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giovedì 2 aprile 2020

La condanna della Corte europea per Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca

Il rifiuto di adeguarsi alle disposizioni europee circa il meccanismo, seppure temporaneo, dell’accoglienza verso i richiedenti asilo, elaborato da Bruxelles nel 2015, ha determinato l’accoglimento del ricorso contro Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che la Commissione  Europea aveva precedentemente presentato. Ora i tre stati membri dell’Unione dovranno dare seguito alla sentenza, adottando dei dispositivi idonei all’accoglienza dei migranti. La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha ravvisato la mancata esecuzione della decisione del Consiglio europeo, adottata il 22 settembre 2015, che rendeva obbligatorio l’accoglimento di circa 120.000 richiedenti protezione internazionale da Italia e Grecia, verso gli altri stati europei. La Corte ha anche accertato la mancata osservanza di Polonia e Repubblica Ceca, sulla base di una decisione del 14 settembre 2015, del mancato ricollocamento di 40.000 richiedenti asilo, mentre Budapest non rientrava in questa decisione. Queste decisioni del Consiglio europeo avevano come scopo quello di alleggerire la pressione su Italia e Grecia dei flussi migratori; in questo frangente la risposta di Varsavia era stata che la Polonia poteva accogliere appena 100 migranti, senza, peraltro, poi dare seguito a questo intento; Budapest non aveva nemmeno indicato un numero possibile di migranti da accogliere, mentre Praga aveva accolto soltanto dodici persone al posto delle cinquanta, che aveva dichiarato di potere ospitare. Questi comportamenti, che sommano al rifiuto di conformarsi e di adempiere alle decisioni del Consiglio europeo, anche quello di non mantenere quanto promesso, neppure rispettando le minime quantità indicate dai paesi stessi, ha provocato una decisone che è giuridica, ma anche, finalmente, politica; la Corte, infatti, accogliendo il ricorso della Commissione europea, ha respinto le tesi dei tre paesi, che avevano invocato le loro responsabilità dirette in materia di ordine pubblico e sicurezza interna e, cosa ben peggiore, un presupposto malfunzionamento del meccanismo per il ricollocamento dei profughi. L’effetto immediato della sentenza è il dovere per i tre paesi di adeguarsi immediatamente alle disposizioni della Corte, anche per evitare un nuovo ricorso della Commissione, che potrebbe provocare l’applicazione di sanzioni pecuniarie. Tuttavia questa sentenza sancisce che la questione non riguarda soltanto il piano giudiziario, ma investe anche quello politico. L’adesione all’Unione Europea è per questi stati una questione di mera convenienza, che gli ha permesso di potere accedere a cospicui finanziamenti, con i quali i loro governi mantengono una economia, altrimenti molto carente in termini di risultati. Si tratta di paesi nei quali l’influenza antidemocratica dai regimi dai quali provengono, nonostante sia passato un gran lasso di tempo dalla fine dell’impero sovietico, non è stata superata dal tessuto politico ed anche da gran parte di quello sociale. La mancata maturità democratica impedisce una consapevole condivisione con gli ideali  sui quali si fonda l’Unione. Questa sentenza può essere il primo passo per determinare regole meno permissive per restare all’interno della casa comune europea ed instaurare dei meccanismi graduali più stringenti per l’adozione dei provvedimenti a favore della divisione, non solo degli aiuti finanziari, ma anche di quelle problematiche che generano obblighi anche non graditi. Prevedere la detrazione delle contribuzioni comunitarie in modo automatico ad ogni mancanza, deve essere la prima specie di penalità prevista, fino, poi, ad arrivare all’espulsione dei membri riottosi ad uniformarsi agli obblighi comuni. Solo così si potrà percorrere avanzando il cammino verso l’unificazione politica europea.

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