Politica Internazionale

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martedì 19 aprile 2011

Giappone: governo in difficoltà

Il Giappone comincia a dare segni di essere duramente provato dai recenti gravi fatti accadutigli. Nel mirino della critica c'è il governo al quale si imputa una scarsa leadership e gravi mancanze nella gestione della crisi. Secondo recenti sondaggi la maggioranza dei giapponesi non ritiene adeguato questo governo ed invoca un cambiamento di esecutivo. Molto peso negativo che influenza l'opinione pubblica è dato dal fatto che la TEPCO ha dichiarato che l'emergenza nucleare potrebbe durare fino al 2012, a questo si aggiunga il ritardo del riconoscimento del massimo grado di pericolosità, il settimo, equivalente a Chernobil, giunto solo la scorsa settimana dal governo nipponico. La società giapponese ha vissuto le continue dichiarazioni ufficiali, continuamente contraddittorie, come una lesione del rapporto di fiducia con il governo. La società giapponese non è abituata a vivere momenti così intensi di conflittualità e questo malessere non giova al clima nel quale deve maturare la ricostruzione. Anche dal punto di vista internazionale i rapporti con i paesi vicini, che si affacciano sul mare teatro dell'incidente nucleare, non sono buoni. Sia la Cina che la Corea del Sud hanno duramente criticato la scarsità di notizie relativa alla contaminazione dello specchio acqueo. Nonostante la grande compostezza con cui i giapponesi hanno affrontato le calamità la misura pare ormai colma ed ora la situazione interna si fa di più difficile gestione.

Analisi dell'affermazione dei movimenti localistici e di ultradestra in Europa

L'affermazione dell'ultra destra in Finlandia, costituisce un chairo segnale di partenza per analizzare l'evoluzione delle tendenze politiche che si stanno verificando in Europa. Di fronte all'evoluzione storica della società mondiale, il vecchio continente appare culturalmente impreparato per cogliere ed interpretare la portata dei nuovi cambiamenti giunti con la sempre più estrema globalizzazione. La trasformazione dei partiti di destra in formazioni democratiche non si è pienamente compiuta in tutti gli stati, così si sono determinate situazioni sbilanciate che hanno lasciato spazi aperti da occupare per movimenti radicali di matrice spesso estrema. Vi è una responsabilità sia sociale che culturale degli stati, che non hanno saputo interpretare in chiave futura fatti epocali come la caduta del muro di Berlino. La caduta della cortina di ferro è stato il via alla globalizzazione, anche se solo su scala continentale, ma ciò non è bastato ad interpretare il cambiamento che si stava verificando. Tutto il vecchio continente non è stato preparato allo sconvolgimento in arrivo e ciò ha generato attegiamenti di chiusura, che hanno costituito terreno fertile per sentimenti estremisti. La caratterizzazione di questi movimenti si fonda sulla presunta conservazione di posizioni potenzialmente messe in pericolo dalle novità risultanti dal fenomeno globalizzazione; tali posizioni, di vantaggio, sono basate, secondo questi partiti e correnti di pensiero, su ricchezza che può essere erosa da processi redistributivi innescati da effetti conseguenti, in ultima analisi dalla globalizzazione. La politica proposta, basata sulla chiusura e di ceto e di territorio e di cultura, trova facili consensi in tutti quegli ambienti che temono la perdita di posizione, anche minima, scartando così le possibilità che i nuovi fenomeni possono presentare. Alla fine il risultato più evidente è l'immobilità sia culturale che economica; ma questo non è più possibile in un mondo dove il cambiamento non è solo un fatto assodato ma anche incontrovertibilmente veloce. L'affermazione di tali movimenti determina così una decrescita di quei paesi dove questi partiti riescono a riscuotere un successo elettorale tale da influenzare almeno il governo vigente. L'arroccamento e l'isolamento sono poi il passo seguente, le nazioni condizionate da questi partiti non riescono a sviluppare, fin dal sistema scolastico ed universitario, un ambiente culturale sufficientemente pronto ad accogliere le novità ed il sistema economico si rifugia in produzioni destinate a diventare obsolete. Anche i sistemi politici si involvono e non riescono a rimanere al passo dei tempi con una adeguata produzione di leggi e regolamenti. Infine il dato più preoccupante è che le altre forze politiche inseguono questi movimenti sul loro terreno e piegano la loro ideologie a sentimenti transitori senza elaborare strategie alternative.

lunedì 18 aprile 2011

La situazione libica non si evolve

La situazione libica è sempre più critica: dal punto di vista militare l'azione della NATO registra una impasse, in parte dovuta alla scarsità degli armamenti a guida laser e in parte alle difficoltà diplomatiche, che rendono l'azione politica intermittente e priva di coordinamento. Il problema degli armamenti significa che l'alleanza ha sottostimato la durata della guerra e la modalità di conclusione; il solo uso della forza aerea non basta ad arrivare alla vittoria e per ora l'impiego della forza terrestre non è previsto. Sul campo la situazione militare è di stallo, il che significa continui attacchi, con morti e feriti, da una parte e dall'altra con maggiore preponderanza delle truppe di Gheddafi, che da qualche tempo fanno uso di bombe a grappolo, contravvenendo alle convenzioni internazionali. Particolarmente difficile al situazione di Misurata, colpita più volte specialmente nelle sue unità produttive. In campo diplomatico quello che si persegue maggiormente è la ricerca di un paese, che non abbia firmato il trattato di Roma sulle estradizioni, che possa ospitare il Colonnello in un esilio dorato: Ciad, Uganda e Mali sono le destinazioni più probabili. Per ciò che riguarda la risoluzione ONU, Mosca ha rilevato, non senza fastidio, che l'azione dei paesi volenterosi ha di molto superato i confini della disposizione 1973, interpretata in maniera troppo estensiva. La critica russa arriva nel momento nel quale i grandi paesi in via di sviluppo, tra cui India e Brasile chiedono una riforma del Consiglio permanente dell'ONU, regolato con queste disposizioni dalla fine della seconda guerra mondiale.

L'azione iraniana nel Golfo Persico

Mahmoud Ahmadinejad accusa pubblicamente gli USA ed Israele di provocare tensione nei paesi arabi, dopo che le monarchie del Golfo Arabo hanno chiesto all'Iran di cessare l'ingerenza nei loro affari interni.
Il motivo dell'ingerenza di Teheran, paese a maggioranza scita, che è un problema esistente e concreto, riguarda la notevole presenza scita, che in molti casi denuncia pesanti discriminazioni nei paesi del Golfo, in nazioni governati da famiglie sunnite. Il tentativo di sfondamento politico da parte iraniana è la conseguenza di un piano elaborato per aggiudicarsi la supremazia morale, come nazione, nell'ambito dell'Islam. L'antagonismo con l'Arabia Saudita è cosa nota e che si trascina da molto tempo tra i due paesi, ed è data dal fatto che entrambi rivendicano di essere la guida degli islamici. Teheran ha approfittato ed approfitta del vento di rivolta che soffia sui paesi del Golfo per spingere gli sciti contro i propri governi. L'operazione nasce, però in un contesto molto rigido, in paesi con diritti limitati e la situazione che si presenta risulta essere una novità. Questo determina uno spaesamento dei regimi del Golfo che si trovano spiazzati di fronte alle crescenti proteste. Quello che viene accusato all'Iran è di fornire agli sciti in rivolta, sostegno sia metodologico, che finanziario per organizzare le proteste. La reazione del presidente iraniano è curiosa, perchè accomuna perfino Israele alle dinastie del golfo, ma non è del tutto sbagliata perchè a Tel Aviv non conviene un sovvertimento nei paesi arabi sunniti. Intanto il ministro degli esteri iraniano si muove presso l'ONU per una richiesta d'intervento che ponga fine alle repressioni nei paesi sunniti.

Lo stato di salute dell'Unione Europea

Uno spettro si aggira per l'Europa e pare andare ben oltre il tradizionale euroscettiscismo. Non si sta parlando di impressioni e sentimenti ma di fatti ed accadimenti che mettono in serio pericolo l'esistenza stessa dell'Unione Europea. Le divisioni in seno alla UE sul tema della guerra libica e per i problemi sull'immigrazione mettono alle corde i rapporti tra gli stati principali. Questo stato di cose è la conseguenza diretta di una politica miope e limitata al solo interesse del singolo stato, fuori dal contesto più ampio di portata continentale. L'esempio del rapporto tra Roma e Parigi sulla questione emigrazione è esplicativa del deterioramento della situazione. Sullo sfondo di una gestione imprevidente ed inadeguata dei due paesi, vi è anche l'atteggiamento UE che ha mancato di regolare dall'alto la situazione con decisioni pilatesche. Il dato rilevante è che la spinta dei movimenti localistici e populistici tiene in scacco la politica degli stati e di conseguenza, a cascata, quella della UE. Sul fatto degli immigrati, Francia ed Italia sono ricorse, l'una nei confronti dell'altra, a mezzucci patetici di reciproca scorrettezza, scendendo ad un livello bassissimo; questo perchè entrambi i governi sono sotto ricatto da parte di partiti che possono rubargli la scena da destra e ciò ha provocato la rincorsa spasmodica a scavalcarli su temi che, alla fine, pur essendo reali, sono sentiti in maniera particolare, da una parte minoritaria della popolazione. Tuttavia l'aumento del gradimento di questi movimenti, come si registra anche dal risultato del recente voto elettorale in Finlandia, costituisce più che una spia di un malessere che attraversa l'Unione Europea. La mancanza di una gestione decisa ed orientata, che parta da Bruxelles, alle problematiche più vicine alle persone, permette, specialmente in tempi di crisi economica, di sfondare facendo leva su sentimenti protezionistici, a quei movimenti che puntano su soluzioni generiche e populiste. E' questa ragione, cioè il successo dei movimenti localistici, a ben vedere, ad aprire delle crepe nel processo di europeizzazione, che pareva avviato. La UE non si è resa conto di essere sull'orlo di un abisso ed ha continuato a governare con il proprio tran tran, senza accorgersi delle avvisaglie della crisi, prima di tutto sociale. La cultura del ripiegarsi su se stessi da parte di stati proverbialmente aperti al mondo costituisce un ben misero rifugio, che non può che dare risultati scarsi di fronte ai cambiamenti epocali che si susseguono a ritmo frenetico. A ciò si devono sommare le esigenze della classe politica, che risulta incapace di elaborare progetti di grande respiro, perchè pressata dall'urgenza dei risultati sul breve periodo; la miscela costituisce un cocktail esplosivo per lo stato dell'Unione: a cui mettere al più presto riparo se non si vuole ripiombare nei tempi bui delle divisioni.

sabato 16 aprile 2011

Le possibili conseguenze del taglio francese dei permessi di lavoro

La Francia annuncia che ridurrà di 20.000 unità i permessi di soggiorno per lavoro; la decisione è frutto di un'analisi sulla necessità stimata di lavoratori stranieri per la saturazione del mercato del lavoro francese. I paesi che saranno più colpiti saranno le aree del nordafrica che hanno maggiori legami con l'ex paese coloniale. Guarda caso sono gli stessi paesi che stanno alimentando fortemente l'attuale traffico di migranti e sui quali verte il dibattito che riguarda Parigi e l'Europa. Che il fattore economico incida fortemente sulla riduzione dei permessi di soggiorno è certamente un fatto assodato, tuttavia in questa fase ciò pare più un pretesto per giustificare una soluzione politica. Il problema migratorio sta affliggendo i rapporti tra gli stati europei e la mancanza di una soluzione condivisa determina singole determinazioni statali. La decisione francese rischia di creare un effetto domino nell'ambito dell'Unione Europea, con ogni stato costretto a deliberare risoluzioni slegate dalla totalità. La mancanza di capacità di fare sistema creerà una serie di problematiche relative ad ogni singolo stato, che l'Europa non sarà più capace di coordinare. E' chiaro che gli stati che ne faranno principalmente le spese saranno quelli di frontiera, chiamati a gestire anche per gli altri, il problema migratorio in ambito continentale. La situazione di contrasto, se il problema non sarà trattato a livello centrale, è destinata ad acuirsi, anche in relazione agli immediati sviluppi delle varie situazioni dei paesi arabi e dei paesi africani, battuti dal flagello della fame. L'assunzione di singole politiche, in ordine al problema dei migranti, creerà certamente delle norme contrastanti tra le disposizioni di legge degli stati, specialmente quelli confinanti, generando situazioni di potenziale contrasto di ordine diplomatico. La soluzione francese non è il metodo più corretto, ma soltanto una misura contingente di un problema politico sia esterno che interno (le imminenti elezioni presidenziali), che rischia di arrecare un danno anche in misura di economia di scala politica. L'Europa deve intervenire al più presto per ristabilire le proprie prerogative in ambito di struttura sovranazionale.

Al Qaeda incita alla sollevazione gli arabi

Il numero due di Al Qaeda Al Zawahri ha incitato tutti i musulmani del nord africa a sollevarsi contro la NATO, che ha invaso il paese islamico della Libia, ma si è anche rivolto contro il rais di Tripoli Gheddafi. L'andamento della situazione della sponda sud del Mediterraneo ha di fatto relegato Al Qaida in una posizione di secondo piano, perchè le masse nordafricane richiedono democrazia e non valori oscurantisti. Tuttavia l'organizzazione terroristica non rinuncia alla propaganda antioccidentale e tramite questa cerca di influenzare le parti più estreme presenti sulla scena. La chiamata alle armi contro la NATO, rea di invasione di suolo islamico, è un argomento che fa sempre presa su alcune parti della società araba, ma in questo momento sembra più un atto di presenza che un reale pericolo. Attualmente la rilevanza di Al Qaeda nella regione pare limitarsi ad alcuni infiltrati presenti tra gli insorti libici, dei quali i servizi segreti occidentalin paiono al corrente. A questo proposito lo stesso colonnello Gheddafi ha recentemente sostenuto di essere in combattimento contro Al Qaeda, identificando, cioè la totalità dei ribelli, come componenti del gruppo terroristico. La dichiarazione è ad uso totalmente propagandistico e non costituisce una novità nel lento trascinarsi del conflitto.