Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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martedì 7 agosto 2012
In Africa, crescono i problemi per la Cina
La Cina, che ha fatto dell'espansione economica in Africa un cardine del suo sviluppo industriale per il reperimento delle risorse necessarie alla sua industria, sta incontrando, nel continente nero, grosse difficoltà di relazione con il mondo del lavoro africano. Gli episodi di violenza ai danni dei funzionari cinesi, da parte della manodopera locale, stanno diventando troppo frequenti e segnalano un diffuso stato di malessere. Pechino ha scelto di applicare la stessa metodologia delle condizioni di lavoro che vige in patria: orari massacranti, nessuna tutela, assenza di diritti sindacali e paghe eccessivamente basse. La condizione di necessità delle popolazioni africane, coinvolte fin dall'inizio nei progetti cinesi per il basso costo del lavoro, è stato un fattore calmierante soltanto per i primi tempi, ma l'inasprirsi delle condizioni di lavoro e la mancata applicazione di leggi relative alla regolamentazione della retribuzione più favorevole per i lavoratori, come per esempio accaduto nello Zambia, a generato sentimenti che sfiorano l'aperta ostilità verso la Cina. Del resto, pur con contributi ingenti per gli stati africani, la percezione, che pare comune nei paesi africani, è che Pechino dia meno del dovuto, cioè abbia spuntato contratti nettamente sbilanciati a suo favore, per lo sfruttamento dei giacimenti delle materie prime africane. Questo punto, che riguarda la percezione negativa delle popolazioni locali, è centrale nel sentimento di rivalsa contro Pechino, che viene ormai avvertita come una presenza neocolonialista. Questo fatto potrebbe rappresentare una anticipazione del futuro, che potrebbe verificarsi, seppure in altre forme, anche in paesi non appartenenti ne al terzo e ne al quarto mondo. Sopratutto quello che preoccupa è l'applicazione di un sistema di relazioni industriali totalmente stravolto, dove vige la cancellazione pressochè totale dei diritti sindacali, della sicurezza degli ambienti di lavoro e della tutela stessa dell'occupazione, il tutto, poi aggravato da una necessità endemica della struttura industriale cinese, di avere un costo particolarmente basso del fattore lavoro. Ma quello che accade in Africa è un sintomo che aggiunge profonda instabilità ad un continente in perenne fase di trasformazione, dove le esigenze di modernità, si scontrano con problemi storici non ancora risolti. Passata la fase del post colonialismo, che ha dato vita a numerose guerre, anche su base etnica, il continente africano, seppure con ancora alcuni importanti focolai di guerra presenti, inizia ad avere uno sviluppo dove si segnalano alcune aree con indici di crescita sufficienti a superare lo stato di povertà. Certo questo non vale ancora per le aree rurali, soggette ancora ad una coltivazione che non ha ancora abbandonato i metodi tradizionali, troppo soggetti alla metereologia; ma per le aree urbane cresciute a ridosso dei grandi giacimenti di materie prime, insieme con la crescita economica si è venuta a formare una coscienza dei diritti, supportata anche dallo sviluppo delle comunicazioni. L'approccio di Pechino è stato quello di non comprendere la maturazione dei lavoratori africani, trattandoli ad un livello di poco superiore della schiavitù dei secoli passati ed anzi, in alcuni casi in maniera coincidente. Del resto per cambiare questo atteggiamento non bastano gli ingenti stanziamenti sotto forma di prestito, che la Cina elargisce in modo interessato agli stati africani, l'orgoglio di chi credeva essersi affrancato da una sottomissione non ne ammette una nuova. L'atteggiamento cinese è di autoassoluzione, fedeli alla linea tenuta in politica estera, i cinesi inviati a dirigere i lavoratori africani affermano di essere sul suolo del continente nero soltanto per lavorare, senza immischiarsi nei casi di politica interna, classificando, così, gli atti di violenza a loro danno, soltanto come problemi legati a condizioni sindacali di cui non sarebbero responsabili. In realtà così non è, i contenziosi per gli orari ed i salari con la dirigenza degli impianti cinesi, che spesso non tengono conto proprio delle direttive degli stati dove sono localizzati gli impianti, testimoniano come quella cinese sia una volontà precisamente perseguita. Il problema, poi in ottica mondiale, è ancora più ampio, perchè fa parte di quella valutazione sulla concorrenza che Pechino ha stravolto, imponendo costi del lavoro troppo bassi per i suoi prodotti e l'assenza di regole che condizionano il mercato produttivo occidentale. Ciò ha determinato, si tratta di storia nota, un progressivo abbassamento delle condizioni del lavoro salariato a livello mondiale. Ecco perchè l'occidente deve prestare attenzione a quello che succede nei rapporti tra Cina ed Africa: è necessario che i paesi occidentali si inseriscano nei rapporti produttivi con i paesi africani, portando regole certe, salari adeguati e giusta remunerazione per gli stati di cui si sfruttano le risorse, per bloccare l'avanzata cinese che sta conducendo il mondo verso una deregolamentazione selvaggia del lavoro. L'Africa deve essere un punto di partenza per rovesciare questa tendenza ed affermare i diritti, ma ciò deve essere perseguito dagli stati, perchè anche le aziende occidentali guardano sempre con maggiore interesse ai metodi cinesi.
lunedì 6 agosto 2012
Gli sforzi USA per la transizione siriana
Washington aumenta l'attenzione sulla Siria e sul dopo Assad, ormai dato per scontato. Infatti il lavoro congiunto di Pentagono e Dipartimento di Stato verte sulle modalità della gestione derivante dal vuoto di potere, da diversi punti di vista: umanitario, economico e militare. La prima emergenza è costituita dalla grave situazione umanitaria, cui si cerca di fare fronte con massicci invii di aiuti, sia medici che alimentari, destinati ad alleviare la difficile situazione della popolazione civile. Con la caduta di Assad, gli Stati Uniti stanno approntando l'abolizione delle sanzioni economiche, in modo da permettere un afflusso ancora maggiore di aiuti, provenienti non solo dagli USA e consentire anche una ripresa delle attività economiche più veloce possibile, tramite l'arrivo di investimenti. Molto temuta è la probabile spirale di violenza che potrebbe innescarsi contro le forze leali al regime e responsabili dei tanti atti efferati contro la popolazione, in questo senso l'azione di Hillary Clinton mira a convincere le forze di opposizione a non abbandonarsi ad un clima di vendetta che avrebbe come conseguenza l'accentuazione della tanto temuta situazione del vuoto di potere, che potrebbe aprire scenari particolarmente pericolosi per la presenza, tra le fila dell'opposizione, di aderenti a movimenti integralisti islamici. Gli USA hanno bene in mente la lezione imparata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq, dove la dissoluzione completa dell'apparato di potere, creò il caos più totale nel paese. In questa ottica non è da escludere che dietro le tante diserzioni di personaggi influenti del regime di Damasco, non vi sia proprio un piano predeterminato da Washington, per controllare il passaggio di potere, attraverso uomini chiave dell'amministrazione di Assad, che possono conoscere fin nei minimi dettagli l'organizzazione statale e possono essere accettati dall'opposizione per la loro diserzione prima della caduta del dittatore, che consente di assumere, così, il certificato di oppositore. Ma malgrado tutta questa pianificazione la Casa Bianca è consapevole di non potere avere il controllo, anche parziale della situazione, che presenta sviluppi imprevedibili perchè maturata in un contesto di forte violenza e fortemente diviso in fazioni settarie, tenute insieme, per adesso, soltanto dall'avversione per Assad. Infatti, malgrado la fase della caduta del dittatore sia ancora ritenuta problematica, ancorchè data per certa, nel senso che sicuramente accadrà, ma non si sa quando, gli USA ritengono che le difficoltà maggiori emergeranno proprio con la sconfitta ufficiale delle forze al potere. Particolare attenzione è rivolta al nutrito arsenale di armi chimiche, di cui la Siria è sempre stata una grande acquirente, il problema che tale arsenale non finisca in mano ad integralisti islamici, che potrebbe usarlo contro Israele, è stato al centro dell'elaborazione della strategia che prevederà l'impiego di squadre direttamente sul campo, del resto uomini della CIA sono già in stretta collaborazione con i ribelli, sicuramente con compiti di struzione e formazione in collaborazione con elementi analoghi di Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Un'altro aspetto è la coordinazione e la collaborazione con i governi amici della regione, Giordania, Israele e Turchia, per organizzare e gestire la pressione umanitaria, sempre più forte, da parte dei profughi che fuggono dai teatri di guerra. L'azione americana, che era sicuramente iniziata in modo ufficioso, già precedentemente, si è fatta più massiccia con l'aggravarsi della crisi siriana e con la permanenza dell'atteggiamento di Cina e Russia, che continuano a bloccare qualsiasi soluzione proveniente dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, rendendo vani, di fatto, ogni sforzo a livello sovranazionale.
venerdì 3 agosto 2012
La riforma dell'ONU è sempre più urgente
La situazione siriana, dopo avere causato la dimissioni di Annan, provoca una reazione in seno all'assemblea delle Nazioni Unite, che potrebbe avere conseguenze sull'organizzazione del Consiglio di Sicurezza. Il gruppo di nazioni arabe che ha presentato la risoluzione, che sarà votata nella giornata di oggi, per condannare l'uso dell'aviazione militare da parte di Damasco, che ha provocato il bombardamento delle posizioni dei ribelli, contiene, al suo interno, il rammarico per l'incapacità dimostrata dal Consiglio di Sicurezza di arrivare ad una sintesi che favorisse la transizione politica e, con essa, la pace nel paese. Sebbene la risoluzione, che probabilmente verrà adottata con la grande maggioranza dei voti dell'assemblea, non sia vincolante, implicitamente accusa il sistema di funzionamento dell'ONU, troppo rigido e bloccato dall'eccessivo potere degli stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza, che possono così condizionare, l'assemblea dove, al contrario, si dovrebbe esercitare la democrazia delle nazioni. Viceversa l'eccessivo potere nelle mani soltanto di alcuni stati, stravolge quello che è il senso profondo di una organizzazione che dovrebbe essere il governo del mondo. La questione non è nuova, recentemente già la Germania ha richiesto una profonda revisione di meccanismi,ormai farraginosi perchè elaborati in una fase storica ormai abbondantemente trascorsa. L'evoluzione profonda della società internazionale e la nascita di nuovi stati espressione dell'autodeterminazione dei popoli, che caratterizza l'attuale fase storica, sebbene ancora densa di fattori portatori di profonda instabilità, stride profondamente con un assetto pensato con la presenza di territori ancora sottoposti al regime coloniale. Del resto quello spirito è rimasto tuttora sullo sfondo del Consiglio di Sicurezza e gli stati colonialisti o neocolonialisti ne fanno abbondantemente uso per tutelare i propri interessi particolari. Se ciò è quasi scontato per Francia e Regno Unito, ma anche per gli USA e la Russia, protagonisti principali della stagione della guerra fredda, con tutto il corollario di influenze e dominazioni più o meno nascoste su stati formalmente autonomi, anche la Cina non sfugge a questa logica, in virtù di un neocolonialismo economico, che esercita sia sui paesi in via di sviluppo, sfruttandone proprio vantaggio le risorse, sia anche verso i paesi industrializzati in ragione di una disponibilità economica senza pari. Così il Consiglio di sicurezza, da luogo deputato alla risoluzione delle controversie tra gli stati, pensato sopratutto per evitare nuovi conflitti, si è ritrovato in mano ad un club ristretto che lo usa piegandolo alla propria ragion di stato. Il caso siriano è soltanto l'ultimo campanello d'allarme che avverte della necessità di una riforma che dovrebbe essere urgente, ma che non è ancora stata ne pianificata ne progettata. I tempi tecnici della burocrazia tra gli stati e gli sforzi diplomatici che occorreranno, rischiano di fare diventare obsoleta una istituzione che rappresenta l'unico sforzo teso a dare al mondo una forma di governo comune. Non è detto che prima o poi, gruppi di stati, stufi dell'immobilismo del Consiglio di sicurezza, escano dalle Nazioni Unite decretandone la diminuita importanza. Per evitare ciò è necessario che i membri permanenti rinuncino ai loro privilegi iniqui e si pongano le basi per una revisione il più possibile condivisa del funzionamento dell'ONU: mai come ora è necessario uno strumento del genere.
La dura lezione di Alba Dorata
Quello accaduto mercoledi ad Atene in piazza Syntagma costituisce un preoccupante segnale d'allarme per tutta l'Europa: la distribuzione di generi alimentari di prima necessità da parte del gruppo neonazista Alba Dorata, attraverso volontari interamente vestiti di nero, soltanto a persone che mostravano il loro documento di identità comprovante la cittadinanza greca. L'Unione Europea farebbe bene a non sottovalutare certe manifestazioni che sono tese soltanto a radicalizzare lo scontro sociale in atto e dividere i popoli europei. L'ostinazione con cui i governi continuano a punire, per colpe non loro, la parte più debole della popolazione, che è però diventata maggioranza numerica, di diversi paesi, non può che produrre frutti avvelenati, di cui la strage della Norvegia del 2011, rischia di essere stata soltanto un preambolo. La mancanza di una visione più allargata, che sappia penalizzare i veri responsabili della crisi economico finanziaria, è la deficienza più grande, che si registra a livello comunitario. La percezione è che si proceda a compartimenti stagni, senza un filo comune, che sappia considerare i legami tra sfacelo economico e sociale e le possibili derive che ne conseguiranno. Le tanti professioni di ottimismo non sono suffragate da risultati apprezzabili ed una politica inetta, lascia orfani milioni di persone, pronte a gettarsi tra le braccia del primo populista di passaggio, con effetti ancora peggiori degli attuali. Ma tant'è, la preoccupazione maggiore resta il freddo dato numerico del differenziale dei titoli di stato o l'indice di borsa, non ammettendo, che l'affannarsi a conseguire esclusivamente dati positivi, senza che questi determino una ricaduta concreta e, sopratutto veloce, negli strati sociali in sofferenza, genera distorsioni che possono trasformare mostri. Se la situazione greca è la punta dell'iceberg, va vista, però anche in chiave di possibile futuro analogo per altri stati. Le difficoltà materiali di paesi considerati un tempo ricchi come la Spagna, l'Italia, ma anche Portogallo ed Irlanda, mentre la stessa Francia accusa motivi di sofferenza, rappresentano il terreno fertile per la corruzione ed anche il disfacimento di quelle forme di stato, tutte facenti capo alla democrazia, che parevano ormai un dato di fatto. Viceversa, senza benessere collettivo e diffuso, la stessa democrazia è in pericolo, perchè contiene in se stessa gli strumenti che ne possono determinare la morte. Le pulsioni populiste e totalitarie con cui si muovono determinati gruppi e partiti, nati al di fuori del normale circuito dei partiti, perchè questi considerati giustamente corrotti, fanno leva sulle paure del popolo, che è anche corpo elettorale. Una manovra come quella di Alba Dorata, aberrante nella sua espressione, rappresenta però un insegnamento fondamentale della pratica politica che questi gruppi intendono portare avanti. Costringere i greci più poveri ad accettare una elemosina così poco caritatevole ed impiegare questa pratica come mezzo di lotta politica, sovverte ogni tipo di dialettica politica che si è presentata fino ad ora nel corso della storia. Erigere l'elemosina selettiva a pratica politica raggiunge un livello talmente indegno di fare propaganda politica, che, tranne la violenza, ogni limite appare superato. Tuttavia ad essere dietro l'angolo è proprio la violenza, con le possibili conseguenze di tali sistemi che non possono essere che all'inizio. La caccia allo straniero, individuato, chiaramente a torto, come responsabile della crisi, è una facile soluzione che si percorre periodicamente, poi si può passare a sindacati e circoli politici giudicati collusi con il potere che opera i tagli indiscriminati. Sarebbe bene che Bruxelles mettesse da subito in campo iniziative volte a mitigare lo squilibrio sociale anzichè pensare a salvare banche che hanno creato, con le loro perdite, voragini. Questo perchè senza esempi concreti, la situazione è destinata a peggiorare costantemente; con l'euro in pericolo, rischia anche il pieno sviluppo dell'unione politica, l'unico baluardo che, se usato correttamente, può permettere ai popoli europei livelli di vita dignitosi, in mercati che richiedono sempre maggiore grandezza per competere con i giganti mondiali. Occorre però inserire degli anticorpi in un organismo vulnerabile e debole come la UE, leggi certe che impediscano la vita a movimenti che si richiamano al nazismo ed al fascismo, sono sempre più necessari, forse perchè la distanza temporale dalla fine della seconda guerra mondiale, ampliandosi attenua il livello di attenzione necessario affinchè certi episodi della storia non si ripetano.
Kofi Annan lascia il mandato sulla Siria
L'abbandono di Kofi Annan, del mandato, ottenuto su incarico dell'ONU e della Lega Araba, di mediatore ufficiale per la crisi siriana non costituisce una sorpresa. Malgrado tutti gli sforzi e l'impegno profuso, l'ex segretario delle Nazioni Unite, non ha ottenuto risultati tangibili per fermare i massacri sul territorio della Siria ed il suo piano di pace non è riuscito a bloccare i combattimenti ed ha fallito politicamente non ottenendo risultati apprezzabili sopratutto sul piano della transizione al potere. Ad Annan vengono però anche imputati errori di valutazione, come la ricerca del coinvolgimento dell'Iran, paese troppo interessato alle sorti di Assad, che avrebbero in qualche modo raffreddato il coinvolgimento nei negoziati dei paesi occidentali. Il futuro della missione per la Siria prevede un ridimensionamento drastico, con l'abbandono dei 300 osservatori presenti sul territorio siriano, a causa delle condizioni di sempre maggiore pericolo per l'intensificarsi dei combattimenti; da missione di pace si dovrebbe trasformare, quindi, in missione esclusivamente politica, con un contingente molto ridimensionato di circa 30 persone, a cui capo dovrebbe essere designato il vice di Annan, Nasser al-Qidwa. Il lavoro di questa missione politica dovrebbe essere incentrato ancora sulla transizione politica, ma, date le condizioni del conflitto, le possibilità di riuscita paiono molto aleatorie. L'impressione è che sia le Nazioni Unite, che la Lega Araba, vogliano mantenere una presenza di facciata per non avallare completamente il fallimento della missione di pace di Annan, fortemente voluta dalle due organizzazioni sovranazionali. Del resto il livello dello scontro armato ha alterato ogni possibile soluzione pacifica della crisi, ed anche una via di uscita per Assad, come si era ipotizzato qualche tempo addietro, con un esilio dorato, magari in Russia, sembra una ipotesi ormai molto remota. Ma le dimissioni di Assad sono destinate ad alimentare anche nuove polemiche tra i fronti diplomatici opposti: i paesi occidentali, favorevoli ad una risoluzione ONU contro il regime siriano ed il blocco di Cina e Russia, che con il loro veto nella sede del Consiglio di sicurezza, quali membri permanenti, hanno bloccato qualsiasi iniziativa delle Nazioni Unite. Se gli USA non hanno mai creduto fino in fondo alle possibilità di riuscita di Annan, non si lasciano comunque sfuggire il fallimento della missione, incolpando Mosca e Pechino, per le loro posizioni caratterizzate dall'immobilità, che non hanno fatto altro che favorire la guerra civile nel paese siriano. Sebbene le rispettive intenzioni dei singoli paesi siano state mosse da esigenze particolari differenti, la mancanza di un indirizzo comune che affermasse la volontà di imporre una pace, anche non definitiva, ma da cui fare partire effettivi negoziati, è la vera ragione di avere vanificato gli sforzi di Annan, che partiva da presupposti slegati dagli interessi dei diversi soggetti che stanno ruotando intorno alla questione. Per l'ONU è ancora una volta il fallimento del suo ruolo, per il superamento stesso della sua organizzazione pensata appena dopo la fine della seconda guerra mondiale: un'era geologica fa, rispetto all'evoluzione dello scenario internazionale. Per le grandi potenze, invece, la mancata soluzione della crisi siriana, destinata, purtroppo ad una soluzione ancora lontana, significa la mancanza della capacità di flessibilità, che si concreta in rapporti diplomatici troppo statici su posizioni di immobilismo deleterio, che vogliono dire l'assenza della conoscenza delle tecniche della trattativa e del compromesso. Ciò determina uno stato di forte instabilità, che rischia di ripercuotersi in scenari ben più ampi del teatro siriano.
giovedì 2 agosto 2012
La CIA affianca i ribelli siriani
La notizia che il Presidente USA, Barack Obama, avrebbe firmato già dall'inizio dell'anno un ordine, che autorizza la CIA ha compiere operazioni segrete, contro il regime siriano di Assad, non risulta essere sorprendente. L'azione è simile a quella condotta contro Gheddafi e prevede il sostegno militare mediante operazioni dietro le linee e la fornitura di armi ai ribelli impegnati nella lotta armata, ormai degenerata a guerra civile. La scelta della Casa Bianca è maturata da subito quando si è intravista la possibilità di determinare la caduta del regime per sottrarre all'Iran l'alleato più importante in chiave anti israeliana. La notizia non è stata chiaramente confermata dall'amministrazione americana, che continua a sostenere di fornire esclusivamente aiuti umanitari alla popolazione, contro un regime che continua a violare sistematicamente i diritti umani. L'opposizione è sostenuta materialmente, attraverso il Dipartimento di Stato, con un fondo di 25 milioni di dollari, destinati all'acquisto di materiale, tuttavia esiste anche uno stanziamento di 64 milioni di dollari per l'assistenza da erogare attraverso l'ONU ed altre organizzazioni umanitarie, mentre già prima gli USA avevano impegnato 15 milioni di dollari per materiale medico ed attrezzature per le comunicazioni. Ma il livello degli aiuti, ufficialmente è stato sempre circoscritto alla pura fornitura di attrezzatura per alleviare la popolazione civile. Ma i sospetti che ciò non fosse del tutto vero, sono scattati fin da quando è stata accertata la partecipazione di miliziani, più verosimilmente militari, iraniani, impegnati direttamente fin dalle prime fasi delle proteste, nella repressione diretta dei manifestanti. L'impegno diretto degli Stati Uniti potrebbe essere una causa che ha bloccato la volontà israeliana di attaccare Teheran. Washington, con l'impegno diretto sul campo, potrebbe avere dimostrato a Tel Aviv l'effettiva volontà di impedire all'Iran di avvicinarsi troppo, attraverso il territorio siriano a quello israeliano, peraltro uno dei motivi che preoccupano di più il governo di Netanyahu della possibile evoluzione della crisi siriana. Gli USA stanno probabilmente agendo con l'appoggio delle potenze arabe sunnite, Arabia Saudita e Qatar, prime fra tutte, tradizionali alleati degli americani, impegnato sin dall'inizio del conflitto, sicuramente nella fornitura di armi alle forze in lotta contro il regime. Anche per questi paesi la conquista della nazione siriana, attraverso un governo amico, è diventato un obbligo in chiave anti iraniana, ma anche in ottica anti scita. Le minacce di Teheran, più o meno velate, alle potenze di matrice sunnita, tra cui quella di chiudere lo stretto di Hormuz, strangolando l'economia petrolifera, di questi paesi, hanno determinato l'evoluzione di un sentimento anti iraniano, già abbondantemente presente. Anche perchè Teheran a cercato più volte di sobillare le varie minoranze sciite presenti. Per gli USA diventa quindi centrale la caduta del governo di Assad, che significa stringere l'Iran nell'angolo e rovesciare i rapporti di forza nel paese siriano, che poteva costituire la piattaforma per i missili degli ayatollah. A questo punto occorre valutare la reazione che la Russia vorrà opporre ad una situazione, che peraltro sarà stata ben conosciuta al Cremlino. Tuttavia la situazione pare ormai irreversibile, è opinione crescente che la caduta di Assad sia ormai un dato di fatto, il problema, semmai, è sulla tempistica di questa sconfitta, che se non avverrà a breve rischia di lasciare il paese nel disastro più assoluto. Sul futuro è poi difficile ipotizzare uno scenario certo, anche se l'impegno americano sul campo, presuppone l'instaurazione di un governo democraticamente eletto vicino, se non proprio a Washington, almeno ai suoi alleati sunniti. Si verrebbe così a concretizzarsi l'effettivo controllo di un territorio ritenuto strategico per evitare il conflitto tra Israele ed Iran, che preoccupa tutti i governi della regione, attraverso un costante controllo sullo stato iraniano, esplicato anche con una pressione militare direttamente alla frontiera con Teheran.
mercoledì 1 agosto 2012
Problemi di politica estera ed interna per Israele
Con il processo di pace con l'Autorità Palestinese praticamente fermo, Israele, oltre ai gravi problemi di politica estera, attraversa un pessimo periodo anche nella politica interna. Ma le due cose sono connesse, infatti mentre gran parte delle cancellerie mondiali condanna l'espansione degli insediamenti in Cisgiordania, il capitolo di spesa nel bilancio statale relativo a questa vera e propria annessione territoriale è salito del 38%, in palese violazione della condizione necessaria, posta dai palestinesi per sedersi al tavolo della pace. Alla fine la mossa araba non è stata producente, grazie all'immobilismo internazionale, che non è andato oltre le dichiarazioni di facciata e ciò ha permesso al governo di Netanyahu di agire nella totale impunità, portando avanti senza intoppi il suo programma di espansione territoriale. I dati dell'Ufficio Centrale di Statistica israeliano parlano chiaro, dal suo arrivo al governo, nel 2009, l'attuale primo ministro ha continuato ad incrementare la spesa pubblica per gli insediamenti, rivelando una vera e propria strategia pianificata a tavolino, per sottrarre il legittimo terreno dei palestinesi. L'impiego dei pesanti finanziamenti, 172 milioni di euro nel 2010 e 224 milioni nel 2011, è stato indirizzato nella costruzione di infrastrutture, spesso a danno dei palestinesi, ai quali viene sottratta anche l'acqua, trasporti ed istruzione e non comprende le spese militari coperte dal segreto di stato. Le tanto proclamate demolizioni, invece, hanno riguardato soltanto 8.000 coloni presenti nella striscia di Gaza, probabilmente perchè più difficili da proteggere. Le organizzazioni dei coloni, come Yesha, che rappresenta i coloni insediati nella West Bank, contestano i dati di spesa presentati in maniera complessiva, perchè, facendo un calcolo pro capite gli investimenti sarebbero addirittura diminuiti. Ma, oltre a non considerare l'evidente illegittimità dell'occupazione di territorio altrui, l'organizzazione esegue il calcolo su circa 350.000 coloni presenti in Cisgiordania, mentre non vengono conteggiati nel calcolo i 250.000 presenti a Gerusalemme Est, anch'essi presenti in maniera abusiva su porzioni di territorio non appartenenti allo stao israeliano. La cifra della popolazione degli insediamenti sta crescendo costantemente dal 1967, dato che evidenzia come Netanyahu non sia che solamente l'ultimo responsabile di una volontà nazionale preordinata ed in definitiva condivisa dalla gran parte dell'opinione pubblica del paese. Tuttavia la pubblicità ed il rilievo fornito a questi dati, dopo il programma di tagli e l'aumento dell'IVA elaborato dal governo, hanno scatenato un'ondata di proteste sociali paragonabile per intensità a quelle della scorsa estate. Il malcontento che sta montando nella società israeliana, che patisce la crisi economica come il resto del mondo, è rivolto sopratutto contro lo squilibrio di spesa che il governo destina alle spese militari e per i territori, che vengono percepiti come capitoli di bilancio che godono di una maggiore attenzione rispetto allo stato sociale ed al sostegno alle attività produttive. Il rischio per il paese è di andare incontro ad una spaccatura sempre più netta nella società israeliana,divisa tra laici e religiosi, fautori della pace con i palestinesi e teorici dell'espansionismo integrale; in un momento nel quale, invece, l'unità dello stato e del popolo è particolarmente necessaria per affrontare i difficili tempi futuri, sui quali incombe sempre la minaccia dell'evoluzione della questione iraniana.
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