorie politiche troppo distanti, tuttavia, se si vuole fare un paragone nel campo democratico, paragone certamente ingeneroso per Bernie Sanders, il partito che esprime la Clinton come candidato presidente, ha saputo contenere, anche se con mezzi non sempre ortodossi, uno spostamento troppo a sinistra, che poteva alterare la fisionomia più moderata tipica della formazione politica democratica. Si è arrivati così alla vigilia di una elezione presidenziale, che presenta una novità assoluta: quella di un candidato, praticamente non appoggiato dal partito che lo presenta. Guardando aldilà dello specifico caso, che riguarda il partito repubblicano, occorre sottolineare che la falla riguarda anche il sistema elettorale americano, che, forse, è diventato superato ed ha bisogno di un adeguamento, non tanto nel sistema formale, quanto in quello reale, dove il bipartitismo non sembra più rispondere alla fotografia del paese.
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