Politica Internazionale

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martedì 22 febbraio 2011

Libia ed Italia l'incognita delle future relazioni

Mentre l'ONU cerca di istituire un corridoio umanitario per permettere ai profughi della repressione libica di raggiungere zone più sicure, per la UE il problema è di preservare le coste italiane da un'ondata di profughi che potrebbe raggiungere le 750.000 unità. Se questa eventualità dovesse anche lontanamente verificarsi, sarebbe il collasso per Roma. L'Italia al momento misura le dichiarazioni bilanciando il proprio atteggiamente in attesa degli eventi, la sensazione è che la giusta preoccupazione la faccia da padrona negli ambienti governativi italiani. Per il momento una nave militare staziona in acque internazionali davanti alle coste libiche e le basi dell'aeronautica militare più vicine sono allertate. Aldilà delle normali procedure di sicurezza consuetemente attivate in questi casi, il momento viene vissuto con viva apprensione, tanto da allertare le istituzioni comunitarie. La UE ha deciso l'avvio della procedura di emergenza dell'agenzia Frontex che si occupa della gestione delle frontiere a livello comunitario. Per l'Italia si aggiunge la minaccia dei ribelli libici di tagliare le forniture di gas allo stivale a causa degli stretti contatti allacciati con Gheddafi e per la tardiva condanna delle stragi. Gli scambi economici Italia-Libia sono consistenti, l'Italia è il primo partner commerciale della Libia, e si è aggiudicata diversi appalti per la costruzione di infrastrutture e per l'estrazione del greggio libico; la Libia, tramite investimenti diretti e fondi a capitale libico, detiene diverse partecipazioni in importanti società italiane. Nel caso della caduta del regime di Tripoli, l'Italia dovrà reinventare le relazioni con la Libia, partendo verosimilmente da un punto svantaggioso per le strette relazioni con Gheddafi. Si tratterà di ricostruire da zero le relazioni tra i due paesi cercando di mantenere in vita gli accordi stretti con il regime precedente senza la certezza di essere più il partner principale.

Obama: crisi arabe e lotta all'antiamericanismo

Gli USA stanno valutando diverse opzioni per la crisi libica; mentre Gheddafi usa mercenari come cecchini per sparare sulla folla ed aerei dell'aviazione militare per bombardare i manifestanti, l'amministrazione Clinton pensa ad un intervento internazionale per evitare il protrarsi delle stragi libiche. Gli Stati Uniti hanno la concreta possibilità di scrollarsi di dosso l'antiamericanismo viscerale degli arabi inserendosi come protagonisti nella ricerca di una soluzione pacifica. Se questa strategia otterrà i frutti sperati, gli USA possono pensare di ribaltare il loro rapporto con la Libia fino a guadagnare un nuovo alleato. E' questo il programma che l'apparato di Obama sta studiando per accrescere il proprio peso specifico all'interno della parte sud del Mediterraneo cercando di fare mutare parere all'opinione pubblica araba. Quello dell'antiamericanismo è un problema molto sentito da Obama, che fin dall'inizio della sua elezione ha mutato l'indirizzo della politica estera statunitense, cercando di presentare lo stato a stelle e strisce sotto un'altra luce. Anche in Afghanistan, pur mantenendo un apparato militare consistente, sono state elaborate strategie di affiancamento all'azione bellica che hanno previsto un forte investimento per spese mediche e sociali, che hanno cercato di coinvolgere attivamente la popolazione locale. Le rivolte attuali, che pure hanno tra le altre anche una matrice integralista, si contraddistinguono per la richiesta di diritti civili a lungo negati; è questo il terreno comune che gli USA cercano di percorrere per affiancare e collaborare con le popolazioni arabe in rivolta. Gli USA hanno al loro arco una freccia molto importante essendo i creatori ed i distributori della nuova tecnologia che ha permesso, di fatto, le rivolte ed il loro successo. Facebook e Twitter sono già ambasciatori positivi degli Stati Uniti presso i giovani arabi che usano questi strumenti come i loro coetanei occidentali, quindi il mezzo della cultura, peraltro tanto temuto dagli integralisti islamici, può sfondare barriere fino ad ora rimaste serrate.

Cina e rivolte nei paesi arabi

Nel momento si sommovimento generale, con rivolte in corso e cambiamenti epocali, brilla il silenzio della nuova potenza mondiale. Non che si aspettasse che la Cina condannasse le dittature ed i loro metodi, dal momento che essa stessa fa uso di analoghi strumenti per soffocare il dissenso interno, tuttavia appare francamente strano che il colosso di Pechino non abbia speso neppure una parola per le crisi in atto. La scelta costante della politica estera di Pechino è sempre stata contraddistinta dalla non ingerenza degli affari interni degli altri paesi, ed anche in questo momento storico la direzione è mantenuta con un comportamento netto che non si discosta dalla consuetudine. Se la linea mantenuta è coerente con l'azione diplomatica consueta della Repubblica Popolare Cinese vi è però, un contrasto marchiano con la volontà di affermazione come potenza di livello politico, non solo economico, più volte ricercata da Pechino. Sicuramente vi è un contrasto in seno alla diplomazia cinese, mantenersi fuori dalla contesa significa non essere coinvolti in paragoni e giudizi, consentendo di non focalizzare anche sulla Cina il problema, già sentito sulla scena internazionale, del rispetto dei diritti umani; dall'altro lato l'assenza dall'azione diplomatica, in cui per il momento l'occidente gioca un ruolo centrale, ancorchè sottotraccia e non rilevante, priva la Cina della visibilità necessaria per accreditarsi come interlocutore alternativo. Viene insomma, per il momento, scelto un low profile che la dice lunga sulle reali intenzioni cinesi a guardare verso una democratizzazione del suo sistema. Ciò non può fare a meno di preoccupare l'intero panorama internazionale: continueremo ad avere a che fare con una nazione, che è la seconda potenza mondiale, che non intende intraprendere la via della democrazia.

lunedì 21 febbraio 2011

Diplomazia occidentale: opportunismi ed errori

La diplomazia occidentale deve interrogarsi sulle sue azioni e sui suoi rapporti con le dittature. In vario modo, per ragioni di opportunità politica o economica, le relazioni intrattenute con le dittature che stanno cadendo sono state intense e durature. Le condizioni con cui i cittadini dei paesi in rivolta venivano governati erano note, ma raramente e se non per motivi legati al proprio tornaconto, i governi occidentali muovevano critiche ufficiali ed atti di pressione a favore dei diritti civili negati. L'occidente ha fatto finta di non vedere, ben conoscendo invece la situazione e trincerandosi dietro l'omertosa ragion di stato della non ingerenza. Mentre con Iraq ed Afghanistan, ma anche con Serbia e Kossovo, ci si lanciava in un interventismo, talvolta giustificato, con le dittature petrolifere si sceglieva la tattica dei trattati, se non quella dell'alleanza. Dire due pesi e due misure rende bene l'idea. Eppure il livello di malversazione della popolazione non era differente, ma invece che l'intervento militare o la sola pressione economica, si pensi ad esempio a Cuba, si sceglieva di foraggiare sotto forme diverse le casse dei dittatori. Ancora oggi, in piena rivolta democratica, non si arrischiano pronunciamenti dalle cancellerie, se non mezze frasi che consentono comunque una sorta di via d'uscita buona per tutte le soluzioni. Anche istituzioni che dovevano essere super partes come l'ONU, sono state preda di tatticismi e veti incrociati tali da non consentire un'azione efficace in favore delle persone in quanto tali. Alla fine, sicure dei propri accordi e delle tattiche fin qui sviluppate, le diplomazie occidentali si sono risvegliate in un incubo, che le ha colte impreparate. Dopo avere coltivato il proprio orticello per spuntare un prezzo migliore sul rifornimento del gas o per fermare gli immigrati irregolari, senza una tattica comune, i paesi occidentali si trovano a dovere ripensare dall'inizio tutto il rapporto con i paesi ora in rivolta. Si tratterà di un ripensamento radicale come idea di fondo, come filosofia d'approccio con questi paesi che si daranno nuove forme di stato e di governo, ed anche nella azione diplomatica pura, quella fatta di contatti e di relazioni, anche di basso profilo, si dovrà ripartire da zero per reimpostare totalmente accordi e trattati, si dovrà rinegoziare tutto non sapendo chi si avrà davanti. E' necessario prepararsi da subito: essere di nuovo impreparati non è più ammissibile.

2011anno delle rivoluzioni

Il 2011 è ormai l'anno delle rivoluzioni, la portata storica dei fatti che stanno accadendo sotto i nostri occhi e di cui siamo testimoni diretti e talvolta protagonisti, grazie alle nuove tecnologie, avrà la stessa valenza nei manuali e nei testi istituzionali di storia contemporanea dei fatti del 1989, culminati con la caduta del muro di Berlino e la fine della cortina di ferro. Come allora una massa di popoli si muove, quasi all'unisono, per placare la propria fame di diritti, cercando un riscatto che garantisca un futuro migliore, in un quadro di legalità all'interno delle proprie nazioni, fino adesso dittature. Qui finiscono le similitudini, ora ci troviamo di fronte ad una massa di persone che preme alle nostre porte in maniera più pressante di quanto successo con i paesi dell'est, che ricordiamocelo, avevano comunque un livello di vita più elevato. Inoltre non esiste in Africa un paese come esisteva allora in Europa, la Germania Ovest, capace di assorbire dentro se stesso un'altra intera nazione, anche se poi il costo economico dell'operazione è in parte ricaduto sugli altri paesi dell'Unione Europea. Proprio un'istituzione come la UE è riuscita a fare da ammortizzatore alla trasformazione in democrazie dei paesi oltrecortina, inglobandoli nel processo unificatore del vecchio continente, coinvolgendo ed in qualche modo guidando la transizione democratica, sopratutto con consistenti aiuti economici. Insomma la UE ha di fatto preso sulle sue spalle, con tutti gli errori del caso, intere nazioni mantenendo al suo interno la trasformazione di istituzioni, popoli e culture. Pur essendo un ambiente certamente protettto, non è stata una operazione facile e senza costi sociali. In Africa non c'è una UE che possa almeno coordinare un processo al buio di fuoriuscita dalle dittature. Ci sono paesi seduti su ricchezze immense, fino adesso appannaggio di oligarchie ben poco illuminate, la rabbia accumulata per le diseguaglianze sociali molto profonde cresciute in sistemi che garantivano solo l'incremento della povertà generalizzata, ha generato lo scoppio delle rivolte, sostenute dalla conoscenza dei nuovi sistemi informativi, che solo governanti ottusi non hanno compreso. La legittima autodeterminazione dei popoli ha scalzato, o sta scalzando dittature che alla fine si sono dimostrate mostri di cartone. Bene, se diamo per assodate le legittime aspirazioni dei popoli e la loro giusta lotta di liberazione, dobbiamo anche fare delle considerazioni sul futuro di questi paesi, che giocoforza è legato al nostro. Il timore maggiore resta legato al vuoto di potere che si sta venendo a creare, fortunatamente il ruolo delle forze armate in generale, di questi paesi è stato quello di schierarsi dalla parte del popolo, anche se in taluni casi la repressione è stata violenta; il pericolo che si instaurino teocrazie islamiste, grazie alla facile presa sui popoli è concreto. Il secondo aspetto è quello energetico, l'industria e la vita civile occidentale si basa, per una parte consistente, sulle materie prime acquistate da questi paesi; se da un lato essi non possono rinunciare al flusso di denaro derivante dalla vendita di gas e petrolio, dall'altro potrebbero esercitare pressioni di tipo politico attraverso queste armi. Un ulteriore aspetto è il controllo del movimento delle masse umane, regolato con accordi pilateschi tra democrazie e dittature, l'Europa si trova spiazzata dalla caduta dei regimi perchè impreparata a gestire emergenze umanitarie di così grande portata come quelle che verosimilmente si abbatteranno sulle sua coste. Fino adesso l'occidente è stato impreparato, viceversa che nel 1989, è ora di studiare una strategia comune ed affinare glio studi diplomatici, la situazione è già troppo avanti.

domenica 20 febbraio 2011

Libia: le incognite di una rivoluzione inattesa

La crisi libica ha delle peculiarità per l’europa e per tutto l’occidente, che la diversificano dalle altre crisi nord africane ed a quelle del Bahrein o dello Yemen. Le coincidenze sono con la ricerca disperata del riconoscimento dei diritti civili, in un quadro di dittatura, probabilmente ancora più invasiva che negli altri regimi. Ma l’europa si trova spiazzata di fronte a questa rivolta che mette in crisi una dittatura con la quale aveva raggiunto una sorta di equilibrio. Gli aiuti per bloccare le migrazioni che partivano dai porti libici sono storia recente, come storia recente sono gli accordi economici per costruire le infrastrutture di un paese pronto a lanciarsi nell’economia globale, seppure con le limitazioni del caso. Non sono storia recente i rapporti economici tra Libia ed Europa per la fornitura di gas e petrolio, con un traffico verso il vecchio continente stimato nell’85% della produzione di Tripoli. Anche gli USA, dopo gli accordi del 2003, pur non gradendo Gheddafi, su quel fronte dormivano sonni tranquilli. La Libia era un sostenitore del terrorismo internazionale, con contributi economici ed anche pratici, che facevano del capo della Libia un obiettivo da bombardare; ma dopo quell’accordo la situazione era stata regolamentata. I paesi occidentali sono in mezzo al guado, appoggiare le legittime richieste del popolo libico sarebbe scontato, come avvenuto per gli altri popoli in rivolta, tuttavia i legami e gli aspetti che potrebbero conseguire da questo appoggio, dovuto ma non dato, preoccupano le cancellerie. Gheddafi da parte sua ha già, di fatto, allentato i controlli dai suoi porti, nonostante i denari già incassati, per permettere ad un nutrito numero di migranti di salpare alla volta della UE; la minaccia è concreta, l’Italia, in prima battuta, e la UE in seconda, non sono in grado di sostenere una ondata migratoria che oltrepassi i numeri previsti. Esiste anche l’arma del ricatto energetico, bloccare le importazioni di gas è un deterrente pesante per la fame di materia prima essenziale per la produzione industriale e per le esigenze civili. Infine esiste la minaccia terroristica, per ora neppure paventata; Gheddafi potrebbe venire meno agli accordi presi nel 2003 e fomentare una massa popolare che lo vede come il leader politico dei paesi, come si diceva una volta, non allineati. Non mancherebbe il materiale umano ed anche politicamente la Libia potrebbe trovare un buona numero di paesi alleati, sempre che esca indenne dalla rivolta. In questo quadro una alleanza con regimi del calibro dell’Iran non sarebbe un’idea peregrina, con il risultato di avere le navi iraqene davanti alle coste italiane. Un’altra considerazione è doverosa, nell’ipotesi di una sconfitta di Gheddafi, il futuro sarebbe ugualmente un punto interrogativo per l’occidente per l’incertezza che risulterebbe da chi potrà prendere il potere.

USA: trattare o no con i talebani?

Di fronte ai nuovi scenari internazionali innescati dalle rivolte di popolo gli USA accelerano la ricerca del dialogo con i Talebani, per aumentare la possibilità di una exit strategy più veloce. La questione, tuttavia non è semplice: esistono paletti di non poco conto da limare per superare le reciproche diffidenze. Entrambi gli schieramenti, a parole, pretendono in un qualche modo, l’abbandono delle armi, anche se con opzioni diverse. Ma il fatto che da ambo le parti si riconosca, anche se per ora in forma ufficiosa, la necessità di trattare significa che l’impasse della guerra afghana vale per tutti. Senza un’uscita diplomatica il pantano bellico non si ferma e gli Stati Uniti rischiano di non tenere il passo in tutto il teatro mondiale. La preferenza dello stato Afghano, cioè di Karzai, è però quella di non scendere a patti con i talebani, per non correre il pericolo di inquinare il traballante stato di Kabul con l’entrata nell’agone politico ufficiale di rappresentanti integralisti, la questione diventa così spinosa per gli USA, costretti a giocare su due tavoli. Ma la soluzione non appare procrastinabile, l’esigenza principale degli USA e’ quella di alleggerire il proprio impegno nella regione per stornare verso altri scenari sforzi, soldi e truppe. La trattativa con i talebani rischia cosi’ di diventare pericolosamente precipitosa e di innescare soluzioni non convenienti per eccesso di fretta, tuttavia gli americani stanno valutando sempre di mantenere delle basi nel paese per appoggiare lo stato afghano, anche dopo il ritiro programmato delle truppe. La soluzione resta comunque vincolata a diverse variabili e quelle afghane sono solo alcune di esse; lo sviluppo della scena internazionale con l’incognita Israele ed il suo stato di allerta senz’altro giocheranno un ruolo predominate nelle strategie USA future.