Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

venerdì 10 giugno 2011

L'Iran impegnato nella repressione siriana

Secondo testimonianze, che riportano dati oggettivi, l'Iran starebbe partecipando alle feroci repressioni in atto in Siria, con propri effettivi. I testimoni parlano di soldati con la barba, espressamente vietata agli appartenenti delle forze armate di Damasco, con uniformi nere, non presenti nel vestiario dei soldati di Assad ed infine dotati di armi sconosciute ed assenti dall'armamento del personale militare nazionale. Di fronte alle proteste dei paesi arabi l'atteggiamento iraniano è sempre stato di appoggio, nelle dichiarazioni, perchè si voleva esercitare l'influenza di Teheran per portare i nuovi possibili governi verso le posizioni anti occidentali e teocratiche iraniane. Nonostante non sia stata questa, per ora, la direzione presa dalla primavera araba, l'Iran ha lasciato la porta aperta a possibili sviluppi mantenendo un basso profilo, che lasciava comunque intendere, di vedere benevolmente l'affrancamento da regimi autoritari da parte dei popoli arabi. L'unica avversione manifestata da subito, in maniera chiara e netta, è stata quella contro la rivolta siriana. Immediatamente bollata come complotto americano e sionista, la protesta siriana ha creato viva preoccupazione al regime di Teheran, che conta su Assad come alleato chiave per la sua politica nel medio oriente. Per l'Iran perdere Damasco significa perdere la via d'accesso al confine israeliano, con conseguente depotenziamento delle proprie minacce. In chiave anti Israele, l'Iran conta su Siria, Hezbollah libanesi ed Hamas nella striscia di Gaza. Da questo quadro si comprende come proprio la Siria sia l'alleato più importante e fondamentale, nel piano anti israeliano, che pur essendo solo, attualmente, un esercizio di retrovia, consente a Teheran di recitare il ruolo di capofila nei paesi arabi, alla lotta contro il sionismo. E' un ruolo fondamentale nella politica estera iraniana perchè mette alcentro della propria azione l'avversione viscerale, sia agli USA che ad Israele. E' questa ragione che consente all'Iran la visibilità maggiore nella lotta anti occidentale in chiave islamica. Proprio per questo l'Iran non può permettersi di perdere la Siria, che rappresenta la chiave di volta della propria politica estera. L'impiego dei soldati iraniani, che hanno già fatto esperienza sul proprio terreno nella repressione delle proteste, rappresenta un aiuto tangibile ad un regime in chiara difficoltà, che non riesce più con le sue proprie forze a mantenere il controllo della situazione. Ora, per i siriani, ma anche per il mondo intero, il pericolo maggiore è che la Siria diventi una colonia iraniana. L'occidente deve temere questa evenienza, perchè se Assad è stato un dittatore repressivo, in campo internazionale è stato tanto abile da sfuggire alla tentazione di ergersi ad un qualche protagonismo ed il comportamento della Siria non ha mai destato grosse preoccupazioni, riuscendo ad arrivare perfino ad una qualche forma di intesa con Israele. Se l'Iran prendesse il sopravvento su Damasco in maniera tangibile per l'occidente sarebbe una grossa sciagura. Lasciare andare la Siria al proprio destino, senza pensare una forma di intervento significherebbe portare l'islamismo più estremo alla porta di casa.

giovedì 9 giugno 2011

Ancora fame in Africa

La fame torna ad essere protagonista in Africa. Per il Kenya, Etiopia ed il Malawi, seppure per cause diverse, si annunciano l'arrivo di carestie che potranno avere effetti drammatici. La scarsità di pioggia in Kenya ed in Etiopia nelle regioni di Mandera e Meda Welabu, territori rispettivamente di Kenya ed Etiopia, la grave siccità minaccia di creare una delle più gravi crisi alimentari degli ultimi tempi. Infatti in queste due regioni il tasso di piovosità nello scorso anno è stato solo il 30% della media registrata tra gli anni 1995-2010, si tratta di territori dove la malnutrizione colpisce già il 24% della popolazione. L'emergenza non ha solo a che fare con le condizioni metereologiche, si tratta anche della mancanza cronica di infrastrutture, che vadano in aiuto dell'agricoltura, che a sua volta soffre di atavica arretratezza. E' chiaro che gli aiuti ed i programmi delle organizzazioni internazionali non sono sufficienti e non assolvono il loro ruolo. Gli stessi stati europei, che si dannano per elaborare complicate strategie per bloccare l'immigrazione clandestina, non fanno abbastanza per eliminare, almeno parte delle cause che provocano questi fenomeni. Per il Malawi, stato in cronica difficoltà alimentare, la situazione rischia di peggiorare ancora, a causa del conflitto diplmatico con il Regno Unito, stato che sovvenziona il programma agricolo per i fertilizzanti dello stato africano. Il governo del Malawi sta attualmente rifiutando le sovvenzioni sui fertilizzanti, che riguardano il lavoro di 1,6 milioni di agricoltori, soltanto per una definizione inglese, che ha descritto il capo del governo come autocratico ed intollerante delle critiche. Così per un semplice fatto di puntiglio si mette in pericolo la sopravvivenza delle popolazioni presenti nelle zone agricole, dove il fenomeno della fame può tornare ad essere prepotente protagonista.

Nello Yemen un conflitto americano

Dietro la rivolta che agita lo Yemen, si combatte una guerra non dichiarata degli Stati Uniti. Infatti i cacciabombardieri americani perseguono quella che ritengono la minaccia più immediata per i loro interessi nella penisola arabica: le formazioni di Al Qaeda presenti in terra yemenita. In realtà non è un conflitto nuovo, le azioni americane compiute in quella direzione sono state sospese circa un anno prima per alcuni fallimenti, che hanno determinato la morte di popolazione civile. La cellula yemenita di Al Qaeda è ritenuta dagli USA come quella emergente, dopo i duri colpi inferti alla testa dell'organizzazione terroristica in Pakistan. Gli USA sono particolarmente determinati per proteggere le proprie installazioni militari presenti nel Golfo Arabo, obiettivo ritenuto molto sensibile agli attacchi di Al Qaeda. Tuttavia gli USA patiscono, come limitante, la rivolta presente nello Yemen. Pur considerando positiva la ribellione, in chiave democratica, gli americani sono intralciati dal fatto che gli attivisti di Al Qaeda si mescolano e si confondono con i dimostranti contro il regime. Questa difficoltà ha determinato un atteggiamento prudente e di seconda fila degli USA nei confronti dei dimostranti, ai quali hanno indicato la preferenza per una transizione ordinata e trasparente.

mercoledì 8 giugno 2011

Prime crepe nell'esercito siriano

Parti dell'esercito siriano iniziano a rompere con il regime ufficiale, ed è questa la paura più grande per il regime di Assad. L'apparato siriano si fonda su una macchina della repressione il cui monopolio è totalmente in mano al clan insediato al governo. Si tratta di un monolite che non è mai stato scalfito nel tempo, ma che non è mai stato impiegato, specialmente sul fronte interno, in maniera così massiccia, per cui non è mai stato sottoposto a sollecitazioni così pesanti. Il protrarsi della protesta e della conseguente repressione mostra ora delle crepe nel sistema coercitivo messo in piedi da Damasco. Fonti ufficiali parlano di interi reparti dell'esercito caduti in imboscate ad opera di uomini armati, ma l'evenienza pare troppo remota perchè si tratterebbe di reparti corazzati, praticamente non battibili se non da truppe equipaggiate con mezzi analoghi. Il sospetto è che si tratti di regolamenti di conti tra truppe fedeli al regime contro reparti che cominciano a soffrire l'impiego repressivo contro i civili. La questione è di fondamentale importanza nell'economia della questione siriana: senza l'unità della forza repressiva il regime è, di fatto, isolato e destinato a fine certa. Probabilmente l'imbarbarimento della dura risposta militare deriva da questa consapevolezza. Peraltro Assad non ha antagonisti sufficientemente motivati in campo internazionale, le misure prese dalla comunità internazionale sono infatti insufficienti a fermare il pugno di ferro verso gli oppositori. Quello che manca è la spinta necessaria a sanzionare adeguatamente il regime, al di la delle dichiarazioni di facciata e delle petizioni di intenti; con questo stato di cose il regime di Damasco non è abbastanza intimorito e continua indisturbato nella repressione. La questione è spinosa, la vicinanza della Siria all'Iran, impone la massima cautela, ma appare irreale che il regime cada da solo in tempi brevi, senza alcuna forma di pressione esterna. Si possono bene comprendere le remore degli USA, già impegnati su più fronti, ma, altresì, non è chiaro il temporeggiamento di UE e sopratutto ONU, che dovrebbero dare alla vicenda un peso ben maggiore di quello fino ad ora dedicatogli.

martedì 7 giugno 2011

Lo Yemen ancora nel caos

Gli USA e di principali stati europei chiedono, per lo Yemen, una transizione di potere pacifica, sostenendo l'iniziativa portata avanti dall'Arabia Saudita, paese dove si trova il contestato presidente Ali Abdullah Saleh, convalescente dopo i postumi delle ferite riportate nel bombardamento del palazzo presidenziale. Quello che si teme è che un possibile ritorno in patria del presidente, al potere da ben 33 anni, che potrebbe ulteriormente aumentare i disordini, già molto gravi. Nella giornata di ieri ancora morti, tra cui alcuni uomini che il governo in carica indica legati ad Al-Qaeda. Intanto il Consiglio di cooperazione del Golfo, che riunisce i paesi filo occidentali della penisola araba, non riesce a trovare un accordo che favorisca la distensione tra il presidente yemenita in carica ed il fronte delle opposizioni, non riuscendo di fatto ad interrompere le proteste anti regime che hanno provocato più di 450 morti e la fuga di migliaia di persone dai luoghi dove si sono verificate. I partiti politici insistono nella richiesta della nomina di un vice presidente, atto simbolico ritenuto il primo passo per un trasferimento del potere. L'obiettivo è ritenuto prioritario anche dal Consiglio di cooperazione del Golfo per attenuare le rivolte. Questa incrinatura nel regime in vigore da 33 anni può significarne il tramonto.

Dove va Israele?

I recenti fatti alla frontiera della Siria, la posizione sempre più arroccata del premier, le proteste, che seppure in minoranza, cominciano ad acquistare una grossa rilevanza nel paese, fanno nascere la domanda dove sta andando Israele? Il governo del paese sta assumendo una posizione sempre più isolata ed è significativo che la protesta monti anche dall'interno. Se per la comunità internazionale la creazione dello stato palestinese è ormai più che una esigenza necessaria per dare un concreto avvio al processo di pace, il governo di Tel Aviv sta facendo di tutto per andare nella direzione opposta. Le proposte del premier israeliano, infatti sembrano fatte apposta per contrastare ogni possibile forma di dialogo ed il gelo con il quale Obama ha congedato Netanyahu, la dice lunga sui sentimenti dell'amministrazione americana, nonostante gli applausi raccolti dal premier di Tel Aviv al congresso e provenienti dalla parte repubblicana. Il governo israeliano non pare essersi accorto dei cambiamenti politici che stanno avvenendo attorno ai suoi confini e pare vivere in un limbo per niente sicuro. L'atteggiamento dello struzzo che sta portando avanti Netanyahu, oltre ad essere irresponsabile, denuncia una miopia circa gli obiettivi da raggiungere molto preoccupante, non è vivendo alla giornata con una tattica attendista che si costruisce il futuro del paese. Frattanto i palestinesi stanno optando per tattiche di rivolta pacifiche, che gettano ulteriore discredito sull'azione dello stato israeliano: una cosa è effettuare una repressione a seguito di atti violenti, un'altra è sparare su dimostranti disarmati. I palestinesi sembrano aver capito la maggiore risonanza di queste tattiche e si avvicinano al cruciale appuntamento di settembre, quando verrà discussa all'ONU la richiesta palestinese della necessità di un loro stato libero e sovrano, con il favore dell'opinione pubblica. Cosa farà Israele se l'ONU riconoscerà questo diritto ai palestinesi? Già il solo fatto di riuscire a portare nella sede delle Nazioni Unite il problema porterà alla ribalta, sempre che ve ne fosse bisogno, un argomento che il governo israeliano preferiva fare passare sotto silenzio. La pressione mediatica che rischia di abbattersi su Israele potrebbe essere enorme e potrebbe determinare un isolamento ulteriore e non si tratterebbe di un magnifico isolamento.

lunedì 6 giugno 2011

La Russia critica sull'intervento in Libia

Mosca si dimostra sempre più in disaccordo con la guerra in Libia. L'astensione nell'ambito del Consiglio di sicurezza, sull'intervento in Libia era già stata concessa con difficoltà, con il solo intento umanitario per la protezione dei civili. Le tante escalation operative messe in campo dall'alleanza dei volenterosi hanno incrinato la già sofferta astensione, che di fatto, ha permesso l'azione militare. L'ultimo atto delle forze alleate contro Gheddafi, l'impiego degli elicotteri in azioni armate, ha suscitato grandi proteste da parte dell'amministrazione russa, per il livello militare raggiunto. L'impiego di aviazione leggera non pare, in verità, essere previsto dalla risoluzione dell'ONU sull'intervento in Libia, dove si parlava di intervento aereo, inteso come aviazione classica, per proteggere la popolazione civile. Gli obiettivi che si possono raggiungere con l'utilizzo di elicotteri sono ben diversi da quelli preventivati nella risoluzione, si tratta della possibilità di colpire forze avverse a distanza ravvicinata, è l'ultimo gradino prima di utilizzare truppe di terra. Il timore russo è che questa prassi si allarghi ad altri teatri critici, la dottrina di Mosca, in campo internazionale prevede, infatti, che sulle questioni interne non vi sia ingerenza esterna, tantomeno con il benestare dell'ONU. E' una visione opposta a quella americana, che preferisce, invece, agire con il beneplacito delle Nazioni Unite su scenari internazionali. Prendendo questa piega difficilmente la Russia fornirà ancora l'astensione per regolare altre questioni di politica interna di altri stati, anche in presenza di gravi violazioni a danno dei civili. La dottrina russa è condivisa da un'altra nazione che detiene il seggio permanente al Consiglio di sicurezza: la Cina, che forse a causa dei propri problemi interni preferisce evitare i riflettori.