Blog di discussione su problemi di relazioni e politica internazionale; un osservatorio per capire la direzione del mondo. Blog for discussion on problems of relations and international politics; an observatory to understand the direction of the world.
Politica Internazionale
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giovedì 17 gennaio 2013
La vicenda del Mali esempio di debolezza della UE
Quello che sta accadendo nel Mali rischia di avere implicazioni maggiori in Europa, all'interno dell'Unione Europea, piuttosto che in Africa, sebbene il conflitto armato sia in corso proprio nel continente nero. La decisione francese di intervenire è stata obbligata essenzialmente da due fattori uno recente, l'aggravamento della crisi locale, che ha portato al rischio concreto di una diffusione a macchia d'olio del terrorismo islamico, l'altro più antico, dovuto alla negligenza dei governi francesi precedenti a quello attuale nella politica verso le ex colonie. Tuttavia esistono anche due difetti di fondo che rischiano di mettere in luce tutta la debolezza politica dell'intervento: la mancanza di una spinta sufficiente al progetto di difesa comune, già evidenziata con Sarkozy che lasciò il comando integrato della NATO senza un progetto alternativo e la decisione, per certi versi precipitosa, di entrare in un conflitto annunciato, che lasciava ampi margini di tempo per la preparazione sopratutto politica, senza concordare una preventiva coalizione che sostenesse a tutti gli effetti l'operazione.
In Francia, il dibattito interno si sta indirizzando ancora una volta contro la Germania, accusata di essere contraria al progetto di difesa comune e quindi contro l'unione politica, contrariamente a quanto annunciato più volte dalla Merkel. In effetti, dichiarazioni a parte, al paese tedesco sembra interessare più la parte economica dell'unione europea, ma tale atteggiamento può porre la Germania sotto una luce differente riguardo al processo dell'unificazione dell'Europa. Berlino, fintanto che si è trattato di assumere un atteggiamento dirigista nei confronti del fornire l'indirizzo alla politica economica ha sempre fatto la voce grossa, quella del socio di maggioranza: ne è scaturita una risposta alla crisi finanziaria improntata la rigore più rigido, che ha compresso le economie degli altri paesi, tranne appunto quello tedesco. A posteriori è più facile individuare, invece, una politica economica ad uso e consumo dell'industria tedesca, facilitata nella concorrenza continentale. L'autoisolamento della Gran Bretagna, la sconfitta di Sarkozy e la fine praticamente naturale della legislazione di Monti in Italia avevano già messo in crisi la leadership tedesca sottoposta a critiche fino ad ora provenienti soltanto dalla periferia, ma la vicenda del Mali ha fatto deflagrare il problema della mancanza di condotta univoca e sovranazionale dell'Unione Europea. E' evidente adesso che la Germania è un gigante economico ma si sta rivelando un nano politico, non essendo stata capace di assumere la leadership in un caso di emergenza come quello che sta combattendo la Francia. E' altrettanto vero che molti paesi alleati naturali di Parigi sono alle prese con una crisi economica stringente, che non permette la possibilità di un aiuto concreto, tuttavia si stanno già intravvedendo delle possibilità che possano aiutare la Francia in maniera più concreta del semplice supporto logistico. E' il caso dell'Italia, che dovrebbe offrire le proprie basi ed anche aerei militari e della Spagna, minacciata da vicino dalla possibile escalation del radicalismo islamico. Ma si potrà trattare pur sempre di aiuti limitati, che scateneranno l'euroscetticismo sempre più strisciante all'interno della società francese. Va detto che anche la NATO per il momento è rimasta fredda nei confronti dell'operazione nel Mali, pur essendo direttamente interessata a stroncare l'avanzata dei radicali islamici, su questo fronte probabilmente Parigi potrebbe ottenere maggiori aiuti di tipo militare, ma attualmente il problema pare più diplomatico, Bruxelles, intesa come sede dell'Alleanza Atlantica, ha vissuto con irritazione il precoce ritiro delle truppe francesi dall'Afghanistan e sembra intenzionata a fare pagare lo sgarbo ai francesi. Hollande si trova così imbarcato in una guerra che difficilmente potrà vincere soltanto con l'arma aereonautica, l'impegno sul terreno è qualcosa di più che la peggiore eventualità, ma rappresenta l'unica concreta possibilità di vittoria. Per un governo appena eletto, che metteva al centro del suo programma la ripresa economica, una guerra, che si annuncia lunga e senza il supporto degli alleati, costituisce un enorme problema, sia di consenso che di reperimento delle risorse necessarie. Anche la soluzione di accelerare ciò che era stato previsto dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU, appare ormai un ripiego con poche possibilità di riuscita. La perdita di tempo del mondo occidentale di fronte al problema del Shael, la cronica incapacità di coordinamento dell'Unione Europea e le beghe con la NATO, non possono giustificare l'isolamento francese: a prescindere dal risultato del combattimento la perdita di credibilità della UE rappresenta un danno ben più grave, sia per la lotta al terrorismo, che per le speranze di un avanzamento del processo di unificazione.
martedì 15 gennaio 2013
La Francia isolata nella questione del Mali
Nell'operazione di polizia internazionale, che la Francia ha intrapreso contro i ribelli, che hanno occupato il nord del Mali, Parigi è rimasta sostanzialmente isolata. Aldilà di un appoggio politico proveniente da NATO ed UE, l'aiuto materiale si è limitato alla sola disponibilità logistica, nel trasporto di materiali da parte di Germania, Gran Bretagna, Belgio, Danimarca e Canada. La questione, invece, riguarda tutti i paesi occidentali e sopratutto quelli che si affacciano sul Mediterraneo, dato che si corre il grave rischio, che, immediatamente dietro la sponda meridionale del bacino, si vada creando una entità statale da iscrivere subito alla lista degli stati canaglia. L'insieme di forze eterogeneo che ha occupato il nord del paese africano del Mali è tenuto insieme in maniera molto forte dal comune sentimento religioso, che propende in modo netto verso il fondamentalismo islamico, tanto estremista da potere favorire l'insediamento dei terroristi radicali nel paese. Concretamente potrebbe crearsi una sorta di zona franca per l'estremismo religioso, capace di creare basi militari e logistiche insieme a centri di reclutamento ed addestramento, il tutto relativamente molto vicino all'Europa. Inoltre il ritrovamento di munizioni di fabbricazione iraniana, usate dai ribelli, costituisce un indizio sugli possibili sviluppi delle relazioni internazionali di questa entità, anche se ciò non costituisce una prova; tuttavia per Teheran, sempre alla ricerca di nuovi partner in appoggio alla sua strategia anti occidentale, la necessità di allacciare rapporti con queste forze potrebbe rimpiazzare la sempre più probabile perdita del suo principale alleato, la Siria, dove il regime pare avere ormai il tempo contato. Militarmente già ora gli occupanti del Mali settentrionale hanno dato prova di essere tutt'altro che sprovveduti, potendo contare su parte degli arsenali di Gheddafi, sulla profonda conoscenza del territorio, grazie ai ribelli Tuareg e sull'esperienza militare di Al Qaeda. All'inizio di questa vicenda questi elementi sono stati sottovalutati e nell'indifferenza generale l'autorità legittima del Mali ha perso il suo territorio. Una delle ragioni che ha indotto il governo francese ad agire èstato il tentativo dei ribelli di penetrare nella parte ancora in mano al governo legittimo, tentativo peraltro scongiurato dalla reazione delle truppe regolari; ma la condizione strutturale dell'esercito del Mali non assicura la certezza, che, nel caso di un nuovo attacco, possa reggere di nuovo alla forza d'urto dei ribelli. Tale eventualità potrebbe aprire la strada alla conquista dell'intero paese con ricadute ulteriori sui paesi vicini. Quella che potrebbe venirsi a creare sarebbe una situazione simile all'Afghanistan all'interno del continente africano. Questa possibilità dovrebbe allarmare prima di tutto le Nazioni Unite, l'Africa si trova al centro di uno sviluppo economico in crescendo ed anche la situazione sociale, pur entro i limiti di una difficoltà endemica, sta ottenendo dei risultati significativi. Al contrario un paese in cui vigono le leggi coraniche, applicate in modo ferreo ed ottuso, come accade nella parte settentrionale del Mali, dove le vittime per l'applicazione integrale della sharia stanno crescendo, rappresenta un pericolo ed un ostacolo per il progresso africano. Peraltro il Consiglio di sicurezza ha già approvato una risoluzione che riconosce la necessità dell'intervento militare contro le forze che occupano il Mali del nord, risoluzione che è però insufficiente perchè, innanzitutto non prevede una efficacia temporale, non fissando, cioè, il tempo esatto di intervento e poi perchè affida il compito militare esclusivamente a forze africane da formare ed armare. Dall'altro versante, se si può comprendere la titubanza degli USA, appena in procinto di uscire dalla palude afghana, meno chiara è la posizione dell'Unione Europea, che perde una occasione di dimostrare di essere un soggetto internazionale in modo completo. L'assenza di una politica unitaria, data da divergenze irrisolte su vasta scala, ma in questo caso specificatamente sulla politica estera e di organismi direttivi non coperti dal potere decisionale a causa di norme mai scritte, mette in evidenza come Bruxelles sia sempre più inadatta ad un ruolo internazionale di primo piano. Sulla Francia, per ora, resta così il compito esclusivo di fermare l'avanzata del fondamentalismo islamico vicino ai confini del vecchio continente. Resta la speranza di un impegno della NATO, che potrebbe essere ratificato i prossimi giorni, ma la lentezza con la quale è stato affrontato l'argomento rappresenta un brutto segnale per la tanto decantata lotta al terrorismo.
venerdì 11 gennaio 2013
Il Giappone aumenta il suo budget militare
Nonostante un debito pubblico che sfiora la quota del 240% del PIL il Giappone del nuovo premier Shinzo Abe, interrompe il congelamento della spesa militare, praticamente fermo da un decennio, investendo circa 45.000 milioni di euro nel bilancio per la difesa. Del resto, nelle intenzioni e nei programmi del nuovo capo del governo di Tokyo vi è anche la revisione costituzionale della norma, in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale, elaborata con chiari intenti pacifisti imposti dagli Stati Uniti, della trasformazione delle forze di autodifesa in esercito regolare. Il bilancio militare giapponese, pur con i vincoli imposti dalla norma che si vuole modificare, era già il sesto più grande del mondo. Quella che viene impressa dal neo premier, espressione della parte politicamente conservatrice del paese, è una svolta militarista in gran parte annunciata, che, però sta subendo una accelerata sostanziale, in parte dettata per mascherare le grandi difficoltà economiche di natura interna ed in parte per sostenere, con i fatti, la natura nazionalistica del programma di governo, minacciata dalla questione con la Cina per le isole contese nel Mare Cinese Orientale, per il timore dell'escalation nucleare nord coreana e per l'ulteriore contesa territoriale con la Corea del Sud, ancora una volta per un piccolo arcipelago. Il confronto con Pechino è quello che più assilla il governo giapponese, limitato finora a diatribe diplomatiche, che hanno assunto però toni molto intensi, entrambi gli stati hanno, infatti, ribadito la propria sovranità sulle isole Senkaku o Diaoyu. Dalla parte cinese, va detto, che vi è una situazione ed un atteggiamento speculare: a Pechino si è insediato un nuovo esecutivo, che ha individuato nel dominio marino una chiave economica per il suo sviluppo, sia dal punto di vista dell'individuazione e dello sfruttamento dei giacimenti di materie prime, che del controllo delle vie di comunicazione. Per sostenere tale priorità anche la Cina ha imperniato la sua strategia sullo sviluppo delle sue forze armate con un consistente aumento del budget previsto, sopratutto per la marina militare. Questa linea non è sfuggita al Giappone che ha previsto l'ammodernamento del suo arsenale missilistico, degli aerei da combattimento e degli elicotteri da pattugliamento, tutti armamenti volti a contrastare dall'aria lo strapotere che la cina intende mettere in campo. Quella che si prepara è una guerra dei nervi, un equilibrio instabile dietro cui stanno due governi che non pare vogliano impostare le loro relazioni sulla pura dialettica, ma su di un dialogo imperniato sulle rispettive minacce. Per ora la diatriba è vissuta di scaramucce più che altro spettacolari, atti dimostrativi tesi a provocazioni, spesso fine a se stesse, ma l'ultima incursione di navi cinesi nelle acque delle isole contese ha innalzato una pressione già alta dietro le scrivanie dei rispettivi governi. La convocazione dell'ambasciatore cinese a Tokyo segna un nuovo gradino dello sviluppo di una questione dove i due esecutivi non pare vogliano cedere per non intaccare il loro prestigio interno.
mercoledì 9 gennaio 2013
Sulla tensione tra India e Pachistan incombe l'estremismo religioso
Il processo di pace tra India e Pakistan è in concreto pericolo per i fatti accaduti al confine tra i due paesi, nella zona del Kashmir, territorio conteso tra i due stati fin dal 1947. Sulla regione vige da più di dieci anni un equilibrio precario, che, seppure contrassegnato da un cessate il fuoco abbastanza duraturo, ha visto intensificarsi nelle ultime settimane l'aumento degli incidenti sulla zona di confine. Entrambi i paesi, storicamente rivali, sono impegnati in un processo di pace lungo e laborioso, che, tuttavia, non è mai stato abbandonato per la reciproca convenienza della instaurazione di uno stato di equilibrio permanente. L'episodio che rischia di incrinare le relazioni tra le due nazioni contiene, però, dei lati insoliti: in seguito ad una incursione in territorio indiano da parte dei pachistani, due militari di Delhi sarebbero stati uccisi e mutilati, in particolare uno avrebbe subito la decapitazione. Aldilà delle reciproche accuse di avere attraversato il confine sconfinando nello stato vicino, la dinamica degli eventi porta a presumere la presenza, nell'occasione, di jihadisti, individuabili appunto nelle mutilazioni inferte ai soldati indiani. Il problema dell'infiltrazione di estremisti islamici nelle forze armate, nei servizi segreti ed in generale nella burocrazia pachistana è all'origine dei pessimi rapporti con gli USA, che hanno operato, sia nella lotta al terrorismo, che nelle zone di confine con l'Afghanistan, spesso scavalcando gli apparati statali in aperta violazione del diritto internazionale. Il tasso di penetrazione dei radicali islamici nei posti chiave di Islamabad è diventato tale, che il governo pachistano è ritenuto inaffidabile da Washington e, peraltro, è un fatto ormai assodato che non riesca a controllare tutto il suo territorio, dove sono presenti ampie sacche dove il potere legittimo è del tutto inefficace. Queste porzioni territoriali sono spesso in mano a gruppi estremisti che costituiscono vere e proprie enclave all'interno dei confini dello stato. Ma il Kashmir non rientra in queste zone di dubbia giurisdizione, e le mutilazioni inferte ai soldati indiani hanno generato forte imbarazzo nell'esercito pachistano. La vicenda potrebbe essere letta come un tentativo o di fare fallire le trattative per la pace o di allargare l'influenza islamica radicale in una zona comunque sottoposta a grande tensione. I jihadisti, la cui presenza in zona pare sicura, potrebbero fare leva sul nazionalismo pachistano della regione per creare una nuova zona di conflitto in cui inserirsi per guadagnare consensi, in quest'ottica va ricordato, che il Pachistan mal sopporta i successi economici indiani a cui fa da contraltare uno stato di perenne sottosviluppo ed anche i ripetuti contatti allacciati, nel campo del commercio e dell'economia, con la Cina, avversaria dell'India nella corsa alla crescita economica, testimoniano di un sentire comune naturalmente avverso ai vicini, che può sembrare facilmente sfruttabile anche per altri scopi. L'incidente, poi, arriva in un momento delicato per entrambi i paesi, che devono affrontare l'appuntamento con le elezioni: il Pachistan nella prossima primavera e l'India nel 2014 e l'incertezza dell'esito del voto può essere un fattore ulteriore capace di contribuire a raffreddare un processo di pace che necessita, invece, di essere rilanciato.
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In Egitto il vertice per la riconciliazione palestinese
Nella capitale egiziana è previsto un incontro che potrebbe dare una svolta alle divisioni palestinesi, per affrontare uniti il processo di costruzione dello stato della Palestina. Sotto il patrocinio del presidente egiziano Morsi, infatti, il presidente palestinese Abbas si riunirà con il leader di Hamas, in esilio, Khaled Meshaal. Alla luce della nuova nomina del segretario delle Difesa USA, notoriamente a favore del dialogo tra Israele ed Hamas, questo incontro assume una valenza differente rispetto ai tentativi precedenti di riconciliazione delle due parti in cui è diviso il mondo palestinese. Anche il ruolo di Morsi, dopo le recenti polemiche sul fronte interno, che hanno accompagnato l'approvazione della tanto discussa nuova costituzione egiziana, mira a recuperare consensi, grazie al suo ruolo di mediatore, sia nel mondo arabo, che nei confronti degli Stati Uniti, molto guardinghi sullo sviluppo intrapreso dal paese egiziano dopo la primavera araba e le elezioni che hanno portato al potere il partito confessionale dei Fratelli Musulmani. La questione della riconciliazione palestinese è un tema fondamentale nel processo della costituzione del nuovo stato, senza questo passo sono impensabili passi avanti. Pur nelle reciproche diffidenze il processo di distensione tra le due anime del mondo palestinese sembra procedere, sopratutto dopo l'autorizzazione data a Fatah per festeggiare il suo 48° anniversario nella striscia di Gaza, governata da Hamas, che dopo la sua salita al potere nella striscia, aveva sempre osteggiato le manifestazioni pubbliche della controparte araba. Entrambi gli schieramenti sono consci della necessità di trovare un accordo per elaborare una linea comune nei confronti di Israele, sopratutto a livello politico internazionale, la via, che con il riconoscimento ONU della Palestina come membro osservatore nell'assemblea, pare dare i maggiori risultati. La necessità americana di chiudere la questione con la soluzione dei due stati non può essere dietro all'incontro, con gli Stati Uniti rivolti verso l'estemo oriente dare una maggiore stabilità all'area risulta essenziale, tuttavia i due schieramenti dovranno superare l'ostacolo maggiore, rappresentato dalle resistenze israeliane, sopratutto se le previsioni elettorali che danno la coalizione già al governo, vincente nella prossima consultazione. I tentativi di Tel Aviv di mantenere divisi due principali gruppi palestinesi, sono stati ripetuti nel tempo, nel nome della logica di imporre così un maggiore controllo sugli attivisti palestinesi. In ripetuti episodi si sono notate coincidenze che concorrevano a mantenere divise le due fazioni, sicuramente alimentate dagli israeliani, va detto che spesso, se non quasi sempre, il torto del mondo palestinese è stato quello di cadere in queste trappole e di arrivare diviso ad appuntamenti importanti. Ma in questo senso si è mossa, con giudizio, l'azione di Abbas che ha saputo ottenere il maggiore riconoscimento internazionale nella storia del movimento palestinese, con mezzi non violenti. La simpatia e la presa d'atto della maggior parte delle nazioni circa la causa palestinese ha già relegato Israele nell'angolo di un isolamento pericoloso, in relazioni ai possibili e potenziali sviluppi che la politica internazionale potrà prendere. Anche il voto contrario alle Nazioni Unite, sul tema del riconoscimento dello status di osservatore, degli Stati Uniti, è parso dettato più da ragioni elettorali, che come reale espressione dell'amministrazione in carica, che è poi stata riconfermata dalla consultazione elettorale. Sono maturate quindi, le condizioni per un progresso nella costruzione dello stato, che potrebbe essere coincidente con un avanzamento del processo di pace tra israeliani e palestinesi, fortemente voluto da Washington e dalla maggior parte delle nazioni mondiali. Se le due parti sapranno resistere alle pressioni endogene provenienti dalle ali estreme e non cadranno nelle provocazioni, di cui saranno senz'altro fatte oggetto, la pacificazione costituirà un concreto progresso verso la creazione dello stato di Palestina.
martedì 8 gennaio 2013
Mali: i radicali islamici tentano l'offensiva
La situazione del Mali sta subendo un peggioramento a causa dell'avanzata degli estremisti islamici che hanno preso il nord del paese. Il tentativo di sfondamento della immaginaria linea di demarcazione dove si sono attestate le forze antagoniste è stata ripristinata per la risposta delle truppe governative di stanza a Mopti, ma ciò non è bastato all'esercito regolare per guadagnare posizioni, giacchè i radicali islamici sono riusciti a mantenere le proprie posizioni. L'azione degli estremisti era iniziata fin dai giorni scorsi per attaccare Mopti, che costituisce l'ultimo baluardo delle forze dell'esercito regolare, le colonne sono formate dai combattenti salafiti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), il Movimento per l'Unità di Jihad in Africa occidentale (Muyao) e Ansar Dine (Difensori della Fede), che si contraddistinguono per la rigorosa applicazione della legge coranica. Malgrado il ripristino delle posizioni precedenti allo scontro la situazione resta carica di tensione e non sono da escludersi altri combattimenti nei prossimi giorni. La ripresa degli scontri è da ascrivere, principalmente, allo stallo delle trattative in corso ad Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, tra il governo del Mali, Ansar Dine ed i ribelli Tuareg del Movimento di Liberazione Nazionale Azawad (MNLA), a causa del mancato accordo sull'applicazione della legge coranica, la sharia, in tutta la nazione maliana, considerato prerequisito fondamentale, dai radicali islamici, per continuare il negoziato, ma condizione sempre rifiutata dal governo di Bamako. Nel Nord del Mali, territorio sotto il controllo degli estremisti islamici, la situazione sociale è profondamente deteriorata proprio per l'applicazione della sharia, applicata in modo violento ed integralista; sono già diverse le vittime uccise per futili motivi, così come le mutilazioni praticate soltanto a causa di semplici sospetti ed in generale l'aumento delle punizioni corporali a riguardato una serie di infrazioni diventate tali solo grazie ad una lettura distorta del Corano. Anche i monumenti ed i documenti del paese hanno subito gravi danni per questi motivi. Tutto ciò malgrado una risoluzione del 20 dicembre del Consiglio di Sicurezza, che, finalmente autorizzava l'intervento armato internazionale per debellare i gruppi integralisti; ma la risoluzione risulta viziata nella forma dall'assenza di una scadenza temporale, che vanifica una delle poche decisioni che potrebbero avere effetti concreti da parte del Consiglio di Sicurezza. Romano Prodi, l'ex premier italiano, che ricopre la carica di inviato speciale per le Nazioni Unite per il Sahel, prevede che le operazioni militari non potranno iniziare prima di settembre per le croniche carenze sia economiche che militari dell'esercito del Mali.
Obama incontra Karzai
Nell'agenda di Obama l'Afghanistan torna da protagonista con la visita del premier Karzai, che si recherà a Washington il prossimo venerdì. I piani del ritiro delle truppe USA, previsto per la fine del 2014 non sono cambiati, ma alla luce della grande instabilità del paese occorre pianificare la gestione della transizione in ogni suo punto. In particolare le due delegazioni affronteranno il futuro di una collaborazione che sia sostenibile politicamente, ma sopratutto economicamente per gli USA e che possa garantire a Kabul il presidio di almeno gran parte del territorio. Oggettivamente, però, questa possibilità pare di difficile attuazione: già con la presenza dell'esercito NATO esistono numerose zone, specialmente le valli impervie al confine con il Pakistan, dove l'autorità del governo afghano non è affatto vigente. Il pericolo concreto per Kabul è che queste porzioni di territorio, senza il presidio dei militari americani, si estendano fino a mettere in concreto pericolo il governo afghano in carica. Insieme a questo rischio vi è la potenziale ripresa dell'estremismo islamico, con il suo contenuto di odio verso l'occidente. Quello che più spaventa Washington è la possibilità della creazione di nuove basi da cui fare ripartire l'azione terroristica. Attorno a queste visioni, reciproche e praticamente simmetriche, verteranno i colloqui per assicurare la sicurezza del passaggio di potere anche attraverso il rafforzamento delle forze armate dello stato afghano ed i negoziati con i talebani, mai decollati ma neppure conclusi definitivamente. Karzai ed il governo afghano si è più volte detto contrario al ritiro delle forze USA, ben conscio di un possibile deterioramento delle condizioni di sicurezza dello stato, ma Obama ha rivolto verso ancora più verso oriente il centro della sua azione militare; ciò ha decretato la necessità di uno spostamento di risorse, anche in ragione del continuo stallo nel paese afghano, dove la situazione è stata giudicata, sebbene sempre problematica, di difficile risoluzione definitiva. Tuttavia, proprio in ragione dei pericoli di una nuova offensiva dei talebani o di Al Qaeda, le due parti potrebbero concordare il numero dei soldati USA ancora presenti sul territorio afghano. Questo provvedimento potrebbe essere inquadrato, appunto, in una misura di sostegno dell'esercito afghano, giudicato ancora non del tutto adatto a presidiare il proprio territorio, ma occorre concordare tra i due stati in maniera esplicita e definita sia il ruolo che lo status giuridico di questi militari americani presenti sul suolo di Kabul. Verosimilmente il numero dei soldati americani potrà essere compreso dai 3.000 ai 9.000 uomini, tale entità, se paragonata agli effettivi attualmente presenti, circa 100.000, fornisce la misura di quello che potrà essere l'impegno statunitense: un compito di affiancamento ed istruzione, forse anche di presidio attraverso l'impiego di mezzi elettronici, ma certo non un impegno equivalente a quello attuale. Dopo il 2014 per l'Afghanistan si prospetta una situazione di minore sicurezza, soltanto in parte mitigata dai possibili sviluppi che le relazioni con gli USA riusciranno ad evolvere.
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