Politica Internazionale

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venerdì 25 gennaio 2013

Le necessità dell'UNICEF ed una strada per riformare l'ONU

L'UNICEF ha presentato il rapporto Humanitarian Action for Children per il 2013. Il contenuto rivela lo stato di necessità dell'ente delle Nazioni Unite che si occupa dell'aiuto dell'infanzia, in particolare viene richiesto un impegno per una cifra di circa 1,4 miliardi di dollari. Non si tratta di una cifra esorbitante, che potrebbe essere facilmente raggiunta con una contribuzione volontaria degli stati più ricchi, che, aldilà, dell'aspetto umanitario potrebbe rappresentare un investimento per la pace e la stabilità mondiale. Le aree di crisi dove l'UNICEF stima di intervenire, a causa dello stato di emergenza presente di tipo umanitario, di carestia alimentare o per conflitti in corso, sono ben 45 in tutto il mondo. Nel periodo compreso tra gennaio ed ottobre 2012 i dati dell'attività dell'ente risultano impressionanti: è stato fornito l'accesso all'acqua potabile a 12,4 milioni di persone, permettendo così di limitare o addirittura fermare epidemie legate al consumo di acqua non potabile, i bambini vaccinati sono stati 38,3 milioni operando così una azione di prevenzione efficace che ha risparmiato ulteriori interventi, 2 milioni hanno ricevuto cure per combattere la malnutrizione permettendo di combattere il triste fenomeno della mortalità infantile, 2,4 milioni sono stati fatti oggetto di programmi di protezione applicati spesso nel campo dello sfruttamento minorile mentre a 3 milioni è stata fornita l'istruzione scolastica, collocata per ultima in questo elenco non certo per ragioni di importanza. La necessità del reperimento di nuovi fondi potrà permettere il proseguimento e l'ampliamento di questi programmi e, nel contempo, servirà per migliorare le capacità di risposta, in termini di qualità e velocità, dell'ente in relazione alle calamità, sia naturali che causate da guerre, riducendo le conseguenze dei disastri sull'infanzia. Le emergenze più rilevanti attualmente riguardano la situazione della Siria e dei paesi confinanti, oggetto della destinazione dei tanti profughi fuggiti dal conflitto, le zone del Mali e della Repubblica Centrafricana, dove è in corso l'ultimo dei conflitti aperti in ordine di tempo e dove l'influenza dei terroristi islamici sottopone la popolazione e quindi anche la parte infantile a violenze inaudite in nome della sharia. Restano, poi le zone dove la fame a causa delle carestie è una presenza ingombrante: il corno d'Africa e la regione al confine con il Kenya. Oltre a queste zone vi è poi una serie di nazioni dove la povertà espone l'infanzia ad esperienze traumatizzanti caratterizzate da violenze e sfruttamento, malattie ed abbandono. La necessità di una azione sempre più penetrante de l'UNICEF è anche dovuta alla crisi economica che ha colpito il mondo, le organizzazioni umanitarie faticano sempre più a reperire fondi ed il loro ruolo, fondamentale, rischia di subire una contrazione che si traduce in condizioni ancora peggiori per la parte più povera del pianeta. I programmi internazionali spesso si basano su volontari o organizzazioni che vivono grazie a sovvenzioni di privati o aziende. In questo campo l'azione degli stati, quelli più ricchi, è spesso insufficiente o troppo legata ad interessi politici od economici che ne condizionano l'efficacia. Una strategia più globale contro la povertà e l'indigenza manca, paradossalmente, in uno scenario mondiale condizionato dalla globalizzazione pressochè integrale. In un tale contesto, ancora una volta, manca il coordinamento delle Nazioni Unite, incapaci di elaborare, insieme a strategie efficaci anche forme cogenti ed allo stesso tempo incentivanti per i singoli stati; così tutto è lasciato praticamente ad una azione ancora troppo influenzata dall'interesse e dai secondi fini. Questa situazione, senz'altro negativa, può però fornire una via dalla quale partire per effettuare una riforma che porti ad una drastica revisione degli strumenti, anche legali, a disposizione delle Nazioni Unite. Se è difficile fare una riforma dell'ONU partendo dal Consiglio di sicurezza, potrebbe essere più agevole iniziare dalla programmazione, dal coordinamento e sopratutto dal reperimento delle risorse a fini umanitari: raggiungendo risultati concreti in questo campo, così delicato, la strada per migliorare i rapporti ed i regolamenti che determinano il funzionamento delle delle Nazion Unite potrebbe diventare, se non in discesa, almeno più pianeggiante.

La Corea del Nord minaccia gli USA

Dopo il lancio del missile a lungo raggio, il dodici dicembre scorso, presentato come semplice vettore per la messa in orbita di un satellite, la Corea del Nord sale di nuovo alla ribalta delle cronache mondiali. La decisione del Consiglio di sicurezza delle nazioni Unite di applicare nuove sanzioni contro Pyongyang, proprio per il lancio del razzo, ha scatenato la reazione nordcoreana, che ha percepito come un sopruso il provvedimento partito dal Palazzo di vetro. Nel mirino sono entrati gli Stati Uniti e la Corea del Sud, accusati espressamente di essere gli istigatori dell'ostilità dell'ONU. La Corea del Nord ha dichiarato che non parteciperà più ad alcuna discussione con i sudcoreani sul tema della denuclearizzazione della penisola e che intende rispondere con pesanti ritorsioni contro Washington e Seul. Inoltre, come ulteriore reazione alla risoluzione del Consiglio di sicurezza Pyongyang ha annunciato che eseguirà un nuovo test nucleare, che costituirebbe la terza prova, dopo quelle del 2006 e del 2009. Il fatto più grave resta la minaccia esplicita contro gli Stati Uniti, che diventano un obiettivo dichiarato dei missili a lungo raggio nordcoreani. La decisione del Consiglio di sicurezza è stata approvata anche dalla Cina, l'unico alleato del regime al governo nella Corea del Nord, e ciò rappresenta l'espressione della volontà di Pechino di non avere alle sue frontiere un paese confinante, che, seppure alleato, possa disporre di un armamento nucleare o soltanto in grado di potere avere nel suo arsenale missili a lungo raggio. Dietro ai timori cinesi vi è, sia la chiara inaffidabilità di Pyongyang, che si ostina a mantenere un atteggiamento ondivago, sia il completo interesse a mantenere lontano dalla regione la marina militare americana, che già in altre simili occasioni si è avvicinata minacciosamente alla Corea del Nord, dietro richiesta di Seul e Tokyo. In questa ottica si inquadrano le dichiarazioni ufficiali di Pechino, che è intervenuta nel dibattito chiedendo calma e moderazione tra le parti coinvolte per evitare una pericolosa degenerazione della situazione. La Cina ha ribadito la sua opposizione all'incremento del nucleare nella penisola e si è, anzi, detta favorevole al processo inverso che ha l'obiettivo di rendere denuclearizzato il territorio delle due Coree. Anche gli Stati Uniti, pur oggetto delle minacce, hanno mantenuto un basso profilo, invitando il regime di Kim Jong-un ad ascoltare gli inviti della comunità internazionale. Tuttavia Pyongyang è rimasta ferma nel suo atteggiamento di rifiuto di ogni confronto internazionale futuro sul tema della denuclearizzazione, scartata anche la ripetizione del già avvenuto incontro a sei con la partecipazione delle due Coree, degli USA, della Cina, di Giappone e di Russia, tenutosi nel 2009, che doveva arrivare ad un accordo sulla fornitura di aiuti economici, tecnologici, umanitari e la promozione di un maggiore coinvolgimento del paese più isolato del mondo nella comunità internazionale in cambio della rinuncia al programma nucleare. Il fallimento di quella trattativa diede corso al test del 2009, che avrebbe portato lo sviluppo tecnologico nordcoreano ad un livello tale da consentire la produzione attuale di circa 40 chilogrammi di uranio altamente arricchito, anche se ciò non dovrebbe essere ancora sufficiente per completare una testata balistica a lungo raggio. Resta da capire con quali scopi, un paese ridotto allo stremo, con problemi di approvigionamento alimentare tali da precludere le normali condizioni di vita per il suo popolo, continui nella sua politica di auto esclusione dal consesso mondiale. Alla Corea del Nord non si può imputare altro, se non la incapacità endemica ad uscire dal proprio stato di crisi. Risulta evidente che in caso di un malaugurato conflitto, l'esercito nord coreano potrebbe opporre ben poca resistenza e che le provocazioni di questi giorni, pur da non sottovalutare, possono essere scongiurate dai sistemi di difesa americani. Più in pericolo può essere la Corea del Sud, ma gli alleati americani assicurano una copertura sufficiente per fornire contromisure efficaci. Forse il governo a capo del paese non riesce a chiedere aiuti in altro modo se non con minacce, che sortiscono soltanto una allerta particolare, nel quadro di una regione già sottoposta a forti tensioni. L'unico attore che può intervenire in maniera sostanziale è la Cina, che finora si è contraddistinta per un attendismo esagerato, ma che con l'appoggio alla decisione del Consiglio di sicurezza, pare avere imboccato una strada più definita.

giovedì 24 gennaio 2013

La strategia inglese per uscire dalla UE

David Cameron, per mascherare i risultati insufficienti del suo governo rinforza il suo atteggiamento euroscettico, che, implicitamente, da le colpe alla UE, o meglio alle sue regole, della mancata realizzazione delle promesse elettorali del premier inglese. La decisione di indire un referendum sulla continuazione della partecipazione del Regno Unito all'Unione Europea, si colloca, quindi, in questo percorso, che ha anche la doppia valenza di cercare di intercettare il sempre più diffuso sentimento contrario all'Europa, presente nel popolo inglese. Il punto nevralgico, al di fuori delle questioni interne del Regno Unito, è però, che tale operazione rischia di portare maggiore divisione all'interno degli altri membri del consesso europeo. Non si può credere che ciò sia soltanto un caso: Cameron, per i suoi interessi di bottega, non esita a mettere a rischio i già precari equilibri di una unione sovranazionale alle prese con una gran quantità di temi da risolvere, senza, peraltro, avere a disposizione gli strumenti necessari. Solleticando gli altri membri che soffrono di scetticismo verso la UE, si può ragionevolmente pensare all'Ungheria o alla Polonia, o soltanto acuendo quelle differenze di visione, presenti nei membri più importanti e fedeli all'idea unitaria, come Francia e Germania, la strategia inglese punta a creare una situazione di caos ed incertezza, che possa permettere al governo inglese di guadagnare tempo per aspettare l'evoluzione della crisi economica ed il conseguente da farsi. L'ambiguità è il tratto caratteristico che da tempo contraddistingue l'azione inglese nei confronti della UE: sganciarsi dagli impegni più gravosi, mantenendo i migliori vantaggi dell'appartenenza ad una unione così vasta, ma mai come in questo periodo questo aspetto è stato esagerato nelle relazioni con Bruxelles. Per adesso Londra ha usato una politica sempre in equilibrio, tale da scontentare molti membri ma non spinta in modo tale da generare situazioni peggiori, tuttavia ora si ha l'impressione che la corda, troppo tirata, stia per spezzarsi. In Francia le speranze di tenere ancora ancorata alla piattaforma continentale l'isola britannica si scontrano, pur nella consapevolezza della necessità di mantenere lo spirito europeo nelle reciproche differenze, con il senso di fastidio per l'attesa delle concrete richieste inglesi, peraltro mai pronunciate. La Germania, viceversa, mostra un atteggiamento più pragmatico, mantenendo inalterata l'intenzione di procedere con il processo di unificazione senza aspettare le intenzioni del Regno Unito. Ma su questo aspetto rischia proprio di cadere la strategia di Cameron: il continuo ondeggiare dell'atteggiamento inglese, che minaccia il referendum, lasciando intendere la volontà di uscire dalla UE, senza presentare le sue richieste a Bruxelles, può creare la fine della pazienza del resto dell'Unione Europea. In realtà questo elenco di richieste non esiste concretamente ma è rappresentato dall'intenzione e probabilmente dalla necessità interna, di rinegoziare il trattato di Lisbona. Dal punto di vista legislativo, questo trattato può essere modificato in qualsiasi momento, a condizione che le modifiche siano approvate da tutte le capitali europee. Si capisce che una tale trattativa è troppo laboriosa, specialmente in un momento come quello attuale, dove la portata della crisi e le necessità politiche europee impongono scelte di veloce esecuzione (che comunque non sono garantite neanche col trattato di Lisbona); impegnare la UE in un tale sforzo significherebbe soltanto togliere energie per processi semplicemente più necessari. Non è possibile che Londra ignori queste esigenze è soltanto che, se venisse imboccata tale strada, le esigenze inglesi avrebbero tutto da guadagnare in un periodo di inevitabile immobilismo delle istituzioni europee. Infatti nessuno vuole riaffrontare quanto già deciso escluso il Regno Unito. La decisione negativa a questa richiesta inglese potrebbe però portare lo stesso ad un blocco dell'attività della UE, nel caso Londra non ne uscisse autonomamente e scegliendo una strada di ostruzionismo interno. Si tratta di una possibilità poco probabile, perchè il lavoro del membro più importate, la Germania e sostenuto dagli altri paesi principali, per cercare una unione maggiore, non potrebbe essere certamente vanificato dalle azion inglesi. A quel punto per Londra non ci sarebbe che l'uscita, per scelta o per esclusione, dall'Unione Europea ed il problema insorgente diventerebbero le relazioni tra Bruxelles e Londra. Alcuni hanno già pensato ad una forma di federazione morbida, che non permettesse un distacco traumatico tra le due parti, tuttavia, tale tipo di rapporto, la cui collocazione legislativa è tutta da pensare, dovrà essere vagliato sulla base del comportamento inglese. La reale intenzione di Cameron è quella di avere mani libere su aspetti che riguardano la finanza, principale fonte di guadagno del Regno Unito, se ciò potesse generare fonti di contrasto con la UE, quest'ultima dovrebbe assumere ritorsioni del caso, come arrivare ad imporre imposte più alte sulle operazioni finanziarie con l'Inghilterra. Si tratta soltanto di un esempio, che può fornire un possibile scenario futuro sui rapporti tra le due parti. D'altra parte, al momento attuale, una permanenza inglese dentro la UE è veramente difficile da pronosticare, i vincoli più stringenti sulla sovranità dei singoli stati saranno l'inevitabile sviluppo dell'avanzamento del processo di unificazione ed, a meno di una svolta totale nella direzione della politica e, sopratutto, dell'impostazione politica della Gran Bretagna, le strade tra Londra e Bruxelles sono destinate a dividersi.

Israele: il nuovo scenario dopo il voto

La maggiore conseguenza della vittoria insufficiente di Benjamin Netanyahu e quindi del risultato elettorale israeliano è lo spostamento dal centro di quella che sarà l'azione politica del prossimo governo israeliano della questione internazionale verso una maggiore concentrazione sui problemi interni del paese, sopratutto di natura economica. L'accresciuto numero di votanti, fenomeno non atteso in queste dimensioni, che ha sostanzialmente determinato lo spostamento della centralità dei temi sui quali viene richiesta maggiore attenzione ha determinato nuovi equilibri all'interno del parlamento del paese. Benjamin Netanyahu, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, sarà ancora il primo ministro di Israele, ma la sua forza politica non sarà la stessa ed i suoi obiettivi dovranno cambiare se vorrà assicurare stabilità alla compagine governativa ed al paese. Yair Lapid, il vero vincitore di questa tornata elettorale, a capo di una formazione di centro che si chiama "C'è un futuro" ha assicurato il suo appoggio al premier uscente per la formazione della nuova coalizione di governo, a patto, appunto, che il nuovo esecutivo si occupi della deriva della classe media, colpita dalla crisi economica, e dia un maggiore impegno sui temi sociali. Nel suo discorso, tenuto dopo la proclamazione dei risultati, Netanyahu ha dato poco spazio ai problemi con i palestinesi, lasciando spazio soltanto alla questione della bomba iraniana, che vede però Lapid contrario a qualsiasi azione unilaterale, ma la maggiore rilevanza è stata per i tre cambiamenti sostanziali, che intende fare in politica interna: il cambiamento dei metodi di governo, una maggiore eguaglianza ed una politica degli alloggi a prezzi più accessibili; questi argomenti ricalcano i punti principali del programma proposto da Lapid, che, a dire il vero, comprendeva anche la leva obbligatoria per i giovani religiosi ultra ortodossi, tenuti finora al riparo dalle formazioni di estrema destra presenti nei governi precedenti. Il risultato del voto, al fine delle alchimie della composizione del governo, ha determinato una situazione in cui non si può governare senza Netanyahu, ma neppure senza Lapid, ed è più il primo che ha bisogno del secondo, come ha già evidenziato la necessità di porre al centro le questioni interne. Il calendario politico dice, che dopo la pubblicazione ufficiale dei risultati, il capo dello stato Shimon Peres, avrà sette giorni per designare colui il quale dovrà cercare la maggioranza per la formazione del governo, verosimilmente Netanyahu, che, a sua volta, dovrà formare il governo entro quattordici giorni. Data la grave immagine internazionale di Israele, una delle possibilità è che proprio Lapid vada a sedere sulla scomoda poltrona di ministro degli esteri, anche se non pare sufficiente un volto telegenico per fare riacquistare credibilità ad un paese che ha ora necessità di compiere degli atti verso cui si è mostrato sempre restio. Israele può uscire dall'isolamento in cui si è andato a cacciare soltanto se intraprende un reale e sopratutto leale percorso di pacificazione con i palestinesi, il cui risultato finale deve essere l'accettazione ed il riconoscimento dello stato palestinese. Ma la presenza probabile di Netanyahu ancora al posto di primo ministro rende scettici gli ambienti palestinesi, anche se l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina ha dichiarato di essere pronta a lavorare con qualsiasi governo israeliano che riconosca lo Stato della Palestina. Ed in effetti sarebbe questo il primo passo atteso dalla platea del teatro internazionale da parte del nuovo governo di Israele, in modo da fare ripartire in modo concreto e, possibilmente, definitivo l'annoso e problematico processo di pace.

mercoledì 23 gennaio 2013

L'Egitto non approva l'intervento nel Mali

Nel Mali vanno avanti le operazioni militari, con l'avanzata congiunta delle forze governative e di quelle francesi, che hanno registrato la ripresa del controllo delle città di Diabalay e Douentza. Il prossimo obiettivo è quello di riguadagnare la sovranità su Timbuctu, sulla cui area sono iniziati i raid aerei, propedeutici all'avanzata di terra. Il principale effetto delle azioni dal cielo è stato il ripiegamento dei miliziani fondamentalisti islamici, che stanno arretrando le proprie posizioni nella parte più settentrionale del Mali, praticamente molto vicino al confine con l'Algeria. Se, da un lato questo fatto è il segnale dell'inizio della probabile sconfitta dei Jihadisti nel territorio maliano, la nuova situazione potrebbe aprire un nuovo scenario di guerra capace di coinvolgere ancor più direttamente l'Algeria, dopo il sanguinoso episodio dell'attacco al sito per l'estrazione di gas di In Amenas. All'interno dell'opinione pubblica algerina è in corso un dibattito, molto sentito, sui metodi e sulla gestione da parte del governo di Algeri della vicenda, sopratutto in relazione alla concessione, per la prima volta nella storia del paese, dello spazio aereo per l'operazione militare in Mali da parte delle forze armate francesi; si comprende molto bene che l'argomento sia delicato per il significato intrinseco dell'avallo all'intervento di Algeri e per la natura della Francia, quale ex paese coloniale proprio dell'Algeria. Uno dei sentimenti dominanti è il timore di essere coinvolti in una guerra capace di riaprire vecchie ferite nel rapporto con i gruppi oltranzisti islamici, che potrebbero ripetere, sotto forma di attentati, l'attacco terroristico dei giorni scorsi, facendo entrare il paese in una spirale di violenza e di tensione. Questi dubbi, però non riguardano solo l'opinione pubblica algerina, dubbi che, per ora, non riguardano il governo di Algeri, ben conscio che una possibile espansione del fenomeno terroristico rappresenta un pericolo da evitare, ma che sono stati espressi in forma ufficiale dallo stato egiziano. Il Presidente Mohammed Mursi ha espresso la sua contrarietà all'intervento militare, che potrebbe destabilizzare la regione grazie all'aumento della conflittualità e della possibilità della divisione dell'Africa settentrionale da quella centrale, isolate reciprocamente dal conflitto. Nella visione presentata da Mursi, manca, però, un disegno alternativo per dirimere la situazione e ciò rende le dichiarazioni del Presidente egiziano alquanto sospettose. Il legame sempre più stretto della massima carica de Il Cairo con i salafiti induce a pensare che la sua posizione, in relazione alle vicende del Mali, sia funzionale al tentativo di guadagnare influenza nel campo dell'islamismo fondamentalista internazionale adiacente all'estremismo islamico, dopo che le vicende interne del paese delle piramidi hanno dimostrato come si sia sviluppata una tendenza della parte al governo, sempre più affine a movimenti caratterizzati da ideologie teocratiche molto radicali. Un'altra possibilità è che le dichiarazioni di Mursi siano eterodirette dai gruppi che lo sostengono al potere, in ogni caso, una ipotesi non esclude l'altra. Quello che interessa rilevare è la sempre maggiore distanza dall'occidente di quello che è ritenuto il paese arabo più influente nella politica internazionale, anche l'Egitto dovrebbe essere preoccupato di una crescita dei gruppi terroristici operanti, alla fine, a poca distanza dai suoi confini. Ciò, però, non emerge dalla contrarietà dimostrata con le dichiarazioni di Mursi, che hanno riguardato l'operazione in se stessa e non , ad esempio, l'intervento di un paese occidentale che poteva richiamare gli spettri del colonialismo.

lunedì 21 gennaio 2013

Lo sviluppo in Africa del terrorismo islamico

Il ritorno del terrorismo islamico in Algeria, dove era nato, circa venti anni prima, non costituisce una coincidenza. Malgrado le smentite delle autorità algerine, il fenomeno, pur essendo ancora lontano dall'intensità degli anni novanta, quando il monopolio della violenza era esercitato dai Gruppi Islamici Armati ed il paese era sull'orlo della guerra civile, sta avendo un incremento non irrilevante. Tra il 2001 ed il 2012 sono stati ben 938 gli attacchi terroristici di matrice islamica, concentrati al di fuori delle grandi città, controllate dallo stato, ed in particolare avvenuti nelle montagne della Cabilia ed, in maniera minore nel deserto del Sahara. Ai Gruppi Islamici Armati è subentrato il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, fondato nel 2006 e subito accolto nella galassia delle organizzazioni affiliate a Osama Bin Laden. Si tratta di gruppi di salafiti algerini comandati da Abdelmalek Droukdel, che li dirige probabilmente da qualche valle nascosta nelle montagne della Cabilia. Da lì la sua influenza si è diffusa nella gran parte del territorio del Sahel: in Mauritania, Niger ed in particolar modo nel Mali, dove, nella parte settentrionale del paese, i combattenti islamici sono stati spinti dalle offensive dell'esercito di Algeri. Questo territorio, dove non viene praticamente esercitata alcuna sovranità legale, ha permesso ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico di incrementare notevolmente le proprie ricchezze, grazie ad attività illecite come il contrabbando, l'immigrazione clandestina, il traffico di droga ed, in ultimo, la pratica del rapimento di occidentali, rilasciati dietro sostanziosi riscatti, pagati dagli stati di appartenenza dei rapiti. Nella sua ascesa al potere il movimento di Al Qaeda nel Maghreb Islamico è stato favorito da fattori esterni alla sua azione, che ne hanno facilitato l'accresciuta influenza, come la guerra in Libia, che ha permesso di liberare notevoli quantitativi di armamenti, nascosti nei depositi di Gheddafi e la spinta autonomistica dei Tuareg del Mali, che ha permesso di stringere tra i due movimenti un'alleanza tattica, unendo le forze contro il debole governo centrale di Bamako. Quest'ultimo fattore ha determinato la conquista del nord del Mali, un territorio molto vasto ma scarsamente popolato, il cui controllo ha consentito una libertà di azione ancora maggiore nelle attività illegali. Proprio la volontà di aumentare la superficie controllata, con un'azione militare sventata dalle truppe del Mali, ha obbligato Parigi ad intervenire e ciò è stata la causa della rappresaglia consistita nell'assalto all'impianto di produzione di gas in Algeria. Il rischio che questi episodi si ripetano è altamente concreto, l'azione dei gruppi terroristici si muove in territori profondamente segnati dalla povertà, dove ottenere il consenso della poplazione è relativamente facile, anche se l'instaurazione della legge coranica, ha suscitato molta contrarietà, per la ferocia della sua applicazione. Ma l'intendimento di estendere a tutto il Shael l'influenza del terrorismo islamico è un programma di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, anche se, proprio a causa della grande estensione territoriale, i gruppi terroristici dovrebbero subire una divisione cellulare, che potrebbe determinare la fine della struttura piramidale di comando; ciò significa andare incontro ad un minore controllo centrale, che in una potenziale fase repressiva potrebbe complicare la lotta al terrorismo, per la maggiore presenza di centri di comando, comunque differenti. Un'altro aspetto è la possibile corsa ad attentati ed azioni dimostrative per ingaggiare una sorta di lotta per avere una qualche supremazia di alcuni gruppi rispetto ad altri. Diventa così necessaria una azione di contenimento, che non può più, purtroppo, essere preventiva e che deve essere coordinata in associazione con i governi legittimi, dagli stati occidentali, per impedire il dilagare dell'estremismo religioso. La caduta del controllo dei gruppi terroristici dovuta al successo delle primavere arabe, con la conseguente caduta dei regimi che detenevano il potere politico nei rispettivi paesi, rappresenta il lato negativo dei processi di democratizzazione dei paesi arabi, non del tutto previsto dai paesi occidentali, che ora devono assolutamente correre ai ripari perchè la zona interessata è situata immediatemente dietro alla sponda meridionale del Mediterraneo.

Israele al voto: favorita la destra

Alla vigilia del voto israeliano, che eleggerà il diciannovesimo parlamento della sua esistenza come stato sovrano, i cinque milioni di cittadini chiamati alle urne potranno scegliere tra 34 partiti. Dopo otto settimane di campagna elettorale le previsioni forniscono un quadro possibile molto simile a quello attuale, caratterizzato dalla predominanza della destra. Se tale previsione risulterà veritiera Benyamin Netanyahu, l'attuale Primo Ministro, sarà riconfermato per la terza volta nella massima carica del paese. La principale novità nel panorama dei partiti israeliani, è costituita dalla potenzialità della nuova lista, che si colloca all'estrema destra, Habait Hayehudi, guidata da Naftali Bennett, ex consigliere di Netanyahu, che presenta un programma basato sulla costruzione del grande Israele basato sui confini della Bibbia, con la conseguente negazione dalla costituzione dello stato palestinese ed il rifiuto del processo di pace con gli arabi. Questa lista, pur essendo parte dell'alleanza che dovrà portare alla riconferma l'attuale primo ministro, ha già eroso consensi elettorali al partito di Netanyahu, presentandosi come un movimento di destra alternativa, contraddistinto dalla rigida intransigenza nei confronti dei rapporti con i palestinesi. Il successo accreditato ad Habait Hayehudi fornisce chiaramente il polso della situazione nel paese della stella di David: la maggioranza della popolazione non è sostanzialmente favorevole ad un processo di pace che sancisca la costituzione dello stato palestinese, la soluzione preferita dagli americani, con i quali si prevede, in caso di vittoria dell'attuale amministrazione insediata a Tel Aviv, rapporti più che pessimi, con sviluppi sulpiano delle relazioni internazionali difficilmente prevedibili. L'impronta data da Obama al suo governo, con le nomine principali non gradite ad Israele, promettono tempi difficili tra i due paesi, con relazioni, che, verosimilmente, subiranno ulteriori raffreddamenti. Tuttavia anche per Israele la questione palestinese sembra passare in secondo piano a causa della difficile congiuntura economica, a parte la parentesi dell'operazione di Gaza, compiuta a Novembre, le questioni economico sociali mantengono il primato nelle discussioni, e perfino la paura di un attacco iraniano è superata in nome della richiesta di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Questo aspetto della campagna elettorale potrebbe aprire margini di prospettiva per il principale partito di opposizione, il Partito Laburista, guidato da Shelly Yachimovich, che punta in special modo sul voto femminile. Ma la crisi potrebbe essere anche una opportunità per Netanyahu, grazie alla quale difendere la sua politica in favore dell'espansione delle colonie nei territori palestinesi, per creare sviluppo a favore degli israeliani. Questa argomentazione usata più volte in modo latente potrebbe salire nell'importanza strategica della campagna elettorale, come dimostrato più volte dall'azione politica del primo ministro, che, a parte le dichiarazioni di facciata, per la verità sempre meno convincenti, ha sempre agito nella direzione opposta del processo di pace, non condiviso e neppure perseguito.