Politica Internazionale

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lunedì 21 febbraio 2011

Diplomazia occidentale: opportunismi ed errori

La diplomazia occidentale deve interrogarsi sulle sue azioni e sui suoi rapporti con le dittature. In vario modo, per ragioni di opportunità politica o economica, le relazioni intrattenute con le dittature che stanno cadendo sono state intense e durature. Le condizioni con cui i cittadini dei paesi in rivolta venivano governati erano note, ma raramente e se non per motivi legati al proprio tornaconto, i governi occidentali muovevano critiche ufficiali ed atti di pressione a favore dei diritti civili negati. L'occidente ha fatto finta di non vedere, ben conoscendo invece la situazione e trincerandosi dietro l'omertosa ragion di stato della non ingerenza. Mentre con Iraq ed Afghanistan, ma anche con Serbia e Kossovo, ci si lanciava in un interventismo, talvolta giustificato, con le dittature petrolifere si sceglieva la tattica dei trattati, se non quella dell'alleanza. Dire due pesi e due misure rende bene l'idea. Eppure il livello di malversazione della popolazione non era differente, ma invece che l'intervento militare o la sola pressione economica, si pensi ad esempio a Cuba, si sceglieva di foraggiare sotto forme diverse le casse dei dittatori. Ancora oggi, in piena rivolta democratica, non si arrischiano pronunciamenti dalle cancellerie, se non mezze frasi che consentono comunque una sorta di via d'uscita buona per tutte le soluzioni. Anche istituzioni che dovevano essere super partes come l'ONU, sono state preda di tatticismi e veti incrociati tali da non consentire un'azione efficace in favore delle persone in quanto tali. Alla fine, sicure dei propri accordi e delle tattiche fin qui sviluppate, le diplomazie occidentali si sono risvegliate in un incubo, che le ha colte impreparate. Dopo avere coltivato il proprio orticello per spuntare un prezzo migliore sul rifornimento del gas o per fermare gli immigrati irregolari, senza una tattica comune, i paesi occidentali si trovano a dovere ripensare dall'inizio tutto il rapporto con i paesi ora in rivolta. Si tratterà di un ripensamento radicale come idea di fondo, come filosofia d'approccio con questi paesi che si daranno nuove forme di stato e di governo, ed anche nella azione diplomatica pura, quella fatta di contatti e di relazioni, anche di basso profilo, si dovrà ripartire da zero per reimpostare totalmente accordi e trattati, si dovrà rinegoziare tutto non sapendo chi si avrà davanti. E' necessario prepararsi da subito: essere di nuovo impreparati non è più ammissibile.

2011anno delle rivoluzioni

Il 2011 è ormai l'anno delle rivoluzioni, la portata storica dei fatti che stanno accadendo sotto i nostri occhi e di cui siamo testimoni diretti e talvolta protagonisti, grazie alle nuove tecnologie, avrà la stessa valenza nei manuali e nei testi istituzionali di storia contemporanea dei fatti del 1989, culminati con la caduta del muro di Berlino e la fine della cortina di ferro. Come allora una massa di popoli si muove, quasi all'unisono, per placare la propria fame di diritti, cercando un riscatto che garantisca un futuro migliore, in un quadro di legalità all'interno delle proprie nazioni, fino adesso dittature. Qui finiscono le similitudini, ora ci troviamo di fronte ad una massa di persone che preme alle nostre porte in maniera più pressante di quanto successo con i paesi dell'est, che ricordiamocelo, avevano comunque un livello di vita più elevato. Inoltre non esiste in Africa un paese come esisteva allora in Europa, la Germania Ovest, capace di assorbire dentro se stesso un'altra intera nazione, anche se poi il costo economico dell'operazione è in parte ricaduto sugli altri paesi dell'Unione Europea. Proprio un'istituzione come la UE è riuscita a fare da ammortizzatore alla trasformazione in democrazie dei paesi oltrecortina, inglobandoli nel processo unificatore del vecchio continente, coinvolgendo ed in qualche modo guidando la transizione democratica, sopratutto con consistenti aiuti economici. Insomma la UE ha di fatto preso sulle sue spalle, con tutti gli errori del caso, intere nazioni mantenendo al suo interno la trasformazione di istituzioni, popoli e culture. Pur essendo un ambiente certamente protettto, non è stata una operazione facile e senza costi sociali. In Africa non c'è una UE che possa almeno coordinare un processo al buio di fuoriuscita dalle dittature. Ci sono paesi seduti su ricchezze immense, fino adesso appannaggio di oligarchie ben poco illuminate, la rabbia accumulata per le diseguaglianze sociali molto profonde cresciute in sistemi che garantivano solo l'incremento della povertà generalizzata, ha generato lo scoppio delle rivolte, sostenute dalla conoscenza dei nuovi sistemi informativi, che solo governanti ottusi non hanno compreso. La legittima autodeterminazione dei popoli ha scalzato, o sta scalzando dittature che alla fine si sono dimostrate mostri di cartone. Bene, se diamo per assodate le legittime aspirazioni dei popoli e la loro giusta lotta di liberazione, dobbiamo anche fare delle considerazioni sul futuro di questi paesi, che giocoforza è legato al nostro. Il timore maggiore resta legato al vuoto di potere che si sta venendo a creare, fortunatamente il ruolo delle forze armate in generale, di questi paesi è stato quello di schierarsi dalla parte del popolo, anche se in taluni casi la repressione è stata violenta; il pericolo che si instaurino teocrazie islamiste, grazie alla facile presa sui popoli è concreto. Il secondo aspetto è quello energetico, l'industria e la vita civile occidentale si basa, per una parte consistente, sulle materie prime acquistate da questi paesi; se da un lato essi non possono rinunciare al flusso di denaro derivante dalla vendita di gas e petrolio, dall'altro potrebbero esercitare pressioni di tipo politico attraverso queste armi. Un ulteriore aspetto è il controllo del movimento delle masse umane, regolato con accordi pilateschi tra democrazie e dittature, l'Europa si trova spiazzata dalla caduta dei regimi perchè impreparata a gestire emergenze umanitarie di così grande portata come quelle che verosimilmente si abbatteranno sulle sua coste. Fino adesso l'occidente è stato impreparato, viceversa che nel 1989, è ora di studiare una strategia comune ed affinare glio studi diplomatici, la situazione è già troppo avanti.

domenica 20 febbraio 2011

Libia: le incognite di una rivoluzione inattesa

La crisi libica ha delle peculiarità per l’europa e per tutto l’occidente, che la diversificano dalle altre crisi nord africane ed a quelle del Bahrein o dello Yemen. Le coincidenze sono con la ricerca disperata del riconoscimento dei diritti civili, in un quadro di dittatura, probabilmente ancora più invasiva che negli altri regimi. Ma l’europa si trova spiazzata di fronte a questa rivolta che mette in crisi una dittatura con la quale aveva raggiunto una sorta di equilibrio. Gli aiuti per bloccare le migrazioni che partivano dai porti libici sono storia recente, come storia recente sono gli accordi economici per costruire le infrastrutture di un paese pronto a lanciarsi nell’economia globale, seppure con le limitazioni del caso. Non sono storia recente i rapporti economici tra Libia ed Europa per la fornitura di gas e petrolio, con un traffico verso il vecchio continente stimato nell’85% della produzione di Tripoli. Anche gli USA, dopo gli accordi del 2003, pur non gradendo Gheddafi, su quel fronte dormivano sonni tranquilli. La Libia era un sostenitore del terrorismo internazionale, con contributi economici ed anche pratici, che facevano del capo della Libia un obiettivo da bombardare; ma dopo quell’accordo la situazione era stata regolamentata. I paesi occidentali sono in mezzo al guado, appoggiare le legittime richieste del popolo libico sarebbe scontato, come avvenuto per gli altri popoli in rivolta, tuttavia i legami e gli aspetti che potrebbero conseguire da questo appoggio, dovuto ma non dato, preoccupano le cancellerie. Gheddafi da parte sua ha già, di fatto, allentato i controlli dai suoi porti, nonostante i denari già incassati, per permettere ad un nutrito numero di migranti di salpare alla volta della UE; la minaccia è concreta, l’Italia, in prima battuta, e la UE in seconda, non sono in grado di sostenere una ondata migratoria che oltrepassi i numeri previsti. Esiste anche l’arma del ricatto energetico, bloccare le importazioni di gas è un deterrente pesante per la fame di materia prima essenziale per la produzione industriale e per le esigenze civili. Infine esiste la minaccia terroristica, per ora neppure paventata; Gheddafi potrebbe venire meno agli accordi presi nel 2003 e fomentare una massa popolare che lo vede come il leader politico dei paesi, come si diceva una volta, non allineati. Non mancherebbe il materiale umano ed anche politicamente la Libia potrebbe trovare un buona numero di paesi alleati, sempre che esca indenne dalla rivolta. In questo quadro una alleanza con regimi del calibro dell’Iran non sarebbe un’idea peregrina, con il risultato di avere le navi iraqene davanti alle coste italiane. Un’altra considerazione è doverosa, nell’ipotesi di una sconfitta di Gheddafi, il futuro sarebbe ugualmente un punto interrogativo per l’occidente per l’incertezza che risulterebbe da chi potrà prendere il potere.

USA: trattare o no con i talebani?

Di fronte ai nuovi scenari internazionali innescati dalle rivolte di popolo gli USA accelerano la ricerca del dialogo con i Talebani, per aumentare la possibilità di una exit strategy più veloce. La questione, tuttavia non è semplice: esistono paletti di non poco conto da limare per superare le reciproche diffidenze. Entrambi gli schieramenti, a parole, pretendono in un qualche modo, l’abbandono delle armi, anche se con opzioni diverse. Ma il fatto che da ambo le parti si riconosca, anche se per ora in forma ufficiosa, la necessità di trattare significa che l’impasse della guerra afghana vale per tutti. Senza un’uscita diplomatica il pantano bellico non si ferma e gli Stati Uniti rischiano di non tenere il passo in tutto il teatro mondiale. La preferenza dello stato Afghano, cioè di Karzai, è però quella di non scendere a patti con i talebani, per non correre il pericolo di inquinare il traballante stato di Kabul con l’entrata nell’agone politico ufficiale di rappresentanti integralisti, la questione diventa così spinosa per gli USA, costretti a giocare su due tavoli. Ma la soluzione non appare procrastinabile, l’esigenza principale degli USA e’ quella di alleggerire il proprio impegno nella regione per stornare verso altri scenari sforzi, soldi e truppe. La trattativa con i talebani rischia cosi’ di diventare pericolosamente precipitosa e di innescare soluzioni non convenienti per eccesso di fretta, tuttavia gli americani stanno valutando sempre di mantenere delle basi nel paese per appoggiare lo stato afghano, anche dopo il ritiro programmato delle truppe. La soluzione resta comunque vincolata a diverse variabili e quelle afghane sono solo alcune di esse; lo sviluppo della scena internazionale con l’incognita Israele ed il suo stato di allerta senz’altro giocheranno un ruolo predominate nelle strategie USA future.

sabato 19 febbraio 2011

Gli USA vicino ad Israele

Segnale forte dell'amministrazione Obama in favore di Israle: bocciata all'ONU una risoluzione, promossa da ANP che doveva condannare Tel Aviv per le costruzioni sui territori in territori palestinesi. Nell'attuale momento di incertezza con le rivolte in corso nei paesi vicini allo stato ebraico, dove tanto stanno contando i movimenti islamici e con due navi militari iraniane in attesa di solcare il canale di Suez, vietare la condanna di Israele assume un fatto che va aldilà delle stanze del palazzo di vetro e delle fredde norme burocratiche proprie delle risoluzioni ONU. Per Israele significa incassare la vicinanza dello stato statunitense su una questione che l'amministrazione Obama non ha mai dimostrato di condividere molto. Sicuramente in futuro ci sarà tempo per ridiscutere la questione ma ora l'importante è dire ad Israele, per primo, ed a tutto il mondo, specialmente quelo arabo, per secondo, che l'alleanza con il paese della stella di David è centrale nei pensieri del governo di Washington. Obama è cosciente che un pronunciamento del genere rischia di fomentare l'antiamericanismo del popolo arabo, specie quella parte che considera Israele neppure come stato, ma solo come identità sionista, tuttavia il pronunciamento costituisce proprio un monito verso gli integralisti, che sperano di approffittare della situazione di generale caos per colpire Israele. Quello che dispiace, probabilmente anche allo stesso Obama, è che a rimetterci siano ancora una volta i Palestinesi, specialmente nel momento in cui i negoziati devono spiccare il volo verso l'inizio, il respingimento della risoluzione potrebbe bloccare ancora una volta le trattative, schiacciate esigenze uguali e contrarie; del resto Obama si trova nella situazione di chi è tra l'incudine ed il martello, non gradendo certamente di fare tale regalo a Netanyahu, inviso al capo di stato americano per il suo radicalismo. Siamo nel bel mezzo di un difficile esercizio di equilibrismo politico pr superare il quale Obama deve fare ricorso a tutte le capacità della diplomazia americana.

venerdì 18 febbraio 2011

Obama riunisce le più importanti aziende tecnologiche USA

Barack Obama ha ieri incontrato dodici rappresentanti delle più importanti compagnie produttrici di Informatica e tecnologia, fra i presenti anche Steve Jobs di Apple, per pensare un coordinamento del lavoro di questo settore strategico. La nota ufficiale parla di una promozione congiunta del settore dal lato economico, che comprenda investimenti verso obiettivi mirati da parte del settore privato in grado di consentire una crescita economica ed aumentare il numero dei posti di lavoro. L'obiettivo finale è cercare di raddoppiare le esportazioni nell'arco dei prossimi cinque anni. Al di fuori delle dichiarazioni ufficiali appare difficile che, oltre ai temi economici, non siano state trattate le implicazioni politiche delle nuove tecnologie, anche, ma non solo, alla luce dei recenti sviluppi. Obama potrebbe avere anche richiesto una collaborazione più fattiva con l'amministrazione americana, con implicazioni sia militari che di politica estera. La crescente importanza dei social network e sopratutto dei router che li gestiscono ne determina un obiettivo primario non solo da difendere, ma anche da gestire, le applicazioni sono infinite dal controllo all'indirizzo concreto dei movimenti. Inoltre il potere tecnologico, che malgrado l'avanzata delle nuove potenze, è ancora saldamente in mano statunitense, è sempre più vitale nel campo militare e della cyberguerra, settore ormai fondamentale nel campo bellico. Il controllo a distanza e l'intrusione nei sistemi informatici di altri stati è diventato un fattore determinante per il contrasto di operazioni nemiche, come il recente blocco della ricerca nucleare iraniana a causa di un virus, ha dimostrato. La necessità di un coordinamento a livello federale è resa necessaria anche per razionalizzare gli sforzi di imprese spesso in competizione, ma a cui la necessità del momento richiede un'azione comune sotto l'ombrello dello stato.

Ben Alì in coma e Tunisia verso la democrazia

Dopo Mubarak anche Ben Alì sembrerebbe in coma, anche se non esistono dichiarazioni ufficiali, lo stato neurovegetativo sembra diventato la malattia dei dittatori. Ben Alì dovrebbe trovarsi in Arabia Saudita, sotto falso nome e le sue condizioni paiono critiche. Intanto la Tunisia si avvia sulla strada della democratizzazione, anche grazie al ruolo delle forze armate che hanno rifiutato di effettuare la repressione sulla folla. Il governo di transizione ha ricompreso al suo interno i partiti dell'opposizione al regime ed ha promesso nuove elezioni nel giro di sei mesi, insieme all'aministia per i reati politici. Con queste misure la Tunisia si affianca all'Egitto nella transizone democratica ed il processo presenta numerosi parallelismi. L'insurrezione via internet ed il ruolo delle forze armate, garanti della pacificazione nazionale ed il rientro delle forze di opposizione nell'agone politico. La Tunisia ha mostrato più volte orgoglio per avere dato il via alle rivolte nel nord africa ed avere favorito con le sue stesse modalità la rivolta egiziana, paese molto più grande ed anche più importante sullo scacchiere mondiale.