Politica Internazionale

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martedì 18 settembre 2012

Quali relazioni tra occidente e mondo arabo?

Le esplosioni di violenza in seguito al film su Maometto, portano a riflessioni sulla conciliabilità tra mondo arabo e mondo occidentale. Divisi profondamente da modi di vita differenti e con rapporti segnati da conflittualità persistenti, per i due emisferi agli antipodi si pensava ad un possibile avvicinamento, su piano paritario e non più di subalternità, grazie all'avvento delle primavere arabe, che potevano favorire un terreno d'incontro grazie all'introduzione dei sistemi democratici. Questa convinzione, che ha portato i governi occidentali ad impegnarsi in prima persona, con uomini e mezzi, nei teatri della protesta, si è rivelata errata. La radicalizzazione dei movimenti religiosi nei tessuti sociali e la presenza di minoranze fortemente ideologizzate, hanno vanificato la speranza, che grazie all'introduzione di libere elezioni, tra mondo arabo ed occidente, i rapporti avessero uno sviluppo su basi nuove. In realtà la situazione delle relazioni internazionali, se è possibile, è nettamente peggiorata. Se i sistemi dittatoriali sconfitti, riuscivano ad incanalare la rabbia verso gli occidentali, alimentandola o soffocandola, secondo l'interesse del momento, ora si assiste ad uno stato permanente di avversione, che sta sempre più sfociando in episodi violenti, in spregio alle norme più elementari del diritto internazionale. La domanda più importante riguarda le evoluzioni possibili della situazione, che comprende una gamma di ipotesi che va dall'equilibrio instabile alla vera e propria guerra di religione. Se è un fatto che la maggior parte dei componenti dei popoli arabi ambiscono ad una vita migliore rispetto a quella che facevano sotto le dittature, è altrettanto vero che la maggioranza, nel segreto dell'urna ha optato per partiti o gruppi che si rifanno chiaramente ad indirizzi confessionali più o meno accentuati, rispetto ai partiti laici usciti sconfitti dalle elezioni. Questo non vuole dire che tutti i votanti dei partiti islamici siano degli estremisti, ma sicuramente guardano con maggiore simpatia alle tendenze dei nuovi governi. Queste tendenze hanno instaurato, in forme più o meno accentuate, leggi molto vicine ai precetti islamici, che nelle forme più esasperate poco hanno a che fare con la democrazia, nella cui affermazione nel mondo arabo si sperava molto. L'errore di fondo è però stato, concepire che l'unica democrazia possibile fosse quella di tipo occidentale, mentre i risultati delle urne, hanno fatto emergere un fatto nuovo, capace di conciliare, almeno nella forma, le regole democratiche, con l'andata al potere dei partiti di indirizzo islamico. In realtà ciò non rappresenta una vera e propria novità, già in paesi come l'Iran si erano verificati fenomeni analoghi, ma ciò non è stato ritenuto rilevante, erroneamente, per l'andamento delle primavere arabe. Vista da occidente la situazione delle popolazioni, specialmente delle donne, non appare migliorata, ma è un'ottica relativa che funziona con i valori che non sono dei popoli arabi. Quello che conta per la pace mondiale è che alle tante situazioni di pericolosità si aggiungono, ma anche si sovrappongono, i rapporti tra occidente e mondo arabo, che sono ora contraddistinti da una spirale di continuo peggioramento. Ormai ogni passo o azione che si vuole intraprendere da parte degli occidentali può essere letta ed interpretata in maniera totalmente distorta, a vantaggio del crescente peso nella società che rivestono i gruppi radicali, che hanno il potere di indirizzare l'opinione pubblica attraverso la penetrazione sociale e le facili proteste contro avversari comuni, presentati come nemici dell'Islam. Se per gli USA di Obama questa rappresentazione è senz'altro una forzatura, dato l'appoggio materiale concesso ai ribelli delle dimostrazioni dello scorso inverno, ed anche per l'incessante opera di mediazione, che la Casa Bianca ha operato nel mondo arabo, per Israele essere identificato come nemico islamico numero uno è più comprensibile. L'atteggiamento iniquo tenuto dal governo in carica, nella questione degli insediamenti, le continue vessazioni al popolo palestinese e per ultimo, pur con qualche ragione, la questione del possibile attacco all'Iran, ne fanno il bersaglio preferito degli integralisti. Va detto che il comportamento di Tel Aviv non aiuta gli USA, nell'azione di convincimento dei governi arabi verso una migliore disposizione verso Washington e ciò costituisce un ulteriore motivo di attrito tra i due stati, ma gli Stati Uniti non possono abbandonare a se stesso Israele, anche se questo è protagonista di una politica, sia interna, che estera, dissennata. In più il malumore islamico si allarga verso altri paesi occidentali, come dimostrano sempre più le manifestazioni che mettono in pericolo le loro ambasciate, sottoposte spesso a veri e propri stati
d'assedio, in numerosi stati arabi. Se la situazione dovesse, quindi, degenerare, il pericolo di una spaccatura difficilmente sanabile è molto concreto e potrebbe rappresentare l'inizio di un conflitto tra nord e sud del mondo. Per evitare questa possibilità occorre dosare sapientemente le forze di dissuasione materiale, come l'impiego delle armi, e quelle diplomatiche, che passano sia dai canali classici delle relazioni internazionali tra governi ed il finanziamento di correnti più moderate capaci di imporsi sui gruppi estremisti. In ogni caso un processo non breve e difficile, che deve ricomprendere la revisione della valutazione degli eventi futuri in maniera da consentire una migliore capacità di previsione.

giovedì 13 settembre 2012

Gli attacchi alle ambasciate USA rientrano in un piano più ampio?

Le vicende che hanno coinvolto, in modo tragico gli USA, in Libia d in Egitto, aprono prospettive inquietanti sugli equilibri della sponda sud del Mediterraneo. Aldilà dell'opportunità di fare e trasmettere un film che andava ad offendere in modo inequivocabile la sensibilità, sempre più crescente, delle popolazioni arabe, che si sono espresse in maniera compatta per partiti vicino all'islamismo, esprimendo, quindi una determinata scelta sopratutto di vita, occorre considerare quelli che sono stati presentati, inizialmente come aspetti accessori della vicenda, ma che, invece, ne costituiscono gli elementi scatenanti. Fatta salva la stupidità del reverendo che brucia i corani per inutile istigazione, ma che potrebbe avere un ruolo di provocazione nell'ambito di un disegno con chiare finalità nella contesa presidenziale, tutto a favore dello sfidante repubblicano, occorre analizzare, a fronte dei risultati drammatici, la scarsa preparazione politica dell'amministrazione americana, in teatri che non hanno seguito l'evoluzione attesa a seguito delle primavere arabe. E' risultato evidente che l'appoggio fornito nelle ribellioni contro Gheddafi e Mubarak, non ha permesso agli USA di accreditarsi in modo sufficiente ne presso i governi in carica ne presso la popolazione. Washington è ancora vista come la potenza imperialista nemica dell'Islam, malgrado gli sforzi e gli aiuti concessi. Ma oltre questa condizione negativa, non vi è stata la percezione della capacità dei gruppi terroristici, tra i quali sicuramente Al Qaeda, di tramare nell'ombra in virtù di un mimetismo sicuramente concesso da parte della società civile. E' triste affermare che in questo momento gli USA sono più vulnerabili, sia in Libia che in Egitto, rispetto a quando al comando delle due nazioni vi erano i dittatori deposti. Per riflesso questa condizione si pone anche sugli alleati americani, che sono dall'altra parte del mare Mediterraneo e non è un caso che il fenomeno dei clandestini sia ripreso in questi giorni in dosi massicce, vera e propria pratica id pressione e di ricatto già usata dai governanti deposti. Quello che si pone è un problema di relazioni internazionali tra due mondi, che sembrano ormai inconciliabili e che, però, sono divisi da un tratto di mare neanche troppo ampio. L'estremismo islamico, cui dietro è impossibile non vedere la mano iraniana, pare avere gioco troppo facile nel riscaldare gli animi e gli stessi governanti al potere adottano una tattica ambigua, che non fa che innalzare ulteriormente la temperatura delle relazioni diplomatiche. Questi fatti avvengono in un momento troppo delicato per la pace mondiale, la questione iraniana e quella israeliana sono costantemente vicino al punto di rottura e le imminenti elezioni statunitensi non possono che obbligare Obama ad una risposta, che, seppure concordata con il governo libico, autorizzerà gli estremisti più radicali a farla leggere al resto del popolo come una invasione. Del resto Obama era proprio ciò che temeva di più e ragion per cui aveva tenuto un atteggiamento di basso profilo durante le primavere arabe. Alla fine è fin troppo facile sospettare di potenze straniere dietro questi fatti, quale migliore occasione per mettere in difficoltà un Presidente che ha cercato di risolvere i problemi con il dialogo; si prenda la questione iraniana, con l'annesso corollario israeliano, a nessuno dei due piace l'atteggiamento di Obama perchè gli costringe ad una inazione snervante, in questo caso un presidente USA, comunque volente o nolente fulcro delle trattative, messo alle strette, può convenire ad entrambi per avere le mani più libere. Mai come in questo momento ad Obama occorrono nervi d'acciaio e lungimiranza estrema, anche nel poco tempo che ha a disposzione.

martedì 11 settembre 2012

L’incremento della manifattura come soluzione all’uscita della crisi

La dichiarazione dell’ex presidente del consiglio italiano, Romano Prodi, che ha auspicato un incremento della manifattura a livello europeo, per combattere la disoccupazione e, contestualmente, il rilancio dell’economia. La tesi di Prodi parte dall’assunto che il costo del lavoro con le aree dove la manodopera è più conveniente si è ridotto in maniera considerevole. Se questo è vero è stato il meccanismo combinato che ha determinato un abbassamento dei salari verso il basso nelle zone dove il costo del lavoro era più elevato. Ciò significa un impoverimento di tanti addetti specializzati, che si è completato con l’aggiunta di perdita di professionalità legata alla delocalizzazione del lavoro. Ma, a parte queste considerazioni, la proposta di Prodi non si può non considerare, la saturazione del terziario, sopratutto di quello avanzato, pone degli interrogativi sulla distribuzione del lavoro nelle aree occidentali, che non possono non comprendere una riorganizzazione del tessuto produttivo che abbia al centro la massima diffusione possibile dei posti di lavoro. Ma la sola produzione non basta se non vi è una adeguata commercializzazione, a parte un mercato interno dei cosidetti paesi ricchi, che è tutto da riorganizzare, stimolare e rilanciare, vi sono i mercati emergenti, che per vastità e ricchezza, hanno costituito il traino per la crescita mondiale; questo è stato possibile per il passaggio da una economia arretrata ad una economia avanzata, basata, però, proprio sull’uso spinto della manifattura. Incrementare quindi la produzione di beni, più che di servizi, in una parte del mondo significa diminuirla da un’altra, a meno che non si riesca a trovare un equilibrio, peraltro fortemente instabile, su ui fondare il riassetto. Da una parte l’incremento occupazionale in occidente è funzionale anche ai paesi emergenti, che hanno proprio nelle nazioni più ricche, lo sbocco maggiore per le loro merci, ma dall’altra parte la concorrenza su questi mercati è la maggiore fonte di preoccupazione. La teoria che si compete con i cinesi con produzioni di livello elevato è vera soltanto in parte, l’indotto del lusso, pur florido, non può garantire una occupazione elevata perchè il mercato è limitato, quindi l’incremento manifatturiero di cui parla Prodi deve avvenire su livelli di prodotti inferiori, perchè consentono una penetrazione maggiore del mercato. Ma questa parte di produzione è stata pressochè abbandonata dagli industriali che hanno optato per una politica generalizzata di delocalizzazione, determinando la distruzione di un tessuto produttivo e del sapere ad esso connesso, che ora è completamente da ricostruire. Si aggiunga che tale necessità arriva in un momento storico che gli stati non possono supportare a pieno, perchè sono impegnati a salvare la finanza, che essi vedono ancora come motore della crescita, dimenticando le tante speculazioni, che hanno portato all’arricchimento di pochi ed all’impoverimento generale. La strada indicata da Prodi è una soluzione che per essere attuata ha bisogno di molta europa e di imprenditori illuminati che sappiano giocare sul medio e lungo periodo, non amministratori delegati incapaci di innovare, che scaricano la loro inettitudine sugli operai delle loro aziende, accanendosi sul falso problema del costo del lavoro. Eppure nonostante questi ostacoli al recupero della manifattura non vi è alternativa, ed il primo passo spetta proprio alle istituzioni statali che devono abbassare la pesante tassazione che grava sul costo del lavoro, senza di ciò e senza una giustizia civile più snella, fare industria in occidente sarà ancora difficile.

venerdì 7 settembre 2012

Per la sua rielezione, Obama si presenta senza false promesse

Dunque Obama ha accettato, come era scontato, di essere il candidato democratico per le prossime presidenziali americane. Il suo discorso conclusivo alla convention del partito è stato, però, di tutt'altro tono rispetto a quello di quattro anni prima, quando l'entusiasmo ne era il fattore distintivo. Il tono quasi sommesso è giustificato dall'andamento dell'economia americana, segnata da una contrazione considerevole a causa di una crisi che, proprio secondo il presidente uscente, durerà ancora a lungo. Proprio questa ammissione consente ad Obama di esaltare la sua sincerità come qualità morale, che va aldilà delle roboanti promesse fatte dallo sfidante Romney. Tuttavia la scelta è anche obbligata, dopo quattro anni difficili, per Obama non vi era altra soluzione che presentarsi a capo chino e senza false promesse, che avrebbero ottenuto soltanto un effetto negativo. Infatti, se da un lato l'elettore medio americano, sopratutto quello repubblicano, vuole promesse che gli consentano di sognare, vi è stata nell'ultimo periodo, forse proprio a causa della congiuntura negativa, una crescita che ha sviluppato una nuova consapevolezza nei cittadini, che può permettere ai candidati un approccio più responsabile. Ciò non ha impedito ad Obama di definire il risultato che uscirà dalle urne uno spartiacque per la società statunitense; la definizione è sostanzialmente azzeccata: è veritiero, infatti, che una vittoria dei repubblicani azzererebbe le conquiste sociali permesse dalle leggi di Obama, prima fra tutte quella della diffusione dell'assistenza medica, oltre ad una tassazione maggiore per la classe media con il conseguente impoverimento della maggior parte della popolazione. Si tratta di due visioni opposte, dove però quella repubblicana si basa ancora su teoremi liberisti che ormai hanno fatto il loro tempo. Proprio per evitare questo ritorno a politiche fallimentari, Obama chiede fiducia per completare il proprio lavoro e propone un programma che si basa sulla creazione di un milione di posti di lavoro nella produzione manifatturiera, basando questo intento nella previsione di aumentare le esportazioni, risparmiare tramite il dimezzamento delle importazioni petrolifere, puntare sulla diffusione dell'istruzione, grazie ad un abbassamento sostanziale del costo delle tasse universitarie, innalzare il numero degli insegnanti di materie scientifiche e sopratutto ridurre il deficit pubblico di più di 4.000 miliardi di dollari nell'arco di 10 anni. Rispetto a quattro anni fa il programma è meno ambizioso, ma nelle condizioni attuali del paese resta un piano fattibile ma con grosse difficoltà. Occorrerà stimolare la produzione e sviluppare un efficace sistema di contrasto del commercio cinese, con cui l'intenzione di aumentare le esportazioni va necessariamente a scontrarsi, convincere gli ambientalisti della necessità di intensificare la produzione di greggio locale, convincere la maggioranza, se le cose non cambieranno, repubblicana del congresso ad investire ancora più denaro pubblico per finanziare l'istruzione. Insomma se il programma di Obama può essere considerato positivo, occorre valutare gli ostacoli cui andrà incontro per la sua effettiva realizzazione. Come non sarà semplicissimo mettere in atto la volontà di tassare maggiormente i redditi superiori a 250.000 dollari, provvedimento che è il perno della riforma fiscale assieme alla semplificazione tributaria. In questo quadro i successi in politica estera, che pure ci sono stati anche in maniera sostanziosa, passano praticamente in secondo piano, vera e propria inversione di tendenza nell'elettorato americano, peraltro già in atto da tempo, proprio per la cresciuta importanza dei problemi interni. Alla fine Obama convince i delegati democratici, tra i quali cresce il peso dei latino americani, proprio perchè ha saputo presentare la realtà delle cose, il problema, ora sarà se lo stesso metodo varrà anche con i singoli elettori, non ingabbiati dalle logiche di partito; mentre il vantaggio su Romney pare ridursi, per Obama sembra necessario un ulteriore scatto per convincere appieno la maggioranza dell'elettorato.

giovedì 6 settembre 2012

Il piano di Cameron per risollevare l'economia inglese

La difficile situazione sociale inglese, impone all'esecutivo di Londra l'elaborazione di strategie che possano contenere il disagio ed evitare pericolose manifestazioni di protesta, poi degenerate, come nel passato. La criticità del mercato immobiliare, che sfiora la tragedia per l'impossibilità per molte persone di avere un alloggio decente, ha contribuito ad alimentare il fenomeno degli squatter, che con le occupazioni abusive di edifici sfitti, costituivano ormai una costante nel panorama sociale britannico. La recente disposizione che vieta questa pratica, rischia di andare ad ingrossare l'esercito di chi non ha più nulla da perdere ed innescare un autunno denso di incognite. Cameron individua nella crisi del settore immobiliare anche una opportunità di crescita economica mediante lo stimolo delle nuove costruzioni ed a tal fine ha presentato un piano che prevede la costruzione di 70.000 nuove abitazioni, capace di coinvolgere fino a 140.000 nuovi posti di lavoro. Le cifre stanziate sono consistenti: 50.000 milioni di euro per la costruzione delle infrastrutture e 12.500 milioni di euro per l'edificazione delle nuove case. Associate a questi stanziamenti, anche le norme di snellimento amministrativo per i costruttori di edifici popolari; inoltre, nel piano, si cercherà di recuperare un gran numero di alloggi sfitti. La misura, con i suoi importanti risvolti sociali, politicamente sembra adatta anche a fare dimenticare la recente proposta del leader liberale, che chiedeva l'introduzione della patrimoniale per abbassare la tassazione. Al forte dibattito che ne è seguito, che è stato fonte di particolari contrasti nella coalizione di governo, si è risposto con la soluzione dell'emergenza abitativa, che non è certo arrivata ora. I tempi sono certamente sospetti, il governo in carica ed il suo leader Cameron, non godono di elevati consensi e la coalizione che regge l'esecutivo sembra sempre meno salda, quale migliore momento per estrarre una soluzione populista, che accontenti, cioè, anche quella parte di elettorato conservatore presente nei ceti bassi, per calmare la situazione? Infatti la lettura del piano abitativo si presta a diversi livelli: se è vero che vi è questa emergenza nel Regno Unito, è anche vero che questa situazione è cristallizzata da tempo e Cameron non è arrivato al governo da poco; le facilitazioni ai costruttori possono rappresentare una occasione per speculazioni edilizie, che possono essere mascherate dallo stato di necessità; l'immissione di tale quantità di liquido a favore delle imprese costruttrici rappresenta un indubbio favore a quel settore produttivo. Resta la volontà di creare nuovi posti di lavoro, che è più una necessità, per calmierare un mercato della occupazione reso asfittico dalla crisi. Aldilà delle buone intenzioni e delle reali necessità del paese, Cameron pare tentare un aggiustamento di rotta del suo non magnifico mandato, imbarcandosi in una impresa in parte populista ed in parte affaristica, che se non giungerà a conclusione si rivelerà, oltre ad un fallimento, un tentativo costoso di impedire la redistribuzione del reddito proposta dai suoi alleati, compiendo la strenua difesa della tanta ricchezza nelle mani di pochi, restando così ancora attaccato alla fallace convinzione che favorire i ricchi rappresenta il maggiore stimolo dell'economia.


mercoledì 5 settembre 2012

Aiuti economici per l'Egitto

Il nuovo Presidente egiziano vuole ampliare le relazioni diplomatiche del suo paese, che Mubarak limitava, principalmente all'alleanza americana. La recessione economica, oltre ad una scarsa ampiezza delle relazioni diplomatiche, ereditata dal precedente regime, obbligano l'Egitto a muoversi in più direzioni, cambiando lo stato precedente. Dopo avere partecipato alla riunione dei paesi non allineati, con un intervento di una certa personalità, il Presidente egiziano intende percorrere la via orientale, allacciando rapporti con Pechino. La Cina ha già assicurato un prestito di 200 milioni di dollari e contratti nei settori chiave dell'agricoltura e delle telecomunicazioni. Per gli Stati Uniti, tradizionali alleati del paese, lo sviluppo delle relazioni con la Cina desta profonda inquietudine, prechè viene temuta la penetrazione di Pechino in un paese considerato strategico, per il mantenimento della pace nel medio oriente. Il primo effetto è la cancellazione di un miliardo di dollari dal debito che l'Egitto ha con gli USA, che ammontava ad un totale di tre miliardi; inoltre, Washington, ha sostenuto la concessione del prestito di 4, 8 miliardi di dollari concessi da parte del Fondo monetario internazionale. Gli americani cercano così di recuperare il tempo perduto nella transizione trascorsa dalla caduta di Mubarak, che si è conclusa con la vittoria elettorale dei partiti islamici. La Casa Bianca avrebbe preferito una vittoria del candidato dei militari, con il conseguente mantenimento del potere delle forze armate, percepite come più affini allo stato americano e sopratutto scevre da influenze religiose. Durante la rivolta contro Mubarak gli USA hanno mantenuto un basso profilo, ma non hanno impedito la fine politica del regime di Mubarak, nonostante questi fosse un alleato fedele, per favorire una transizione democratica, che, nelle previsioni del dipartimento di stato, doveva concludersi con l'affermazione delle forze laiche. Lo smarrimento dell'amministrazione americana seguito alla vittoria dei partiti islamici, ha determinato una interruzione del rapporto con i nuovi governanti egiziani, che ha creato l'opportunità per altri stati di stringere accordi con Il Cairo. Passato però, il momento di smarrimento, Washington ha realizzato che occorreva rimanere gli interlocutori privilegiati del paese egiziano per ovvi motivi geopolitici. D'altra parte i motivi scatenanti della rivolta in Egitto, più che la richiesta dei diritti civili e politici, che pure hanno avuto una parte rilevante, erano di ordine economico: una situazione ormai insostenibile, con una alta disoccupazione ha fatto da detonatore alla rivolta. Il nuovo presidente egiziano ha compreso, che passata l'euforia per la conquista della democrazia, era necessario, per il mantenimento della pace sociale, cercare investimenti capaci di creare lavoro ed anche gli Stati Uniti hanno capito che soltanto un livello di benessere diffuso può impedire alla popolazione, specialmente ai giovani, di entrare nelle fila dell'estremismo islamico. Cambieranno così destinazione i sostanziosi finanziamenti che Washington inviava per l'acquisto di armi per l'esercito egiziano e saranno impiegati come investimenti per sviluppare infrastrutture ed industrie del paese nord africano. Ma l'Egitto si muove anche verso Arabia Saudita e Qatar, che hanno annunciato investimenti per tre miliardi di dollari. Tutta questa massa di denaro, che serve a riorganizzare il paese e sollevarlo da una situazione di povertà, prova che l'Egitto ricopre, grazie alla sua posizione, una importanza che fa da catalizzatore degli aiuti e può trasformarlo in un soggetto protagonista del medio oriente, capace di influenzare autonomamente gli equilibri regionali, una volta raggiunto l'assestamento sia economico che sociale.

Nei mari orientali sarà in discussione la libertà di navigazione?

La questione della navigabilità dei mari intorno alla Cina resta prepotentemente di attualità. L'argomento risulta essere sempre più centrale ed al centro di trattative e movimenti diplomatici, che impegnano in prima persona i massimi vertici delle maggiori potenze: Cina ed USA. Le centralità strategiche del Mare Cinese Orientale, del Mare Cinese Meridionale, del Mar Giallo e del Mare del Giappone, rappresentano una rete fondamentale per il passaggio delle merci che giustifica tale attenzione, sopratutto in relazione alle sempre crescenti dispute che si stanno sviluppando per il possesso di gruppi di isole presenti nei diversi mari, per lo più disabitate, ma decisive in quanto ad importanza logistica. Questi contrasti, oltre a svilupparsi tra potenze non alleate, se non praticamente nemiche, si sono evolute anche tra nazioni abitualmente in buoni rapporti, come Giappone e Corea del Sud, innalzando il livello di preoccupazione della diplomazia americana. Le possibili situazioni che possono evolversi, rischiano di andare verso pericolosi sviluppi, capaci di minare l'equilibrio di una regione al centro dell'economia manifatturiera del mondo. La Cina rivendica la sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale, comprese le zone vicino alle coste dei paesi della regione, Vietnam, Filippine, Brunei e Malesia in particolare. Un conflitto, anche parziale, potrebbe avere conseguenze devastanti sul commercio mondiale, andando ad aggravare direttamente, come elemento di disturbo determinante sull'economia del pianeta. In questo quadro preoccupante, il Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton ha intrapreso una serie di incontri con i paesi del sud-est asiatico per evitare un ultriore sviluppo delle controversie regionali. La missione diplomatica può essere interpretata come una risposta all'atteggiamento cinese che ha denotato chiaramente le crescenti velleità cinesi. La questione della navigabilità dei mari intorno alla Cina resta prepotentemente di attualità. L'argomento risulta essere sempre più centrale ed al centro di trattative e movimenti diplomatici, che impegnano in prima persona i massimi vertici delle maggiori potenze: Cina ed USA. Le centralità strategiche del Mare Cinese Orientale, del Mare Cinese Meridionale, del Mar Giallo e del Mare del Giappone, rappresentano una rete fondamentale per il passaggio delle merci che giustifica tale attenzione, sopratutto in relazione alle sempre crescenti dispute che si stanno sviluppando per il possesso di gruppi di isole presenti nei diversi mari, per lo più disabitate, ma decisive in quanto ad importanza logistica. Questi contrasti, oltre a svilupparsi tra potenze non alleate, se non praticamente nemiche, si sono evolute anche tra nazioni abitualmente in buoni rapporti, come Giappone e Corea del Sud, innalzando il livello di preoccupazione della diplomazia americana. Le possibile situazioni che possono evolversi, rischiano di andare verso pericolosi sviluppi, capaci di minare l'equilibrio di una regione al centro dell'economia manifatturiera del mondo. La Cina rivendica la sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale, comprese le zone vicino alle coste dei paesi della regione, Vietnam, Filippine, Brunei e Malesia. Un conflitto, anche parziale, potrebbe avere conseguenze devastanti sul commercio mondiale, andando ad aggravare direttamente, come elemento di disturbo, sulla situazione economica generale, con un impatto fortemente negativo. Per evitare un pericoloso deterioramento della situazione, il capo della diplomazia USA, Hillary Clinton, ha intrapreso una serie di negoziati con i paesi del sud-est asiatico; questa azione è stata letta da più parti come la risposta USA alle crescenti ambizioni cinesi sulle rotte marittime regionali. Il Segretario di stato americano ha dichiarato che: "Noi crediamo che sia nell'interesse comune della Cina e l'Associazione del Sud-Est asiatico (ASEAN) ha avviato un processo diplomatico per l'obiettivo comune di un codice di condotta". La frase, pronunciata a Pechino, indica bene quale via intendano seguire gli Stati Uniti: intensificare l'azione diplomatica per mantenere la libertà della navigazione mercantile e nello stesso tempo, impedire favorire i legami dei paesi all'interno dell'ASEAN, per scoraggiare i ripetuti tentativi che i cinesi hanno fatto per inserirsi tra i paesi membri dell'associazione, divisi da dispute interne. Per Pechino una ASEAN divisa, significa anche indebolita e quindi un avversario più malleabile, che al contempo diventerebbe un alleato americano indebolito. Questa tattica è chiara ad entrambi i contendenti, che stanno vivendo un momento di raffreddamento diplomatico evidente e che le parole di circostanza del Presidente cinese Hu Jintao, che ha accolto con favore gli sforzi della Clinton per fare avanzare le relazioni sino-americane, non possono smentire. La situazione, quindi è in uno stato di evoluzione contraddistinto da profonda incertezza, tuttavia, ameno di iniziative unilaterali eclatanti di qualche paese della regione, una soluzione più definitiva è rimandata alla fase successiva ai passaggi di potere di cui USA e Cina saranno oggetto nei prossimi periodi.