Politica Internazionale

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lunedì 16 aprile 2012

Il pericoloso nervosismo di Israele

Nel comportamento di Israele nei confronti degli attivisti internazionali, che si erano dati appuntamento per l'inaugurazione di una scuola palestinese a Betlemme per denunciare la politica del controllo dell'accesso ai territori da parte dello stato ebraico, si ravvisa un comportamento pericoloso per lo svolgimento futuro della questione palestinese e degno delle peggiori dittature e forse elemento peggiore un comportamento autolesionistico che non può che denunciare lo stato di profonda confusione di cui è preda il governo di Tel Aviv. Minacciare le principali compagnie aeree europee di ritorsioni in caso di imbarco di persone presenti sulla lista dei non graditi, significa andare contro ogni logica del buon senso. Anche chi non parteggia apertamente con la causa palestinese non ha potuto fare altro che rilevare come i metodi usati da Tel Aviv sfiorino, oltre che l'inopportunità, anche una fonte di potenziale attrito con diversi paesi, che pure sono alleati di Israele. Cosa teme Israele da una protesta che in fondo non è diversa da molte altre, portata avanti si, da organizzazioni di altri paesi e quindi con rilevanza internazionale, ma in cui sono protagoniste associazioni che si presentano palesemente filo palestinesi, quindi che non portano alcuna novità alla causa della Palestina? La sensazione è che in altri tempi Israele avrebbe lasciato fare la manifestazione, controllandola da lontano, ma senza esporsi in modo così marcato di fronte ad un panorama internazionale che è completamente allibito. Ma il senso di accerchiamento e la continua tensione per la questione iraniana, devono avere alterato in maniera significativa il metro di giudizio del governo. Occorre dire, che sia la politica del controllo degli accessi e sopratutto la politica degli insediamenti abusivi dei coloni israeliani nei territori palestinesi sono atti di forza illegittimi, che il governo di Benjamin Netanyahu compie sapendo di infrangere accordi precedenti, nonostante insista ad incolpare i dirigenti palestinesi di non volersi sedere al tavolo della pace. La strategia di pressione politica messa in atto da Mazen, con la pressante richiesta di riconoscimento della Palestina all'ONU, ha, di fatto, messo all'angolo Israele, entrato nell'occhio mediatico e diplomatico internazionale. Tel Aviv non sapendo fornire risposte flessibili a causa di una rigidità di fondo, ha inasprito la sua politica costrittiva contro i palestinesi, imboccando una strada senza uscita. Il punto cruciale è che ora Israele è al centro di questioni più ampie, per le quali la soluzione pacifica e definitiva del problema palestinese rappresenterebbe un grosso contributo proprio per trovare la stabilità almeno regionale se non di settori più ampi. Questa attenzione innervosisce il governo che non può continuare una politica repressiva lontano da occhi indiscreti ed anche una banale manifestazione, ma con partecipanti internazionali è capace di turbare la situazione a tal punto da creare casi al limite dell'incidente diplomatico. Il culmine, quasi comico, è stata la patetica lettera del capo del governo israeliano agli attivisti, dove con toni da dittatore paternalista si invitava a dimostrare contro la repressione siriana o quella degli oppositori iraniani; cose che comunque non escludono di manifestare per la Palestina. Il tentativo di fare distogliere l'attenzione su Israele per rivolgerla su altre questioni ricalca uno schema già usato proprio da quei dittatori sui quali Netanyahu chiede di rivolgere le attenzioni dei sostenitori palestinesi. La situazione nervosa del governo israeliano si rivela dunque molto critica ed è un fattore che non può che destare forte preoccupazione circa la questione del nucleare iraniano, dove Tel Aviv ha più volte manifestato la volontà di un attacco armato preventivo. Quello che ne potrebbe derivare non è prevedibile ed il fatto che un arsenale nucleare sia in mano a chi assume iniziative così platealmente contro producenti innanzitutto per il proprio paese nono può che aggiungere motivi di enorme preoccupazione.

venerdì 13 aprile 2012

La distorsione politica dei governi tecnici

Un mezzo, che in futuro pare dovrà aumentare sempre di più, per permettere di governare le crisi economiche e finanziarie, dovrebbe essere costituito dalla rinuncia di quote di sovranità nazionale a beneficio di organizzazioni sovranazionali. Detto così potrebbe significare soltanto, in un quadro politico e normativo certo, il mero trasferimento di delega, attraverso il comune esercizio del voto, da rappresentanze esclusivamente nazionali a rappresentanze sovranazionali, comunque in grado di garantire una rappresentatività democratica capace di gestire le situazioni sia di ordine esecutivo che legislativo, che il momento storico attraversato vorrà presentare, attraverso la politica, intesa come esercizio democratico. Se così fosse, gli unici a potere obiettare qualcosa contro questo ordinamento potrebbero essere coloro che si riconoscono in movimenti locali o nazionalistici, che non riescono a superare l'idea di patria o nazione e pertanto non condividono l'unione tra stati, pur accomunati da reciproci fattori comuni, capaci di aggregare nazioni diverse. Sono obiezioni legittime che fino a questo momento rappresentavano l'unico elemento di contrarietà ad una spinta propulsiva definitiva che portasse, ad esempio, al compimento del processo per gli Stati Uniti d'Europa. Le crisi finanziarie, oltre ai tanti fattori negativi che hanno portato, sia di tipo economico, che sociale, sono anche riuscite ad incrementare la sfiducia, che ha passato le frontiere dei partiti nazionalisti o dei movimenti locali, verso la politica di unione perchè questa è stata scavalcata in avanti dalla costruzione di forme di governo artificiali, che non hanno nulla in comune con i risultati scaturiti dalle urne elettorali. La piaga dei governi tecnici, che provengono alla fine, da quegli stessi ambienti che hanno determinato le crisi finanziarie, è stato il colpo finale che favorirà il sentimento dell'anti politica. Cittadini delusi da classi politiche incapaci e non all'altezza, sia morale che tecnica, mancante, cioè, della totale capacità dell'esercizio dell'amministrazione della cosa pubblica, si vedono ora vessati da personale di governo, calato dall'alto, che percorre scopi, senza alcuna discriminazione di tipo politico, senza cioè alcun apparente criterio di scelta, in nome di obiettivi da raggiungere attraverso il mero uso della calcolatrice. Politiche fiscali troppo pressanti che non tengono conto della necessaria crescita e che per questo saranno vanificate, sono percorse in modo ottuso e con pochi compromessi con quei soggetti politici che costituivano i tradizionali interlocutori del dibattito politico. Questo è già realtà per Grecia ed Italia ed il rischio che la pratica si allarghi ad altri stati è ormai una certezza. Ci si avvia verso un nuovo feudalesimo, se possibile peggiore delle dittature, dove il consenso non è necessario perchè ciò che legittima il potere è il solo fattore economico, un potere sordo ed impermeabile alle critiche, tanto da non doverle neppure considerare come elemento di disturbo alla propria azione, un potere che per ora mantiene i riti della democrazia in vita, ma svuotandoli dei loro reali significati e che in futuro potrà cancellarli come inutili orpelli perchè rallentano l'azione governativa. D'altronde è proprio il diffuso sentimento, in gran parte giustificato, di avversione alla politica che costituisce un fattore facilitante della diffusione della tecnocrazia: l'impressione di competenza ed anche di onestà che spesso ispirano i tecnici maschera molto bene il fatto che svolgano la loro azione senza investitura popolare ed anzi che questa possa diventare non più necessaria in un futuro prossimo. Anni ed anni di uso distorto dei media hanno favorito uno spianamento delle coscienze e delle consapevolezze proprio di quei ceti che più dovrebbero esercitare i loro diritti democratici e che ora, invece, sono proprio quelle parti sociali che più avvallano l'avvento dei tecnici, non rendendosi conto di esserne le principali vittime. In nome dela tecnocrazia è più facile cancellare diritti ed indebolire conquiste per cui si è impiegato anni: non è la parte politica avversa che li propugna per un particolare programma politico, ma sono soltanto gli effetti che permettono di raggiungere un valore complessivo che scongiura qualche punto in meno di un indice borsistico. Appiattendo il confronto, che diventa asettico e privo della dialettica necessaria a sviluppare il classico dibattito politico, il raggiungimento dello scopo è quasi indolore perchè anestetizzato dai freddi dati presentati senza un necessario corollario programmatico decisivo per la sua comprensione. Insomma senza una limitazione urgente del ricorso al governo di tipo tecnico si richia la perdita della democrazia senza neppure rendersene conto, occorre perciò trovare alternative che consentano di superare le tradizionali differenze ideologiche tra le forze politiche, anche con forme di coalizioni temporanee, ma non imposte dal mercato, che permettano di recuperare alla politica il ruolo che le spetta.

I comportamenti comuni dei dittatori e la necessità di anticiparli

Dalle ultime vicende emerge chiaramente come lo schema mentale dei dittatori si muova su binari comuni, con similitudini impressionanti. In genere fin dai primi episodi di ribellione la risposta scelta è fin da subito quella violenta, accompagnata con un silenzio sul fatto di cronaca. Se la repressione pubblica riesce, segue una fase di annientamento degli oppositori operata dalla polizia, più spesso segreta, con rapimenti che sfociano in utilizzo di mezzi coercitivi violenti, che spesso possono concludersi con la soppressione fisica del catturato. Se gli episodi di protesta si ripetono e riescono, come ormai la diffusione dei mezzi tecnologici permette con una certa facilità, a varcare i confini del paese, i media in mano alla dittatura si affannano a presentare le rivolte come atti terroristici tesi a destabilizzare la nazione, più spesso definiti come eseguiti su mandato di potenze straniere. La potenza di fuoco messa in campo per stroncare il dissenso è sproporzionata alla forza dell'avversario, che, a quel punto, deve sperare in un aiuto esterno, meglio se sotto la copertura delle Nazioni Unite. Così è stato per la Libia, ma il contrario sta avvenendo in Siria. Nella fase intermedia del processo di ribellione, che non parte mai in modo violento, ma sempre più spesso su impulso di uno svariato numero di persone, che sfidano il regime in luoghi pubblici, spesso eletti a simbolo della protesta stessa, come la famosa piazza del Cairo, il dittatore, se in difficoltà, non tanto per quanto riguarda la politica interna ma piuttosto per quella estera, inizia a fare promesse per guadagnare tempo, sperando che la situazione volga in suo favore. Spesso le altre nazioni, cadono nel tranello e concedono tempo prezioso alla riorganizzazione della repressione, con azioni parallele di politica estera che devono fare presa su possibili nazioni alleate, sempre per interessi particolari strategici, geopolitici o economici. A questo punto, di solito entrano in gioco le sanzioni, che provocano effetti immediati negativi sulla popolazione, andando ad aggravare situazioni già molto difficili. Per lo stato oggetto di sanzioni gli effetti entrano ad avere una qualche ripercussione non con tempistiche veloci, grazie a riserve accumulate, che permettono un certo margine di gestione della situazione. Sul lungo periodo, quando gli effetti delle sanzioni iniziano a produrre conseguenze anche per il regime, la tattica può diventare di inasprire ulteriormente la repressione o fingere concessioni, che in realtà servono ad accreditarsi ad una opinione pubblica internazionale, ma che non hanno alcuna ripercussione sui diritti rivendicati. Un aspetto comunemente rilevato è il ricorso ad individuare forze esterne, altre nazioni o organizzazioni terroristiche esistenti, ma che spesso non sono protagoniste dei disordini, come responsabili delle agitazioni che causano la repressione dei regimi. Ciò implica una volontà ben precisa di non accreditare un ruolo politico all'opposizione o alle opposizioni interne, perchè semplicemente all'interno delle dittature non deve essere riconosciuta la presenza di idee o comportamenti al di fuori degli schemi prestabiliti. Si dovrebbe così ottenere il duplice scopo di auto accreditarsi un consenso generale, che in effetti non è presente e nello stesso tempo, di non offrire la sponda al coinvolgimento di altri soggetti nella ribellione. Le nazioni democratiche che vogliono contribuire ad eliminare le dittature e che si trovano coinvolte nel teatro internazionale come soggetti attivi, insieme alle organizzazioni internazionali, spesso non tengono conto di questi schemi, ormai provati e così facendo non anticipano le mosse delle dittature, sopratutto in ragioni di interessi di stabilità, che al contrario vengono proprio intaccati da episodi repressivi. Il ruolo delle Nazioni Unite è ancora troppo bloccato da regolamenti troppo stringenti sull'autonomia di funzionamento, per cui le risposte fornite, quando ci sono, avvengono in modo tardivo. Il problema della violenza su popoli interi, oltre a generare naturali sentimenti di ribrezzo, deve essere anche visto in maniera tale da individuarne le possibili conseguenze in un mondo sempre più globalizzato e legato da sistemi di causa ed effetto che vanno a ripercuotersi nello normale svolgimento della vita di un qualsiasi stato democratico. Per tutti valga il triste esempio delle migrazioni dei popoli in fuga non solo dalla fame ma dalle guerre e dalle repressioni. Si è assistito, con la guerra libica, a movimenti ingenti di masse di rifugiati verso le coste europee, dove hanno trovato stati totalmente impreparati alla gestione del fenomeno. La migliore tattica dovrebbe essere una azione preventiva a livello politico, mediante aiuti ed assistenza, per favorire la transizione democratica pacifica che riguardi tutti quei regimi potenzialmente pericolosi per la stabilità mondiale. Non si tratta di un pensiero utopico, ma di un progetto a lungo termine che è un investimento per la pace e la stabilità mondiale, che può essere affrontato soltanto, come primo attore da una organizzazione internazionale.

martedì 10 aprile 2012

La questione Falkland-Malvinas come uso distorto della politica internazionale

Il ritorno della questione delle Isole Falkland o Malvinas, nasconde le difficoltà, sul piano interno, della Presidentessa argentina Kirchner, che fa uso di una tecnica ormai abusata dei governanti alle prese con un calo di consenso. Per gli argentini le isole Malvinas sono una questione delicata e molto sentita, tanto da ritenere la sovranità britannica un abuso ed un episodio residuale di colonialismo. Questo sentimento è condiviso dalla maggioranza della popolazione e su questo fa leva la Presidentessa argentina per aggregare un sentimento nazionale partendo da basi politiche diverse, cercando di coinvolgere anche chi non condivide il suo credo politico e sopratutto ne contesta l'azione governativa. E' uno schema conosciuto bene ed altrettanto bene collaudato, che fa perno su questioni di politica estera, che consentono una facilità maggiore di dichiarazioni programmatiche, rispetto ad enunciare programmi di politica interna, meno soggetti a variabili incontrollabili e che consentono, in prima battuta, di diminuire il livello di attenzione sulle difficoltà interne, ed in seconda battuta, hanno risultati più facilmente manipolabili di fronte all'opinione pubblica. Quello che è singolare è però l'analogia con le difficoltà interne del premier britannico Cameron, cui la collega Kirchner offre, seppure inconsapevolmente, una sponda in un momento di altrettanto grande difficoltà per la situazione del Regno Unito. Cameron è alle prese con difficoltà finanziarie, pessimi rapporti con l'Unione Europea ed è coinvolto in uno scandalo, ben poco british, circa spese per cene e festini. L'assist della presidentessa argentina non potrebbe arrivare in un momento migliore, segnato dalla necessità, ancora una volta, di distogliere l'attenzione dei media inglesi dalla controversa azione politica del loro premier. La situazione è speculare, anche per gli inglesi, in questo vittima del vecchio retaggio dell'impero britannico, la questione Falkland ha un potenziale di unità enorme. Inoltre la vittoria della guerra di qualche decennio addietro, contro un'Argentina vittima della dittatura militare, evoca un forte richiamo alla forza della nazione. Anche allora lo schema ricalca quello che ora si sta ripetendo: una giunta militare in difficoltà tenta il colpo di reni cercando di riprendere un territorio da sempre sentito come appendice della nazione, ma perde la guerra e ciò ne causa l'inizio del declino, concluso con il ritorno della democrazia a Buenos Aires. Risultato contrario per la Lady di ferro Margaret Thatcher, che partendo da una situazione interna sfavorevole, grazie alla vittoria militare riprese quota nei consensi del popolo inglese. Aldilà della effettiva importanza sia strategica, che economica delle isole al largo del mare argentino, sopratutto in ottica di sfruttamento delle risorse dell'antartide, in questo momento storico è fortunatamente difficile che l'episodio militare possa ripetersi, anche se l'Argentina vorrà mettere in pratica le minacce di embargo economico. Tuttavia per lo studio delle dinamiche dei riflessi sulla politica interna da parte della politica estera ed il loro uso da parte di governanti in difficoltà le Falkland o Malvinas rappresentano uno dei più chiari esempi di utilizzo distorto, aldilà delle motivazioni dichiarate, per cercare di mascherare situazioni negative di politica interna, peccato che il bilancio dei morti oltrepassò quota ottocento vittime.

Truppe siriane aprono il fuoco in territorio turco

Un grave episodio capace di peggiorare ulteriormente il clima diplomatico nei confronti della Siria, è avvenuto al confine con la Turchia, dove, proprio nel territorio di Ankara, sono stati allestiti numerosi campi profughi per i siriani in fuga dalle violenze del regime di Assad. A Kilis, nell'Anatolia Sud Orientale, truppe siriane hanno aperto il fuoco contro il campo profughi e gruppi di fuggitivi che cercavano di raggiungerlo. La distanza, di poche centinaia di metri, dell'ubicazione del campo, dalla frontiera siriana ha facilitato il compito dei soldati di Damasco, che hanno provocato almeno un morto e diversi feriti. Le ragioni dell'assalto andrebbero individuate, nella volontà di compiere una rappresaglia ad un attentato avvenuto nella città siriana di Salama. Secondo le versioni di alcune organizzazioni umanitarie la polizia turca non avrebbe risposto al fuoco. Questo fatto può soltanto indicare la volontà, per ora, da parte del governo della Turchia, di non rispondere a provocazioni, che potrebbero allargare il conflitto. Le relazioni tra i due paesi sono ormai irrimediabilmente rovinate, da quando Ankara ha condannato la repressione violenta di Damasco ed ha aperto i propri confini ai fuggitivi siriani. Ma può essere anche l'indicazione di una impreparazione ad un eventuale attacco da parte del regime siriano, oltre i confini del paese, anche se è difficile valutare se l'azione contro Kilis, sia una iniziativa personale di qualche comandante siriano, sfuggita di mano o se rientra in un effettivo piano di allargamento del conflitto. Questa ipotesi potrebbe essere suffragata dal tentativo di Assad di distogliere l'attenzione della repressione in corso nel proprio paese, una strategia che il dittatore di Damasco ha attuato più volte con una tecnica di azioni veloci, a cui è seguita una immediata ritirata, che costringono l'opinione pubblica internazionale ha distogliere, seppure per poco, la concentrazione mediatica sulla guerra civile in corso. In ogni caso, queste iniziative erano per lo più di tipo diplomatico, con l'azione di Kilis la questione siriana sale un gradino nella possibile evoluzione degli eventi, ricordiamo che la Turchia è un membro della NATO e lo statuto dell'Alleanza Atlantica prevede un intervento militare, in alcuni casi automatico, in caso di aggressione ad un paese membro. Del fatto è sicuramente consapevole il governo di Damasco, a cui non piace sicuramente dare una occasione così chiara ad un intervento armato sul proprio territorio. Se questo è vero resta in piedi un errore umano, che però è significativo, sullo stato di tensione e di scollamento delle truppe fedeli al dittatore, con il centro di comando. Particolarmente significativa è la tempistica dell'episodio, che avviene alla vigilia dell'inviato dell'ONU Annan. Difficile che il fatto non sia oggetto di discussione, anche perchè lo sconfinamento in territorio straniero, può portare a conseguenze capaci dell'allargamento del conflitto. Tuttavia il governo turco, per ora non ha mostrato di volere compiere ritorsioni, assumendo un atteggiamento di grande responsabilità, come ha sottolineato il Ministro della Difesa Ismet Yilmaz, che ha affermato che lo stato turco deve obbligatoriamente considerare tutte le eventualità che potranno verificarsi e prepararsi quindi ad ogni situazione che si presenterà, ma che questo stato di allerta non significa necessariamente prepararsi ad una guerra. L'affermazione è chiara, avvisa i vicini siriani che non saranno tollerate altre invasioni, ma nel contempo, attende gli esiti della missione di Annan, atteggiamento senz'altro concordato con l'alleato statunitense.

venerdì 6 aprile 2012

Lo stato dei Tuareg si dichiara indipendente

Se, da una parte è stato citato, forse giustamente, il diritto all'autodeterminazione dei popoli, come motivo giustificante della lotta dei popoli tuareg, per la creazione di un proprio stato, culminata nella dichiarazione di indipendenza della regione a nord del Mali, denominata dagli stessi tuareg, Azaouad, dall'altro lato, occorre considerare come questa auto proclamazione in stato indipendente è maturata. Se è vero che la regione separata dalla nazione cui apparteneva, il Mali, è da sempre considerata la patria del popolo tuareg, che non hanno mai riconosciuto il paese con capitale Bamako, come proprio stato, ed hanno nutrito per anni sentimenti di indipendenza, il modo in cui è avvenuto questo distacco, tutt'altro che pacifico e concordato, genera naturali sospetti sulla natura e sul futuro della nazione nascente. Le alleanze con cui il Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad, ha raggiunto il proprio scopo, gettano un'ombra lunga sulla stabilità regionale che va oltre i confini delineati dai separatisti tuareg. Del resto la situazione del nuovo paese è tutt'altro che chiara, nella regione continuano i saccheggi e le violenze, e non vi è una identità tra le forze che compongono i vincitori. Infatti se per i tuareg si tratterebbe di dare sostanza alle aspirazioni della creazione di un proprio stato autonomo, i combattenti islamici, che hanno partecipato attivamente al conflitto, auspicano la creazione di uno stato dove deve essere vigente la sharia. Non bastano a quietare una situazione molto complicata le promesse del Movimento Nazionale per la Liberazione della Azaouad (MNLA), di rispettare le frontiere con gli stati confinanti e la loro inviolabilità, dichiarando concluse le ostilità. Dal punto di vista diplomatico l'auto proclamazione di uno stato incontra serie difficoltà se non vi è alcun riconoscimento degli altri attori internazionali e per il momento non sembra che vi sia alcuna nazione intenzionata a compiere passi ufficiali verso la stato dei tuareg, sopratutto nessun paese africano. Il nuovo soggetto è così esposto alla rappresaglia internazionale, perchè formalmente ha rovesciato l'autorità di uno stato sovrano. Tuttavia la situazione del Mali, il cui governo legittimo è stato rovesciato da un colpo di stato, è oggetto di sanzioni internazionali e questo fatto, oltre che essere a favore dei rivoltosi, blocca ogni iniziativa internazionale ed anche della stessa nazione a cui è stata sottratta una parte consistente del territorio, che si è limitata a dire agli abitanti del nord del paese di opporre resistenza agli invasori, abbandonandola di fatto al proprio destino. AL momento, quindi la situazione è bloccata e nelle cancellerie si attendono gli sviluppi della situazione con uno stato di sotanziale allerta per i timori della costituzione di uno stato islamico integralista appena dopo le rive del Mediterraneo.

mercoledì 4 aprile 2012

Nel Mali pericolo della nascita di uno stato islamico

La questione del Mali rischia di diventare un focolaio sempre più pericoloso per l'occidente. Dal colpo di stato, giustificato con la necessità di contrapporre una politica repressiva alle istanze di libertà delle regioni settentrionali del paese, la situazione interna è precipitata. L'avanzata delle armate Tuareg ha imposto la legge islamica, la sharia, nelle città conquistate, praticamente cancellando il turismo da città come Timbuctù e gettando sul lastrico una economia già in grossa difficoltà. Le violenze dei ribelli hanno provocato la fuga di almeno 200.000 persone, che fuggono nelle nazioni vicine Mauritania, Niger, Burkina Faso e in Algeria e nelle zone interne del paese, per sfuggire alla fame e sopratutto ai combattimenti in corso, determinando una frattura territoriale dello stato del Mali, ormai diviso in due. Quello che preoccupa maggiormente le cancellerie occidentali è la possibile saldatura tra i tuareg, i salafiti ed Al Qaeda, che da queste vicende potrebbe avere nuovi e positivi impulsi da innestare in una organizzazione che pareva in disarmo. In realtà quello che muove gli uonimi blu sarebbero ragioni più pragmatiche ad allearsi con gli estremisti islamici, come il controllo dei fiorenti traffici di droga, persone ed armi, che transitano nelle regioni ora occupate. Tuttavia anche questo aspetto non è da sottovalutare, sopratutto se unito con le motivazioni dei gruppi estremisti, che potrebbero trarre anch'essi vantaggio dai movimenti di merci di contrabbando, sopratutto in un'ottica di riorganizzazione di tutto quel movimento variegato che si richiama al terrorismo islamico. In questo quadro il colpo di stato nel Mali, aggrava una situazione già di per se preoccupante; l'instabilità del paese africano non consente una risposta militare adeguata all'avanzata dei tuareg, ma, neppure, un interlocutore affidabile per i paesi occidentali, preoccupati dagli effetti di una spaccatura del paese con una parte costituita in repubblica islamica, in una zona già monitorata per i possibili rifugi che già potava offrire in regime di clandestinità a gruppi terroristici. In quadro, per così dire istituzionalizzato, per Al Qaeda raccogliere proseliti anche fuori dal paese, tra gli emarginati e gli esaltati della religione islamica sarebbe molto più agevole, disponendo di territori al di fuori del controllo di forze istituzionali. Tuttavia la parte moderata del movimento dei tuareg minimizzano su queste alleanze, che presentano come strategiche per il raggiungimento dell'obiettivo di controllare la regione di Azawad ritenuta la patria dei nomadi, che dovrà diventare la Repubblica Islamica Azawad. Ma i successi dei tuareg hanno provocato una grande ondata di risentimento nella popolazione del Mali nei confronti degli autori del colpo di stato, ritenuti una causa del successo dell'avanzata degli uomin blu. Il colpo di stato ha interrotto la catena di comando dello stato, non permettendo di fornire una adeguata risposta militare alle mosse di tuareg. Inoltre il paese è stato gettato, proprio a causa del colpo di stato nell'isolamento internazionale ed oggetto di sanzioni, che hanno scatenato una corsa all'accaparramento dei beni alimentari, che, a loro volta, hanno causato violenze e saccheggi. E' una situazione sia politica che diplomatica complicata, lo stato del Mali rischia di perdere una gran parte del proprio territorio e l'occidente di trovarsi a pochi chilometri di distanza un nuovo stato, base ideale per il terrorismo islamico. La situazione, per ora fluida, rischia di diventare un nuovo caso per il Consiglio di sicurezza dell'ONU, con i probabili relativi contrasti e la necessità di agire per impedire una soluzione del caso che si preannuncia difficile e poco conveniente per chi vuole la stabilità della regione.