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martedì 16 aprile 2019
Il distacco occidentale verso i fatti di Algeria, Libia e Sudan
Se, durante le primavere arabe i governi occidentali si dimostravano più coinvolti ed anche interessati ad uno sviluppo della situazione che potesse evolvere i sistemi di governo dei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo in democrazia, attualmente i sommovimenti, seppure diversi nella loro forma, che riguardano Algeria, Libia e Sudan sono osservati con distacco. Una delle ragioni è di ordine generale: le attese di una evoluzione in sistema democratico vicino a quelli occidentali è andata delusa per la scarsa attitudine di grandi parti della popolazione a sistemi politici mai praticati e visti con sospetto dagli unici movimenti capaci di orientare il popolo, quelli di matrice religiosa. Il caso egiziano è uello maggiormente esplicativo: i Fratelli musulmani andati al governo grazie al voto democratico hanno assunto ogni forma di potere, relegando ai margini le minoranze e cercando di imporre la legge islamica, il consegunete rovesciamento di questo esecutivo si è concretizzato grazie all’intervento delle forze armate che hanno ristabilito un regime diverso ma sempre dittatoriale. L’atteggiamento isolazionista americano, nettamente cambiato rispetto alla presidenza Obama, provoca la mancanza di un paese leader nel campo delle istanze democratiche occidentali, causando la mancanza di un effetto traino per gli altri paesi dell’Occidente. Infine l’Europa, lacerata al suo interno mostra tutta la preoccupazione possibile per una nuova ondata migratoria, causata dal conflitto libico, che non potrà essere gestita dall’Italia, sia per l’avversione del governo di Roma, che per il rifuto degli altri paesi a farsi carico del problema degli immigrati irregolari. Un ulteriore pericolo è rappresentato dalla potenziale presenza di elementi legati al terrorismo islamico, pronti ad imbarcarsi per arrivare in Europa. Le questioni non sono secondarie, se Roma continua a tenere chiusi i porti italiani occorrerà vedere quale sarà l’atteggiamento degli altri paesi europei e della stessa Unione: senza un accordo comune le tensioni già presenti all’interno di Bruxelles rischiano di deflagrare; occorre, poi, tenere presente come sarà composto il parlamento europeo che uscirà dalle elezioni di maggio. Peraltro le elezioni europee e la questione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea rappresentano dei fattori politici che distolgono la concentrazione necessaria per occuparsi delle questioni africane, sia direttamente, che come elemento di pressione presso le Nazioni Unite. Se si può, almeno in parte, comprendere questo distacco, non lo si può certo condividere: la stabilità di stati vicini, che sono anche fornitori di materie prime energetiche, è un elemento dal quale non si può prescindere e ciò dovrebbe richiedere un maggiore impegno da parte di Bruxelles, che pare poco presente. Certamente i mezzi che consentirebbero una azione efficace non appartengono all’Unione: l’assenza di una politica estera e di proprie forze armate slegate alle logiche nazionali, limitano di molto il raggio d’azione comunitario. Inoltre gli interessi nazionali dei paesi europei sono spesso in contrasto e le manovre sotterranee funzionali ad interessi singoli non aiutano il necessario ruolo da protagonista che Bruxelles dovrebbe interpretare. L’azione è lasciata così a stati che si muovono in modo neanche troppo nascosto e che hanno interessi contrari a quelli dell’Unione. Senza l’aiuto degli Stati Uniti, che non hanno ancora compreso che il loro isolazionismo danneggia prima di tutto se stessi, l’Europa si trova in una posizione di debolezza eccessiva, ma ciò non è una sorpresa, giacchè la mancanza di strumenti per sopperire all’assenza americana era cosa già ben nota.
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