L’avvento di Biden alla presidenza statunitense, coinciso con la seconda fase della pandemia, ha soltanto evidenziato la reale necessità di una maggiore indipendenza dai prodotti cinesi per l’autonomia del tessuto produttivo americano, in particolare, ma di tutto l’occidente in generale. La questione ormai è antica: lo spostamento di produzione, anche di prodotti strategici, condizionato soltanto dalla volontà di abbassare i costi del lavoro, ha determinato una dipendenza dal paese cinese, che non è mai stata regolata dai paesi occidentali, attratti dalla deregolamentazione per favorire il guadagno facile delle imprese. Aldilà dei costi sociali e dell’impoverimento del tessuto produttivo occidentale, la questione è sempre stata ben presente ai governi, che sono stati però attratti dalla disponibilità di investimenti cinesi a compensazione della perdita di posti di lavoro, di conoscenze e, soprattutto, di autonomia operativa della produzione industriale. Questo squilibrio doveva prima o poi emergere e l’arrivo della situazione pandemica è stato l’elemento scatenante, che ha reso non più rinviabile una revisione dell’attuale stato di cose. Un esempio pratico è stato costituito nella sospensione della produzione, in alcuni stabilimenti automobilistici americani, a causa della mancanza di pezzi di ricambio provenienti dalla Cina e poi, come non ricordare, l’assoluta penuria di mascherine chirurgiche nella prima fase della pandemia, proprio perché la produzione di questi presidi medici era stata del tutto spostata in territori al di fuori dell’occidente. La strategia di Biden ha individuato sei aree strategiche su cui operare la revisione della produzione e poi della fornitura, si tratta dei prodotti relativi alla difesa, sanità pubblica e biotecnologia, tecnologie delle telecomunicazioni, energia, trasporti e produzione alimentare e fornitura di materie prime agricole. La scelta appare scontata per avere una autonomia operativa e decisionale da praticare sul proprio territorio e per gli alleati. Certo le ultime tensioni politiche e commerciali hanno imposto questo percorso, ma anche un’analisi sommaria può permettere di affermare come questo processo sia in ritardo per gli equilibri mondiale e per recuperare il gap prodotto fino ad ora dalla situazione pregressa. La strategia del presidente americano si completa con la volontà di collaborare, prima di tutto su queste sei aree strategiche, con gli alleati europei, quelli dell’America latina e quelli asiatici. Si tratta di una inversione di tendenza, rispetto all’isolazionismo portato avanti da Trump, che ha involontariamente sostenuto il predominio cinese della produzione industriale; tuttavia il problema della delocalizzazione non sembra del tutto superato: infatti il coinvolgimento legittimo di paesi con basso costo del lavoro, rischia di spostare delle produzioni dalla Cina presso altri paesi, che, oltretutto, non dispongono delle conoscenze produttive cinesi. Il percorso da affrontare deve essere sostenuto dagli stati per riportare le produzioni essenziali per prime entro i confini occidentali, ma ciò non basta, occorre anche procedere sulla via di una nuova industrializzazione più completa, che deve ricomprendere anche produzioni ritenute meno essenziali, ma complementari ed in grado di assicurare una ancora maggiore autonomia. Certamente non si può pensare che ogni membro degli alleati occidentali possa ricreare un tessuto produttivo del tutto autonomo sul proprio territorio, ma questa strategia deve essere pensata ed attuata a livello di alleanza globale, tenendo conto, però delle peculiarità dei tessuti industriali locali, che devono aumentare la propria autonomia potendo contare su di una qualità produttiva dei prodotti da assemblare almeno pari a quella cinese. Il processo, quindi non è breve e non è agevole e prevede cospicui trasferimenti finanziari e di conoscenza verso i nuovi partner produttivi, di cui deve, però, essere verificata la sicura affidabilità, non solo in termini di alleanza, ma di condivisione dei principi politici circa il rispetto dei diritti umani. Su questo tema si gioca molto, infatti, sul confronto dei paesi occidentali, con gli USA come interprete principale, il confronto con la Cina, da cui discende la necessità di prevenire eventuali blocchi di parti di produzione necessarie all’industria occidentale. Naturalmente il confine tra necessità commerciale e rivalità politica è divenuto sempre più labile e la voglia di aumentare il proprio peso politico da parte di Pechino sarà un fattore determinante per i rapporti con la Cina, che devono essere improntati ad un maggiore galateo diplomatico, senza però arretrare sulle qualità distintive occidentali, primi fra tutti i diritti umani anche al di fuori del perimetro dell’alleanza occidentale.
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