Le rotte migratorie verso l’Europa, che provengono dal Mediterraneo meridionale hanno visto un progressivo spostamento delle basi di partenza dalla Libia verso la Tunisia. I motivi di questa variazione sono diversi e sono riconducibile ad una maggiore attività di repressione da parte dei libici sui migranti che cercano di partire dalle loro coste, una impreparazione delle autorità tunisine a fare fronte a questo nuovo fenomeno che li riguarda ed, infine, l’incremento dell’emigrazione specificatamente tunisina verso l’Italia. La situazione economica della Tunisia a causa della pandemia è la vera emergenza alla quale sono connessi questi ultimi sviluppi. Il calo di attività del settore tessile ha registrato una percentuale diminuita del 17%, mentre nel turismo, che rappresenta una delle maggiori voci di entrata la contrazione è stata del 30%; ciò ha comportato un notevole calo del prodotto interno lordo e l’aumento esponenziale della disoccupazione. Aldilà del fatto che la diminuzione dell’economia sta riguardando la globalità del pianeta, la necessità di forme di cooperazione con gli stati della sponda meridionale del Mediterraneo dovrebbe essere al centro di un progetto dell’Unione, che, invece, non esiste, mentre l’iniziativa viene lasciata ai singoli stati più vicini alle situazioni di emergenza. Eppure l’investimento darebbe ritorni sia economici, sia sul piano della sicurezza, che su quello della politica; infatti una regolazione del traffico migratorio, oltre che offrire garanzie sulla stessa sicurezza delle persone, potrebbe togliere argomenti alle formazioni populiste ed anti europee. Queste riflessioni sono funzionali al fenomeno dell’emigrazione per motivi economici, che riguarda la Tunisia, ma dovrebbe essere estesa anche ad altri paesi africani, proprio come strategia preventiva. Diverso è il caso di chi scappa da guerre e carestie e finisce preda dei trafficanti economici, che operano dalle coste libiche. L’atteggiamento dei governi occidentali, specialmente quelli italiani, si è indirizzato alla delega del controllo del fenomeno al governo libico, che non ha mai garantito il rispetto dei diritti umani ed, anzi, lo ha violato palesemente anche grazie ad armamenti forniti proprio dall’Italia. La consapevolezza dell’uso della violenza per in contenimento del fenomeno migratorio mette i governi italiani, sia quello attuale, che quello precedente, in una posizione di almeno tollerare i metodi libici, che non può essere condivisa. D’altronde questo motivo, quello della violenza libica, può essere proprio una delle cause dello spostamento delle basi di partenza verso le coste della Tunisia, dove lo stato non è preparato ad affrontare il fenomeno. Il governo italiano ha minacciato di togliere i contributi, si parla di oltre sei milioni di euro, alla Tunisia, ma si tratta ancora una volta di misure contingenti, come lo è l’elargizione del contributo, che sono avulse da un piano più articolato, ampio e di lungo periodo, per il quale occorre l’Unione Europea come protagonista principale, sia dal punto di vista finanziario, che politico. Il caso tunisino dimostra anche che la repressione da sola e come unico metodo di contrasto all’immigrazione illegale non è sufficiente, perché le soluzioni che la marea umana può trovare sono sempre diverse ed investono sempre nuovi soggetti, che, magari prima erano fuori dal contesto. Questo è ancora più vero perché i numeri del fenomeno migratorio si mantengono più o meno sugli stessi valori, sia che la partenza sia della coste libiche, che da quelle tunisine. Quindi il margine di manovra per iniziare un progetto di contenimento basato sugli aiuti potrebbe partire da dati certi e, forse, con investimenti inferiori di quelli dati alla Turchia per contenere la rotta balcanica, ma che non sarebbe una soluzione di emergenza ma un progetto di collaborazione dove anche gli stati di partenza potrebbero usare gli aiuti per uno sviluppo economico e non per le armi, fatte passare come strumento di controllo, lo sono anche, certo, ma anche strumento militare funzionale al governo di turno.
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