Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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mercoledì 6 aprile 2011
Il segretario della difesa USA in Arabia Saudita
Il viaggio del segretario della difesa USA in Arabia Saudita, nasconde le preoccupazioni della superpotenza americana per i sommovimenti presenti nella regione. La maggiore preoccupazione riguarda i fatti yemeniti, dove dietro le rivolte potrebbe nascondersi una azione di Al Qaeda, che nello stato riscuote diverso successo. Una presa di posizione dei qaeddisti nello Yemen, od anche l'estendersi della propria influenza sul territorio, provocherebbe una pericolosa minaccia per gli alleati USA e per la stessa flotta americana presente nel Bahrein. La particolare vicinanza con l'Arabia Saudita con lo Yemen, mette lo stato di Ryad in posizione particolarmente pericolosa in caso di sollevazione guidata da Al Qaeda, che vede la monarchia regnante con grande avversione. Inoltre dell'aggravarsi della tensione nella regione si potrebbe avvantaggiare l'Iran, tradizionale nemico dei sauditi. Una destabilizzazione della regione creerebbe sicuramente una pericolosa falla nel sistema geodiplomatico statunitense, che ritiene la regione un punto chiave della propria strategia internazionale, oltre che determinante per l'economia mondiale essendo l'Arabia Saudita il più grande esportatore di greggio.
La diseguaglianza pericolo per la stabilità
Nel villaggio globale del mondo, le analisi finanziarie devono vertere su temi generali. Il direttore dell'FMI ha rilevato come la fragilità della ripresa economica mondiale contraddistingua la fase attuale e come questo fatto, da cui conseguono le forti disegualglianze sociali, possa innescare una nuova crisi innescata sulla prima. Il tasso molto elevato della disoccupazione dei paesi sviluppati fa il paio con una eccessiva produttività delle economie in via di sviluppo, che cercano di spingere sull'acceleratore della crescita creando al loro interno fenomeni inflattivi, l'associazione di questi fenomeni può creare un surplus delle merci, generando uno stallo dei consumi che potrebbe costituire un freno alla debole ripresa. Il fattore delle disuguaglianze sociali può essere la leva su cui agire per rialzare il tasso dei consumi, mediante una sua riduzione. Inoltre quello che viene maggiormente temuto è l'innescarsi di un circolo, non certo virtuoso, dove il fenomeno delle diseguaglianze socioeconomiche vada ad incidere sulla stabilità politica dei singoli stati. Anche nazioni di sicura democrazia possono essere protagoniste di fenomeni destabilizzanti legati alla situazione economica.
In Libia continua lo stallo, ma ora i ribelli vendono il petrolio
La NATO afferma di avere distrutto il 30% dell'arsenale di Gheddafi, ciò significa che il 70% è ancora in mano al colonnello; il che significa che una parte consistente è ancora a disposizione delle forze lealiste. I soli raid aerei non bastano a sbloccare la situazione di stallo, i limiti della risoluzione 1973 impongono che l'uso della forza aerea deve garantire l'imparzialità tra i contendenti, quindi l'intervento NATO non può spingersi oltre. La conseguenza diretta è che senza intervento con truppe di terra non può esserci lo sblocco della situazione, almeno in senso militare. L'eventualità è però ritenuta remota, lo sforzo economico e sopratutto politico richiede un investimento troppo elevato per essere portato a termine. Resta la strada diplomatica, ma il percorso è ancora troppo accidentato per prospettare una risoluzione in tempi brevi. Intanto La parte est del paese prova a trovare una via propria allo sviluppo economico: attraverso il Qatar è stata infatti avviata la vendita del petrolio proveniente dai giacimenti che si trovano nei territori occupati dai ribelli. E' una piccola svolta nello sviluppo del conflitto, un tentativo di normalità che significa anche sottrarre una quota sostanziale del potere di Gheddafi.
martedì 5 aprile 2011
Il fallimento della politica estera europea
La politica estera europea è travolta dagli eventi; già senza casi particolari la gestione era piuttosto travagliata, ma con le rivolte arabe e successivamente con la guerra libica: le incogruenze delle visioni dei singoli stati sono emerse in tutta la loro diversità. Ciò ha determinato una serie di riesami su tutta una serie di questioni internazionali che possono mettere a dura prova lo spirito stesso del trattato di Lisbona. L'assenza di una visione comune unitaria, giunta all'incapacità manifesta di produrre una sintesi sufficientemente rappresentativa della visione generale, capace di trovare dei punti d'intesa, provoca una mancanza di direzione che si concretizza in una somma vettoriale di azioni e reazioni che spesso sono uguali e contrarie e che comunicano, in definitiva, l'immobilismo risultante dall'incapacità del burosauro di Bruxelles. La mancanza di un'agilità nella risposta ai fatti diplomatici, a causa delle lunghe trattative, che spesso finiscono in un nulla di fatto, fanno mancare quella velocità di azione che è un requisito sempre più necessario per fare fronte all'esigenze diplomatiche che si succedono nell'attualità. La guerra di Libia ha provocato fratture difficili da sanare tra Francia, Regno Unito e Germania, tuttavia può essere anche un fattore di riflessione per ripensare radicalmente l'impostazione della politica estera europea. Uno delle cause più rilevanti della mancata unitarietà nella politica estera è la questione turca: Ankara stufa di aspettare l'ingresso in Europa ha rimodellato la propria politica estera volgendo ad est le proprie attenzioni; fuori dall'orbita europea, perchè rifutata, la Tuechia è stata capace di creare una fitta rete di rapporti sia politici, che economici con paesi come Iran, Iraq, Siria ed altri. Questa capacità turca poteva essere sfruttata a vantaggio dell'Unione Europea con maggiore lungimiranza. Un'altro aspetto saliente è il rapporto con la Cina: per convenienza economica l'aspetto dei diritti umani e della repressione non viene mai toccato, non si elabora una strategia comune per obbligare il gigante cinese ad un cambio di rotta, che tra l'altro sarebbe anche conveniente dal punto di vista economico, dato che Pechino opera tramite una concorrenza distorta data dai bassi salari. La mancata visione comune diplomatica si riflette anche nella materia economica, dove nel commercio estero, si procede in ordine sparso. Senza una soluzione che contempli maggiore unitarietà nella politica estera, la UE è un organismo zoppo e non in grado di stare sul teatro che conta delle problematiche mondiali.
Il ruolo dell'Unione Africana nella crisi libica
L'Unione Africana è l'ultima frontiera per la salvezza di Gheddafi. Negli scorsi anni la politica del colonnello nel continente africano è stata quella di portare un fiume di denaro che ha permesso diversi investimenti. Si è trattato spesso di interventi populisti capace di colpire al cuore le masse africane. La costruzione della Moschea Nazionale Gheddafi, in Uganda è un esempio magnificamente calzante; l'edificio è capace di ospitare 30.000 fedeli, costruito a Kampala in Uganda, fu inaugurato in pompa magna dal colonello con un suo discorso davati a 10.000 persone. Grazie alla grande liquidità il leader libico ha investito ingenti capitali in circa 21 paesi africani, contribuendo allo sviluppo economico di settori chiave quali le telecomunicazioni e l'agricoltura. Questo ha contribuito a fare di Gheddafi un capo di stato molto amato nel continente africano, grazie anche alla sua figura ed alla sua capacità di comunicatore, per le masse dei cittadini africani è il capo di stato capace di tenere testa all'occidente colonialista e sfruttatore delle materie prime africane. In un certo senso l'Unione Africana è stata costretta a prendere parte favorevolmente alla risoluzione 1973, costretta dagli eventi, in realtà la posizione è sempre stata tiepida e sostanzialmente concretizzata con un appoggio attestato sulle condizioni del minimo sindacale. Questo anche per le divisioni interne della stessa UA, dove non tutti i membri erano favorevoli all'appoggio all'istituzione della zona di non volo. La proposta della UA è quella di un cessate il fuoco a cui far seguire elezioni democratiche; è un obiettivo difficilmente percorribile specialmente nella seconda parte perchè si parla di una nazione che non ha mai conosciuto alcuna organizzazione sociale se non i clan tribali. Un problema da risolvere per la UA è anche uno dei paletti posti dai ribelli: l'uscita di scena della famiglia Gheddafi è ritenuta requisito essenziale per avviare qualsiasi forma di trattativa; peraltro è evidente che solo l'Unione Africana può convincere il colonnello ad accettare una uscita di scena onorevole che contempli l'esilio. L'Uganda si è offerta di ospitare Gheddafi, è una strada da percorrere per fermare il conflitto.
lunedì 4 aprile 2011
La Cina prossimo scenario delle rivolte?
La Cina guarda sempre più con apprensione all'allargamento a macchia d'olio delle rivolte nel mondo arabo. Quello che temono i governanti cinesi, in un futuro molto prossimo, è di non riuscire più a contenere i fermenti che percorrono sempre di più la società civile, fino ad esserne travolti. Se si fosse guardato alla situazione cinese al suo interno prima delle rivolte arabe, la considerazione sarebbe stata che l'eventualità di una ondata di manifestazioni popolari sarebbe stata più verificabile in Cina, che nei paesi arabi. Questo per lo sviluppo sia culturale che tecnologico e per il livello di diffusione delle ricchezza molto più esteso in Cina, che avrebbe dovuto favorire una maggiore coscienza civile, requisito essenziale per esprimere pubblicamente il proprio scontento. Ciò non è successo e per il momento non pare succedere, per una combinazione di fattori, che sono riusciti a tenere al riparo Pechino da manifestazioni avverse. Essenzialmente sono due, a grandi linee, i fattori che hanno determinato questo blocco: la particolare cura delle istituzioni cinesi al controllo delle opposizoni e lo sviluppo economico, che anzichè determinare lo sviluppo dei valori necessari a manifestare, è stato indirizzato a valori consumistici tali da anestetizzare la grande massa dei cinesi. Certamente non basta questa pratica, che peraltro dovrebbe essere contraria ai principi comunisti, per bloccare anche le teste pensanti presenti all'interno della vasta nazione cinese. Le istituzioni temono talmente tanto la possibilità di una rivolta che hanno investito nel budget della sicurezza interna, una somma tale da eguagliare il budget della difesa. Non solo, è in atto una repressione così feroce ed intensa come non se ne vedevano da oltre dieci anni tesa a soffocare ogni voce contraria al regime, il quale, peraltro, sembra retrocedere su posizioni sempre più conservatrici, che non danno alcuna speranza ad aperture in senso democratico. Tutti questi segnali sono sintomi di grave disagio dell'apparato, di fronte ad un possibile sommovimento della società civile cinese, quello che appare è che l'unica previsione con cui il governo cinese si prepara ad affrontare una eventuale rivolta non è quello del dialogo o meglio delle riforme, ma quello della repressione violenta. Diversi analisti ritengono che la Cina sarà comunque, nonostante tutti i tentativi per scoraggiale, la prossima protagonista delle rivolte popolari; in questo caso le conseguenze sulla politica e sull'economia mondiale saranno enormi. Si pensi al consesso mondiale che condanna la repressione e poi cerca di fare affari con la Cina e si pensi al sistema produttivo, su cui si basa l'economia mondiale, menomato o addirittura paralizzato da rivolte e scioperi. L'ottusità della classe dirigente cinese rischia di creare una serie di disastri che riguarderanno tutto il mondo. La diplomazia mondiale ha potuto vedere cosa potrebbe succedere in piccolo con le rivolte arabe, la storia, meglio la cronaca, dovrebbe fare elaborare ai protagonisti internazionali un piano per fare pressione sugli affari interni della Cina prima che sia troppo tardi.
La Turchia prova a fermare il conflitto libico
La Turchia, unico paese islamico all'interno della NATO, prova una mediazione nel conflitto libico, con l'intento di raggiungere un cessate il fuoco. I colloqui con l'emissario di Gheddafi, il vice ministro degli esteri Obeidi, dovrebbero avvenire a breve, dopo che lo stesso ha già avuto colloqui con il governo greco. Il messaggio del rais di Tripoli è quello di arrivare ad una interruzione delle ostilità militari, dato che il quadro attuale segnala un'impasse difficile da superare. Dal punto di vista bellico si è ad un punto di stallo, i ribelli pur contando sulla forza aerea della NATO, non riescono ad avere ragione dell'artiglieria pesante di Gheddafi, che a sua volta, non riesce a fare passi avanti proprio perchè schiacciato dagli aerei dei volenterosi. Il conflitto, senza una soluzione diplomatica, resta di rimanere fermo nelle secche dell'equilibrio militare. La Turchia si pone come interlocutore affidabile perchè non ha dato il suo appoggio all'uso della forza aerea, limitandosi al blocco navale. Ankara è particolarmente al corrente della trattativa avendo già ricevuto un esponente del Consiglio Nazionale, in sostanza i ribelli. La necessità di Gheddafi di arrivare ad una soluzione è dovuta in gran parte all'isolamento internazionale, dopo che, anche l'Italia, che era il maggiore alleato di Tripoli, ha riconosciuto il Consiglio dei ribelli, come unico interlocutore della nazione libica. A margine di questi sviluppi diplomatici, il dato da sottolineare è la sempre maggiore attività della Turchia in campo internazionale, dopo la dichiarazione di disponibilità alla Siria per aiutarla nel processo di democratizzazione, i vari contatti avviati sia in campo politico che economico nella regione ora prova con il compito più difficile: quello di portare alla fine il conflitto militare libico. L'azione turca, se coronata da successo darà una grande rilevanza in campo internazionale ad Ankara, che potrà essere portata in dote ad una UE che finora l'ha rifutata; se la Turchia conseguisse un tale successo sarà problematico dirle ancora di no.
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