Politica Internazionale

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mercoledì 25 gennaio 2012

Obama inizia la campagna elettorale

Barack Obama entra in campagna elettorale, con un discorso rivolto alla nazione molto americano, che punta sui calori unificanti degli Stati Uniti, ma che, nel dare speranza ai cittadini ed elettori statunitensi, punta anche a mascherare molti promesse non mantenute ed obiettivi mancati. Il ritornello di una America più giusta, con eguali opportunità e regole uguali per tutti va sempre bene per tutte le occasioni, ma il presidente uscente dovrà convincere i suoi concittadini e spiegare il perchè se nei quattro anni appena trascorsi non si sono raggiunti questi traguardi, dovrebbe riuscirci nei prossimi quattro. La visione di Obama è che gli USA, rispetto al 2008, sono migliori, in realtà ciò in assoluto non è vero perchè i dati economici parlano chiaro, ma se si pensa ad una nazione guidata da un presidente repubblicano nel periodo 2008-2012, periodo attraversato da turbolenze economiche che non si verificavano da decenni, che avesse guidato la nazione con una politica di sfrenato liberismo, il risultato, in termini di povertà e maggiore diseguaglianza, ed in ultima analisi la condizione generale della maggioranza della popolazione, sarebbe stato ben peggiore di quello ottenuto dal presidente uscente. Quindi uscendo dai freddi numeri assoluti e pensando a quello che potrebbe potuto essere, Obama non ha poi fatto male, anche se non ha fatto abbastanza. A parziale scusante occorre dire che per la metà del suo mandato, il presidente USA, si è dovuto rapportare con un potere legislativo in mano al partito repubblicano, che non ne ha certo appoggiato la politica e le intenzioni. Il non avere le mani libere, giunta con la mancanza di necessario coraggio, ed anche capacità politica, per scardinare consuetudini ormai consolidate, ha generato una immagine di Obama in netto contrasto con quella creata in campagna elettorale, sulla quale si è addensata una quantità di speranze ed aspettative, obiettivamente difficile da mantenere, sopratutto in una situazione di difficoltà economica conclamata. Tuttavia, favorito anche dal ritornato clima elettorale, il presidente uscente riconferma la propria volontà, che è anche programma politico annunciato, di fare pagare più tasse ai ricchi per creare la possibilità di maggiori investimenti nella sanità, nella scuola e nella ricerca. Questa è soltanto la base di partenza per per impedire il ritorno alle politiche liberiste, specialmente praticate dagli anni ottanta in poi, dei repubblicani, individuate come le vere cause dello sfascio americano. Non si può dare torto ad Obama a colpevolizzare queste politiche, che tanti danni hanno fatto anche nel resto del mondo, il problema è che nei quattro anni trascorsi alla Casa Bianca, non si sia praticata una alternativa efficace, seppure per i limiti sopra considerati, che sapesse ribaltarne gli effetti. Tuttavia gli sfidanti possibili vanno nel senso opposto a quello nel quale Obama vuole andare, in questo senso il tentativo di proporsi come ideale rappresentante della classe media, per tutelarne gli interessi, fa compiere ad Obama un salto di qualità nella propria campagna elettorale. In effetti fare riguadagnare posizioni, o anche semplicemente cercare di mantenerne la posizione, nella scala sociale alla classe media, rappresenta il migliore investimento elettorale di fronte alla deriva liberista. La costruzione di uno stato sociale con basi consolidati e risultati certi, può rappresentare, malgrado tutte le promesse non mantenute, la principale trincea contro una possibile avanzata repubblicana. Anche se, malgrado il basso gradimento nei sondaggi del presidente uscente, il livello degli sfidanti è talmente basso, sia per i personaggi in se, che per i loro programmi, che
Obama pare, in questo momento, il favorito più accreditato per la vittoria finale, semmai un punto debole nel suo programma elettorale è la mancanza della presentazione di una visione che punti alla supremazia americana, al pensare in grande, anche in politica estera, temi a cui l'elettorato americano è sempre sensibile, anche se ultimamente in maniera minore per il crescente interesse per i temi economici. Tuttavia l'accresciuto livello di pragmatismo dell'americano medio non può non essere sollecitato dalla ricchezza dei temi riguardanti l'economia, sia in senso stretto, che in senso allargato, presenti nel programma elettorale di Barack Obama, temi che nei programmi degli sfidanti repubblicani restano ancora a livello nebuloso e contraddittorio, andando a costituire il vero tallone d'Achille degli sfidanti.

martedì 24 gennaio 2012

Partono le sanzioni all'Iran

L'azione congiunta di USA e UE, con il supporto fondamentale dell'Arabia Saudita, permetterà di dare avvio alla sanzioni contro l'Iran a causa del problema nucleare. Riyad è in grado, con la propria produzione in eccesso, di compensare il mancato apporto dei barili iraniani sul computo totale della produzione. Inoltre l'introduzione graduale delle sanzioni permetterà una ricaduta più morbida sul sistema economico mondiale. Proprio per questo motivo gli analisti internazionali sono propensi a credere che non vi sarà un aumento del greggio, particolarmente temuto in questa fase della congiuntura economica. Questo aspetto costituisce una ulteriore sconfitta per la tattica di Teheran, che puntava proprio sugli effetti negativi di un possibile aumento del greggio, per scongiurare le sanzioni a suo danno. Nel contempo, però, è anche un possibile elemento di accelerazione della tensione e dell'esasperazione dell'Iran, che si vede ormai accerchiato, e che potrebbe portare a mettere in pratica decisioni estreme, come il più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz. Anche perchè il possibile avvicinamento con la Cina, che non sostiene le sanzioni, dal punto di vista commerciale non è avvenuto, dato che Pechino, ha ridotto gli acquisiti di greggio iraniano sulla base di una controversia per i pagamenti, ed ha aumentato le proprie forniture da Venezuela, Kazakhistan ed Iraq, in modo da mantenere inalterate le quote in entrata del numero dei barili. L'atteggiamento cinese ha così rappresentato una elegante via di uscita sul piano diplomatico, che gli ha permesso formalmente di non allinearsi agli USA, ma che in concreto, ne ha messo in pratica la politica antinucleare dell'Iran. E' proprio questo, dal punto di vista dell'analisi internazionale, il dato più rilevante: Pechino, aldilà delle dichiarazioni di facciata, con questa manovra mostra chiaramente di non gradire lo sviluppo di una potenza nucleare in mano a radicali islamici, vicino ai propri territori. Teheran, che credeva di fare leva su di una rivalità tra Washington e Pechino, esce totalmente sconfitto sul piano diplomatico ed a questo punto poco possono valere le gite propagandistiche di Ahmadinejad in quei paesi che una volta si sarebbero definiti non allineati. Resta ancora la soluzione di bloccare lo stretto di Hormuz, da dove transita il 20% della domanda globale di petrolio del mondo. Questo tentativo estremo di scongiurare le sanzioni, che avranno un effetto decisamente negativo sull'economia iraniana, potrebbe provocare un rialzo incontrollato del prezzo al barile, si stima fino a 200 dollari, provocando una recessione mondiale, che se dovesse verificarsi anche per un periodo non lungo, complicherebbe di non poco la già difficile situazione economica del pianeta. Conviene a Teheran intraprendere una tale misura? La reazione del mondo intero, o almeno della maggioranza delle nazioni, a quel punto, non potrebbe essere che rapida, proprio per accorciare il più velocemente possibile i giorni di blocco dello stretto. L'ipotesi di un conflitto di mare sembrerebbe la più probabile, ma anche il bombardamento tanto caldeggiato dagli israeliani potrebbe concretizzarsi perchè permetterebbe tempi di risoluzione più breve. Ahmadinejad è conscio di questo sviluppo e seppure dotato di una forza armata tutt'altro che da sottovalutare, non potrebbe che avere la peggio. Dunque il blocco di Hormuz parrebbe meno probabile, nonostante le minacce, più facile che il governo iraniano continui la sua protesta per l'ingerenza interna sulpiano diplomatico e propagandistico, supportata da una azione diplomatica che possa portare nuovi alleati alla propria causa, lasciando, di fatto, in stallo la questione e continuando al proprio interno nello sviluppo del progetto nucleare. Ma se, alla fine, Teheran riuscirà ad avere la sua atomica, la prospettiva sarà per forza variata.

lunedì 23 gennaio 2012

Il punto della situazione della difficile transizione democratica ad un anno dalle rivolte

Ad un anno di distanza dall'inizio del processo dell'abbandono dei popoli nord africani della tirannia e dopo la conclusione dell'operazione in Iraq degli USA, sembra opportuno compiere alcune riflessioni sul cammino della democrazia e sui passi avanti che le nuove istituzioni dei paesi coinvolti nel passaggio della forma di goveno stanno compiendo. Innanzitutto, a prescindere dalle vere ragioni che hanno mosso gli interventi occidentali, occorre chiedere se l'apporto esterno ha consentito, oltre al successo militare, anche una maturazione, sia delle strutture alternative a quelle contestate e decadute e se, nel contempo gli strati sociali sono stati capaci di favorire la transizione democratica. Ma ancora prima è necessario domandarsi con quale tipo, livello e grado di democrazia si vuole misurare questi progressi. Non è possibile, infatti, confrontare situazioni ormai sedimentate da anni, grazie a strutture sociali ben definite e forme di partecipazione alla vita politica diffuse e la cui accessibilità è garantita, con situazioni di totale novità all'introduzione della vita democratica. In questo senso, pur registrando il successo dell'abbattimento del regime di Saddam, gli USA hanno compiuto un errore di valutazione marchiano, credendo che fosse sufficiente eliminare la causa della mancanza di democrazia per riempirne il vuoto. Non è stato così. L'Iraq odierno è uno stato di polizia, in preda al terrore continuo, proprio perchè gli americano non hanno saputo consentire la crescita di quella parte sociale che poteva generare le condizioni per lo sviluppo della vita demcocratica. E' vero che la NATO ha imparato la lezione, perchè in Afghanistan, oltre che alla lotta armata, si è puntato sul coinvolgimento della popolazione mediante la costruzione di infrastrutture, quali scuole ed ospedali, che possono costituire il germe fondativo su cui aprire la libertà di confronto. Ma ancora questo è insufficiente, perchè il paragone è con situazioni di totale differenza da quelle occidentali, come la condizione femminile o la divisione tribale, che non permetteranno, forse mai, di raggiungere gli standard dell'ovest del mondo. Nell'Africa settentrionale le cose vanno in una direzione simile: a parte la Tunisia, dove il risultato elettorale ha comunque destato preoccupazioni agli occidentali per l'affermazione dei movimenti religiosi islamici, peraltro avvenuta in una situazione di totale regolarità del voto, in Libia ed Egitto, la transizione democratica appare ingolfata per problemi, seppure differenti, di chiara origine interna. Sulla Libia la previsione era facile, che la strada verso la democrazia non sarebbe stata agevole, dopo l'asprezza del conflitto che ha portato alla morte di Gheddafi, appariva quasi scontato. La causa ostativa maggiore è la struttura sociale divisa rigidamente in forma tribale, questi compartimenti stagni della società, non favoriscono una apertura trasversale, necessaria alla creazione di partiti, che possano caratterizzarsi, seppure da angolazioni politiche diverse, per la presentazione di programmi politici di ambito generale. L'ostacolo, malgrado i concreti tentativi di parte dei protagonisti politici libici, è obiettivamente difficile, ed ha già costituito dissidi pesanti in seno al CNT, proprio nella sua sede principale di Bengasi, centro nevralgico della rivolta. Il punto è cruciale perchè se non si oltrepassa la visione esclusivamente tribale la divisione permane ed il rischio di una ulteriore guerra civile è dietro l'angolo. Questa volta all'occidente non si possono imputare grandi colpe, se non di non avere investito abbastanza negli aiuti extra militari alle nascenti istituzioni libiche, che hanno in definitiva bisogno di creare un bagaglio culturale alla popolazione in generale per assuefarsi alla pratica democratica oltre la divisione in clan. Per l'Egitto la situazione è ancora differente, giacchè sono stati gli stessi egiziani a cadere nella trappola della tutela militare nel passaggio alla democrazia. Quella egiziana è stata, anche per l'importanza del paese, la rivoluzione più seguita e forse più analizzata dai media occidentali. Il paese, nonostante anni di dittatura ha mantenuto una vitalità culturale, che ha permesso una presenza articolata di movimenti e partiti, anche se fuori legge, che parevano essere l'ideale terreno di coltura per facilitare ed assorbire in tempi brevi la democrazia. Il ruolo di mediazione dell'esercito ha consentito una transizione da Mubarak, che ha limitato le perdite umane, che potevano essere più ingenti senza un cuscinetto tra i contendenti. Ma questo ruolo, che all'inizio è stato visto con favore dalla parte dei manifestanti che volevano la caduta della dittatura, non si è evoluto in senso democratico e le forze armate stanno procrastinando questa funzione che si sono auto affidati, mantenendo il paese in una sorta di limbo che ne prevede la tutela, impedendo di fatto la piena transizione alla democrazia. Sulle ragioni di questa impasse, si è intravista anche la possibilità di un interesse USA, per non lasciare l'Egitto ad una potenziale deriva islamica, che comprometta la posizione israeliana nella regione. I rapporti tra le forze armate egiziane e gli Stati Uniti possono fare credere alla veridicità di questi sospetti, tuttavia la situazione non potrà continuare all'infinito, se vi è una verità in queste congetture, meglio sarebbe per Washington lavorare direttamente con tutte le parti che possono concorrere alla formazione di un governo democraticamente eletto. Peraltro sulle buone intenzioni di tutte le parti che hanno contribuito alla caduta della dittatura, non sembrano esservi dubbi: le relazioni tra i movimenti ed i partiti di orientamento più diverso sono tali da potere permettere una transizione pacifica verso una democrazia che, nell'intero panorama, potrebbe avvicinarsi maggiormente ai criteri occidentali.

venerdì 20 gennaio 2012

Il riscaldamento globale del pianeta come fattore di destabilizzazione mondiale

La tendenza del riscaldamento globale del pianeta si sta consolidando; è questo che dicono i dati diffusi dalla NASA. Dall'inizio della registrazione delle temperature, era il 1880, quella dello scorso anno è stata la nona più alta mai registrata e comunque più alta di 0,51 gradi Celsius della media della seconda metà del secolo scorso. E' significativo che dei dieci anni più caldi mai registrati, nove sono successivi al 2000, mentre soltanto uno, il 1998, si è verificato negli anni precedenti. Nonostante il dato del 2011 sia comunque stato inferiore a quello di alcuni anni precedenti, non significa che si stia verificando un fenomeno di raffreddamento del pianeta, proprio perchè l'aumento della temperatura media è ormai una costante rispetto a tutti i dati degli anni precedenti. La NASA da per assodato che il fenomeno in atto si concretizzi a causa del fatto che la Terra assorbe più energia di quanto ne emetta, il dato è sicuro, grazie alle accurate misurazioni che avvengono tramite i satelliti. Il meccanismo dell'aumento di riscaldamento funziona grazie all'accumulo delle concentrazioni di gas, tra cui l'anidride carbonica, il cui tasso in volume nell'atmosfera era nel 1880 di 285 parti per milione, mentre nel 2011 è arrivato a 390 parti per milione, che provocano l'effetto serra. L'assorbimento della radiazione infrarossa emessa dalla terra viene effettuato dai gas presenti nell'atmosfera, che trattenendo le radiazioni ne impediscono la naturale fuoriuscita nello spazio provocando praticamente l'aumento del valore della temperatura. Questo dato, che sta diventando una costante, va a combinarsi con la grande variabilità del clima e ciò dovrebbe determinare, secondo gli scienziati, il continuo innalzamento del riscaldamento globale, associato però ad aumenti non costanti della crescita annua della temperatura, nonostante siano previsti picchi record nei prossimi due o tre anni. Questi dati non possono essere che letti con allarme nella comunità internazionale, dato che vanno ad impattare su aspetti talmente importanti che possono condizionare la vita di nazioni intere sia direttamente che indirettamente. Direttamente perchè andranno a colpire, aggravandola la difficile situazione già presente in alcuni paesi poveri, costretti a subire la fame per scarsità di risorse o per la cronica mancanza di acqua. Indirettamente per i paesi ricchi perchè dovranno fare fronte a migrazioni di interi popoli, che si preannunciano bibliche, che gli costringeranno, nella migliore delle ipotesi, a stanziare investimenti ingenti per fornire l'aiuto necessario per limitare queste emergenze umanitarie. Tuttavia i dati dicono chiaramente che l'aggravamento del fenomeno del riscaldamento si è verificato dopo il 2000 e sappiamo che coincide con la spinta impressa dall'industrializzazione dei paesi emergenti, che sono anche quelli più resti ad applicare norme restrittive sull'inquinamento. Il cambiamento economico, che ha permesso l'accesso al mercato a nuove masse di consumatori, ha quindi l'effetto più nefasto nelle condizioni generali del pianeta. La sfida è riuscire a conciliare la tendenza economica in atto con il miglioramento dei meri valori atmosferici, in questo senso il tentativo dell'accordo di Kyoto ha sostanzialmente prodotto un fallimento, perchè ha posticipato alcune soluzioni che andavano nella direzione di una diminuzione dell'accumulo di anidride carbonica di alcuni anni, per permettere sia gli adeguamenti degli impianti produttivi, sia, sopratutto, per non consentire perdite allo slancio economico in corso. Ma il problema è ben presente alle istituzioni sovra nazionali che da anni si prodigano per limitarne gli effetti, sopratutto sociali e geopolitici, seppure con scarsi risultati. Fino ad ora ciò ha determinato un approccio a queste problematiche non condiviso e con soluzioni non coordinate che spesso hanno peccato di efficienza. Il problema climatico ha, invece, troppe ricadute sugli assetti politici ed economici del pianeta per non essere affrontato con una visione il più possibile univoca e condivisa, ma la principale difficoltà contingente è appunto data dalla situazione economica globale, che data la sua negatività, rappresenta un freno consistente allo sviluppo di iniziative il più possibile allargate. E' però pensabile credere di potere posticipare ancora il problema? Si, se si mettono in conto nel bilancio sociale complessivo del pianeta sommovimenti sociali tali da produrre onde d'urto capaci di riverberarsi fino agli equilibri degli stati più ricchi, il quesito a quel punto potrebbe diventare la sostenibilità economica, sociale e politica delle nazioni coinvolte. Si pensi come esempio in piccolo cosa hanno causato le migrazioni che si sono riversate in Italia e Francia a seguito della guerra libica o le migrazioni in Kenya delle popolazioni ridotte alla fame dai paesi vicini. Questi casi sono solo piccoli anticipi di quello che potrà succedere se le carestie si allargheranno. Naturalmente non bisogna tralasciare gli effetti economici in forma di rincari di materie prime a cui andrebbero incontro i paesi ricchi in una situazione finanziaria, che anche nel lungo periodo non promette miglioramenti. Fin qui senza parlare di eventuali conflitti che potrebbero svilupparsi per impadronirsi delle risorse idriche, sempre più scarse; non è remota la possibilità che uno stato a monte blocchi il flusso di un fiume a valle, dove a valle vi è un'altro paese. Sono tutte evenienze che possono scatenare reazioni a catena di proporzioni sempre maggiori e che implicano una sempre maggiore necessità di mediazione. Intervenire, quindi sul clima con regole certe e condivise da un numero più grande possibile di stati, è un investimeno a lungo termine su tutti gli aspetti che condizionano la vita del pianeta ed è perciò urgente arrivare ad uno sbocco positivo della questione.

giovedì 19 gennaio 2012

Il piano per salvare l'euro: intenzioni e debolezze

Il piano per salvare la zona Euro, elaborato da Berlino e Parigi, sarebbe pronto e dovrebbe essere reso pubblico a breve. I diversi punti cardine del programa dovrebbero produrre effetti tali da indurre la crescita economica, aumentare e creare occupazione e competività, ridare slancio all'Europa. L'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie dovrebbe costituire la principale fonte per sostenere i provvedimenti e centrare gli obiettivi del programma, che si articola anche nella creazione di speciali uffici di collocamento capaci di entrare sul mercato del lavoro con l'offerta di impieghi a tempo determinato combinati con la formazione, inoltre nelle zone frontaliere le agenzie per il lavoro avranno carattere sperimentale, al fine di cercare l'elaborazione di soluzioni comuni tra le istituzioni degli stati confinanti. Sul fronte delle famiglie si dovrebbe cercare di abbassare il costo del lavoro per alzare le retribuzioni, mentre su quello delle imprese, l'impegno sarà di facilitare l'accesso al credito attraverso la semplificazione sia della contabilità delle imprese stesse, che la semplificazione dei regolamenti bancari in modo di garantire una maggiore e più facile accessibilità ai finanziamenti. Una particolare attenzione sarà rivolta alla semplificazione burocratica delle amministrazioni pubbliche, offrendo un sostegno, anche economico, a quei paesi che dimostreranno un concreto impegno alla elaborazione ed alla attuazione di programmi capaci di creare rigore, riforme e risparmio. Sono programmi che sulla carta possono anche essere visti con favore, ma che non rappresentano nulla di nuovo da cose già dette, sopratutto a causa del divario tra teoria dell'elaborazione delle misure e difficoltà pratica del metterle in concreta attuazione. Il primo scoglio è l'introduzione reale della versione che si vorrà attuare della Tobin tax; riuscire a superare lo scoglio del mondo della finanza sarà un banco di prova decisivo per la vita stessa dell'Euro. Quello della finanza e delle banche è il vero muro da superare per iniziare a risolvere la crisi: per come è stato formato il mondo dell'economia l'introduzione della tassa sulle transazioni finanziarie può costituire una svolta epocale perchè potrebbe sovvertire il fatto che le banche e la finanza diventino strumentali alla società ed allo stato, inteso come insieme della comunità nazionale e non il contrario, come accade attualmente. Se questo obiettivo sarà raggiunto potranno essere perseguiti anche gli altri obiettivi del piano, che rappresentano, però, il ribadire ricette già viste, ma mai attuate fini in fondo. La presa d'atto e di coscienza della necessità di ridare liquidità in mano alle famiglie ed alle imprese è l'unico strada per rilanciare la produzione e rappresenta una crepa nella concezione teutonica fin qui portata avanti dalla Merkel, basata esclusivamente sul rigore dei conti pubblici. La spinta degli industriali ed in generale del mondo produttivo tedesco, che ha visto rallentare le proprie esportazioni in quello che è, malgrado tutto, ancora il mercato più redditizio del mondo, l'Europa, ha fatto cambiare idea alla cancelliera tedesca, più del pressing a cui è stata sottoposta, come azionista di maggioranza, dagli altri partner europei, prima fra tutte l'Italia. Tuttavia non tutti in Germania sono convinti dell'applicazione della Tobin tax, anche in seno al governo tedesco, ad esempio, i liberali, si dicono contrari e propongono come alternativa una tassa per i vantaggi del business bancario e ritenute più pesanti sugli stipendi e le indenità dei dirigenti degli istituti di credito. Ma al netto delle proposte operative quello che manca è ancora una solida impalcatura di tipo politico che sostenga queste iniziative: senza organismi comunitari dotati di maggiore potere decisionale, ogni proposta, ancorchè valida, rischia di essere vanificata nel gioco dei veti incrociati dei singoli governi, ciò vuol dire che la necessaria gestione dell'urgenza è destinata a fallire se non si effettua un ragionamento politico sul lungo periodo, creando un investimento sull'organizzazione comunitaria condiviso da tutti i membri, o perlomeno, quelli convinti di proseguire su questa strada.

mercoledì 18 gennaio 2012

Il peggioramento della crisi nella zona Euro

La crisi finanziaria europea sembra non avere fine ed i suoi peggioramenti si susseguono senza sosta. E' questo, sostanzialmente, l'allarme lanciato dal governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che ha sollecitato i governi a nuove riforme strutturali a favore della competitività. Ma il segnale pare essere una ulteriore mannaia in paesi già duramente provati dalle misure severe approntate dai propri governi. Il costo della crisi sta ricadendo sulle fasce più deboli della popolazione della zona euro, che vedono ridotto drasticamente il proprio potere d'acquisto, in una dimensione di diseguaglianza sempre crescente e che va ad innescare una spirale pericolosa sul fronte dei consumi e quindi della produzione. Quella intrapresa sembra una strada improntata su di un rigore eccessivo, destinato a soffocare la crescita, sulla quale è puntato esclusivamente il sistema economico degli stati. Aldilà del taglio al benessere della popolazione, continuando su questa via verranno a mancare le entrate messe a bilancio delle imposte indirette, per manifesta mancanza di liquidità da parte delle famiglie e delle imprese. Il premier italiano Mario Monti, partendo con una politica di rigore eccessivo, per dare un chiaro segnale alle istituzioni UE, ma sopratutto alla Germania, sperava poi che queste misure fornissero il passaporto per avere aiuti per sostenere la crescita italiana, ma così non è stato: la cancelliera Merkel, pur lodando i provvedimenti del governo tecnico italiano, ha più volte affermato che l'Italia può farcela da sola, metodo elegante per smarcarsi dal fornire aiuti a Roma, come aveva fatto con Atene. E' pur vero che il confronto tra le dimensioni dell'economia italiana con quella greca non è neppure da fare, troppo più grande quella della penisola, che è pur sempre la terza economia della zona euro, ma proprio per questo non risulta comprensibile non intervenire a favore di un mercato che per Berlino rappresenta uno sbocco importante. La verità è che i governi della Germania e della Francia, sono sottoposti a pressioni interne difficilmente gestibili, sopratutto per Parigi, che a cento giorni dalle elezioni si è vista arrivare la declassazione delle agenzie di rating. Uno dei problemi europei finanziari più immediati, legati agli umori dei mercati, è proprio il rapporto dell'Europa con queste agenzie, che rappresentano una fonte di dissesto fondamentale e mantengono inalterata la propria credibilità nonostante abbiano compiuto nel tempo errori grossolani. Il sospetto che siano pilotate in favore di un'altra economia in crisi: gli USA, sembra più che legittimo. Nonostante tutte le rassicurazioni fornite da Washington, l'imminente campagna per le presidenziali americane, offre il prestesto, sia a democratici che repubblicani per aggiustare il tiro contro l'euro, maggiore avversario del dollaro. Gli americani sono piuttosto sensibili all'argomento della supremazia della bandiera a stelle e strisce ed il ritorno sul vecchio continente alle divise nazionali potrebbe favorire l'economia USA, sia come collettore di risorse sia permetterebbe agli Stati Uniti di combattere l'espansionismo economico cinese che si concretizza sempre di più in Europa, grazie alla disponibilita di liquidi enorme. Il rischio di un imminente ulteriore declassamento italiano e del default greco mettono l'Euro in una posizione pericolosa, di fronte alla quale le strategie di una UE, che non riesce a compattarsi a dovere, non paiono sortire effetti di rilievo. Ancora una volta la politica è però la grande assente: con l'agilità di un elefante, le istituzioni UE, non riescono a proporre ed imporre soluzioni che abbiano natura di urgenza e diano quella credibilità politica che costituisce la principale difesa contro l'instabilità dei mercati. La necessità che l'Europa si doti di sistemi e misure dotate di automatismi atti a fronteggiare in tempi rapidi le sollecitazioni dei mercati è uno dei cardini su cui punta Draghi: la valutazione del debito che consideri l'impatto dei giudizi delle agenzie di rating è ormai una esigenza improcrastinabile, ed anzi risulta molto strano come non vi sia ancora messo rimedio. Un'altra necessità a cui dare corso con velocità è aumentare il fondo salva stati, ma non solo, occorre che il fondo sia messo al riparo da giudizi negativi con dispositivi salvagente, che lo tutelino in maniera completa da eventuali speculazioni dei mercati, dato che è destinato ad essere il maggiore strumento di salvaguardia della situazione finanziaria degli stati aderenti. Quello che purtroppo emerge è una costruzione dell'euro basata su fondamenta leggere, che non solo non hanno previsto l'evoluzione storica della finanza mondiale, ma che, ancora peggio, non si sono adeguate mentre i cambiamenti erano e sono in corso. Oltre cioè alla debolezza normativa si assiste ad una imperizia preoccupante di chi è stato e sta nelle posizioni di comando, perchè appare legato a logiche localistiche e privo del tutto di una visione di insieme e sopratutto a lungo termine.

martedì 17 gennaio 2012

Il ruolo della Cina nella questione del petrolio iraniano

La questione dell'embargo all'Iran costituisce l'ennesimo scoglio sul cammino della ripresa mondiale. Anche senza arrivare al blocco totale delle esportazioni del greggio di Teheran, il solo averne ventilato la possibilità ha provocato un immediato rialzo dei prezzi al barile, che va ad aggravare uno stato generale dell'economia del pianeta non certo in buona salute. Anche ragionando sul medio periodo, se non si riuscirà a fare fronte al fabbisogno stimato di materie prime legate all'energia, anche il gas, non solo il petrolio, si potrebbe dovere rivedere i programmi stilati per una possibile ripresa, che appare, comunque, ancora problematica. Per tutte queste ragioni il primo ministro cinese Wen Jiabao, quindi il capo del motore economico più grande del pianeta, ha ritenuto doveroso richiedere la collaborazione degli Emirati Arabi, per ottenere rassicurazioni sulla volontà di aumentare la produzione giornaliera di barili di greggio per compensare l'eventuale diminuzione di esportazione iraniana. La mossa della Cina, che non aderisce alle sanzioni di Washington ed anzi le ha condannate, mira a tutelare la propria economia da problemi di approvigionamento, che potrebbero derivare dal più volte minacciato blocco dello stretto di Hormuz, Pechino, infatti, importa circa il 15% del proprio intero fabbisogno petrolifero dall'Iran. Sul piano dei rapporti internazionali, la manovra del Presidente cinese non sarà indolore in seno all'OPEC. Dati i rapporti già tesi tra i due dei soci più pesanti: Arabia Saudita ed Iran, la mossa cinese è destinata ad acuirne i motivi di scontro, che, va sottolineato, vanno aldilà dei meri dati sui quantitativi della produzione. Va anche detto che Pechino sta dando prova di una abilità diplomatica notevole, che ne dimostra la capacità di restare in equilibrio, mantenendosi sostanzialmente equidistante tra le parti e nello stesso tempo riuscendo a salvaguardare i propri interessi. Certo gli strumenti in mano a Pechino sono consistenti: da un lato la potenza economica che ne fa un cliente per i produttori di greggio altamente solvibile grazie alla grande liquidità disponibile e capace quindi di assorbire grossi quantitativi di produzione e dal lato diplomatico il possesso di un seggio permanente nel Consiglio delle Nazioni Unite, permette spazi di manovra decisamente superiori ad altre nazioni grazie al potere di veto. Pechino ha più volte affermato di lavorare per la pace della regione, ciò rappresenta un proprio interesse preminente, giacchè permette di controllare l'andamento dei prezzi dei prodotti petroliferi, intimamente legati alla capacità produttiva cinese. Frattanto l'iniziativa cinese ha provocato le reazioni iraniane, che vedono, con la manovra del premier di Pechino, il vanificarsi dei propri piani che vertono proprio sulla leva del greggio per spaventare le economie, non solo occidentali. Ma le dichiarazioni del ministro del petrolio saudita Ali al-Naimi hanno cercato di smorzare le polemiche, specificando che l'aumento della produzione dei paesi arabi è dettato essenzialmente dall'aumento della domanda, omettendo però le ragioni che stanno causando questa domanda. Il ruolo della Cina, trascinata dentro la questione del nucleare iraniano per ragioni commerciali, rischia, alla fine, di essere il principale alleato degli USA, anche se in maniera indiretta; resta da vedere quale strategia ora sarà capace di elaborare Teheran per combattere le sanzioni, che hanno prodotto per la Repubblica Islamica una perdita di clienti e quindi di valuta sostanziosa. Il tour diplomatico del presidente iraniano nei paesi latino americani può coprire una parte dell'ammanco venutosi a creare, ma non può coprire in uguale maniera il senso di accerchiamento che si è venuto a creare, anche grazie all'inasprimento dei rapporti con gli stati sunniti della penisola arabica. Se l'Iran si sentirà ancora più sotto scacco la speranza è che non ricorra a soluzioni estreme, come quelle più volte minacciate, per riuscire a trovare una via di uscita.