Politica Internazionale

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venerdì 30 settembre 2011

Il Parlamento europeo chiede ai 27 un'azione unitaria per la Palestina

Il Parlamento europeo ritiene legittima la richiesta della Palestina di essere riconosciuta come uno stato sovrano. Pur individuando la necessità di tutelare Israele, il Parlamento europeo ritiene una necessità ed uno sbocco naturale la nascita dello stato palestinese, anche in ottica della necessaria pacificazione internazionale, intesa come risultato della ripresa delle trattative. La dignità di stato da riconoscere ai palestinesi, per il parlamento europeo deve comunque rientrare nel naturale alveo negoziale presso l'Assemblea Generale dell'ONU. Il Parlamento europeo ha approvato a maggioranza una mozione in cui viene espressamente chiesto ai ventisette governi che compongono la UE, di tenere una posizione comune, che eviti divisioni di fronte al panorama internazionale, rispetto a quanto più volte ribadito dalla UE, attraverso la rappresentante per la politica estera Catherine Ashton, circa la legittimità del principio che prevede i due stati sulla base dei confini del 1967, con capitale Gerusalemme. Il testo elaborato dal Parlamento europeo contiene una indicazione importante circa la necessità dell'autodeterminazione del popolo palestinese ed afferma l'indiscutibilità del diritto di avere un proprio stato sovrano. In quest'ottica rientra anche la richiesta al governo israeliano di bloccare nuovi insediamenti nei territori palestinesi, per facilitare il processo di pacificazione. La richiesta di unitarietà di azione fatta ai governi UE, rientra anche nel tentativo di fare riprendere quota alla stessa UE nei negoziati di pace, anche alla luce degli sviluppi portati dalla primavera araba. In conclusione l'intenzione del Parlamento europeo è quella di consentire, grazie ad una azione compatta e condivisa, di sfruttare l'occasione della richiesta per il riconoscimento dello stato di Palestina, per potere incidere da protagonista nel processo di pace.

giovedì 29 settembre 2011

USA e Pakistan ai ferri corti

I rapporti tra USA e Pakistan subiscono un peggioramento. Gli USA hanno esplicitamente accusato Islamabad di avere contati con la rete Haqqani, terroristi islamici legati ai talebani, attraverso i quali il Pakistan cerca di estendere la propria influenza verso l’Afghanistan. Al di la delle dichiarazioni di rito, che parlano di rincrescimento per la posizione di Washington, Islamabad è stata chiara, gli USA non devono toccare i membri della rete Haqqani, pena la messa in discussione dell’alleanza. L’atteggiamento USA va, però, nella direzione contraria, senza un intervento pakistano gli USA procederanno in modo unilaterale. La minaccia è da considerarsi reale, già nell’occasione dell’eliminazione fisica di Bin Laden, le forze armate americane hanno operato, senza avvertimento e senza consenso, sul suolo pakistano, proprio perchè non si fidavano dei servizi segreti di Islamabad. La questione tra i due paesi si trascina da tempo, tanto che le posizioni ufficiose degli alti gradi militari sono diventate ormai note, l’affidabilità del governo pakistano è per le forze armate americane ai minimi storici. Il sospetto più grave di Washington è che il Pakistan ritenga il governo afghano ed il sistema democratico costruito dagli USA molto deboli e su cui graverebbe il pericolo di una caduta nel momento in cui le forze NATO abbandoneranno il terreno.
Nel verificarsi di questa evenienza il Pakistan potrebbe estendere la sua influenza sul paese afghano mediante l’alleanza con i talebani. Dietro a tutto sembra stagliarsi il profilo della Cina, che ha di fatto, sostituito gli USA come partner comerciale e forse anche politico. Il Pakistan ha già parlato più volte in dichiarazioni ufficiali di Pechino come amico principale della nazione. L’espansionismo cinese dettato dalla fame di nuovi mercati, ma anche di nuova manodopera ha individuato nelle zone di Pakistan ed Afghanistan dei territori strategici, sopratutto nell’ottica della competizione con l’India. La Cina punta così a circondare il suo più pericoloso concorrente cercando di fargli terra bruciata attorno. Con l’alleanza con Pechino, Islamabad si sente più forte nei confronti degli USA e si permette anche sgarbi diplomatici come non presenziare a riunioni sul tema del terrorismo. Nonostante tutto gli USA tengono a freno l’irritazione, giacchè ritengono che la lotta al terrorismo internazionale si vince proprio tra Afghanistan e Pakistan, tuttavia, se possono contare sulla lealtà del governo di Karzai, nel tempo i sospetti sul Pakistan si sono, forse, troppo acuiti tanto da fare diventare Islamabad più che un potenziale avversario. Se l’attuale situazione tra i due stati non vedrà progressi nella distensione, con fatti concreti da parte dal Pakistan, la situazione è destinata a peggiorare molto e gli eventuali sviluppi potrebbero fare rivedere i piani di rientro delle forze armate USA dall’Afghanistan. Infatti senza più l’appoggio del Pakistan, che a questo punto potrebbe diventare addirittura un nemico, gli Stati Uniti dovrebbero, per forza di cose, mantenere numerosi effettivi per presidiare la lotta al terrorismo islamico in maniera efficace.

Tra la Serbia e la UE c'è l'ostacolo Kossovo

Per la Serbia l'entrata nella UE appare sempre più difficile. Malgrado gli sforzi sostenuti dal governo di Belgrado, per assicurare alla giustizia internazionale i criminali serbi della guerra seguita alla dissoluzione della Jugoslavia, la questione del Kossovo rappresenta ora l'ostacolo più difficile da superare. La strategia degli estremisti serbi, che si richiama ad una anacronistica ricostruzione della grande Serbia, tiene in ostaggio lo sviluppo economico e diplomatico del paese. Per la verità sulla questione del Kossovo le ragioni degli estremisti riscuotono parecchio successo entro i confini legali serbi. La popolazione ritiene l'indipendenza del Kossovo una violazione del proprio territorio ed in parte giocano anche motivi di rivalsa contro l'occidente, verso cui, malgrado tutto, non sono del tutto cancellate le avversioni per l'embargo economico ed i bombardmenti NATO. Gran parte del paese vive come l'ennesima ingerenza negli affari interni dello stato, il riconoscimento, che gran parte dell'opinione pubblica internazionale, ha regalato al Kossovo. In questo gli estremisti serbi hanno gioco facile ha fomentare la piazza, così facendo, però, vanno contro le legittime aspirazioni del paese a fare parte dell'Unione Europea. Come ha detto la cencelliera tedesca Merkel, sempre più leader in pectore della UE, se la Serbia non muta atteggiamento verso la questione kosovara, l'ingresso a Bruxelles le è precluso. Tuttavia anche nella stessa UE non vi è unanimità nella direzione enunciata dalla Germania, infatti sono ben cinque i paesi UE che non riconoscono il Kossovo. La questione, insomma resta fluida, anche se, a ben vedere, il Kossovo è soltanto una questione accessoria nella pratica Serbia, quello che preoccupa ben di più è il peso, sempre importante, che la stessa idea nazionalista, ben rappresentata dai movimenti estremisti, ha all'interno del paese. La vera preoccupazione della UE è quella di non portare al suo interno un paese ancora attraversato da tensioni profonde, che non ha saputo superare i conflitti al suo interno e che potrebbe costituire un serbatoio consistente di potenziali fonti di destabilizzazione. Peccato perchè dal punto di vista economico, la Serbia rappresenta un affare da ambo i lati, il paese è in crescita e già costituisce un buon mercato, praticamente dentro l'Europa e dispone di manodopera ad un costo contenuto ma molto specializzata: i presupposti quindi, da questo lato, ci sono tutti per entrare nella UE; quello che manca è una stabilizzazione politica ed una convinzione, più che altro, verso l'Europa, da parte di tutto il corpo sociale del paese, ceh deve rebdersi disponibile ad accettare le regole comuni e la visione europea, superando di slancio ataviche convinzioni, ormai superate dalla storia.

mercoledì 28 settembre 2011

Il problema del lavoro nodo essenziale da sciogliere

Secondo l'OCSE i disoccupati nel mondo sono intorno a 200 milioni di persone, di cui almeno 30 milioni hanno perso il lavoro negli ultimi due anni. Le prospettive per il breve periodo sono altrettanto disastrose, la crisi economica che attanaglia il pianeta rischia di erodere ulteriori posti di lavoro, riducendo ancora la possibilità di impiego. Le implicazioni di questo dato allarmante rischiano di deprimere ancora di più l'economia soffocando i consumi. Quello che si può avverare, se non si inverte la rotta, è un avvitamento definitivo dei consumi in grado di affondare del tutto le speranze di ripresa. Questa analisi, pur essendo a livello macro economico, indica il bisogno di un intervento strutturale che corregga il dato della disoccupazione al più presto. Inoltre le conseguenze sociali, indotte da un regime di mancanza di lavoro giunte ad un profondo grado di diseguaglianza, rischiano di fare partire pericolosissime tensioni sociali, che una volta innescate potranno essere gravide di problematiche difficilmente gestibili. L'allargamento della forbice tra ricchissimi e poveri si è dilatato in maniera abnorme, anche in ragione dell'impoverimento dei ceti medi e medio bassi, su cui gravano le politiche fiscali, sempre più vessatorie degli stati, costretti a fare fronte a debiti sovrani sempre più alti e particolarmente colpiti dalla diminuzione dei posti di lavoro. Il problema va affrontato a livello mondiale, è necessaria una coordinazione che indirizzi le risorse opportunamente accantonate per lo sviluppo dei posti di lavoro. La sconfitta della disoccupazione deve essere pianificata attraverso obiettivi certi e raggiungibili, ad esempio con un solo incremento di 1,3 punti percentuali si potrebbe tornare al livello occupazionale pre crisi entro il 2015. Devono essere elaborate strategie comuni tra i governi, che diano la priorità al lavoro reale contro quello effimero della finanza, sulla quale devono agire leve fiscali per reperire le risorse che possano permettere l'incremento dell'occupazione. Ridurre l'importanza della finanza deve essere un obiettivo primario per dare la giusta importanza al lavoro tangibile, mediante il quale assicurare un livello stabile dell'occupazione. La sfida per il rilancio dell'economia non può non passare attraverso la sconfitta della disoccupazione.

Israele insiste con le colonie nei territori

L'idea di autorizzare nuove colonie presso Gerusalemme est, eletta a propria capitale dai palestinesi, costituisce l'ennesimo passo falso dello stato israeliano. Perfino gli Stati Uniti hanno rotto il loro, ormai tradizionale riserbo, che stanno tenendo per le questioni israelo palestinesi, manifestando profonda contrarietà, attraverso le parole di Hillary Clinton. Benjamin Netanyahu insiste nella politica del doppio binario: parole misurate di fronte all'opinione pubblica internazionale, che propongono il riavvio degli eterni negoziati, ma fatti discordanti con quanto pronunciato, concedendo ai coloni sempre nuove opportunità di ampliare gli insediamenti. Obama fino ad ora ha tenuto un atteggiamento prudente, pur non condividendo intimamente l'attuale politica del governo israeliano, ha dovuto mantenere un atteggiamento di facciata per tutelare l'alleanza con Tel Aviv, anche in ottica elettorale. Tuttavia è evidente che la freddezza caratterizza l'attuale fase dei rapporti tra USA ed Israele. Nonostante queste cautele, caratterizzate dai profondi silenzi americani, la reazione USA al benestare per i nuovi insediamenti, segna un punto di svolta nell'atteggiamento americano. L'impressione è, che questa volta Israele abbia tirato troppo la corda, generando una reazione chiaramente inconsueta. Non si capisce, specialmente in questa fase cruciale, caratterizzata dalla richiesta del riconoscimento dello stato palestinese all'ONU, quale sia la strategia di Tel Aviv. Israele, infatti, è rimasto isolato nella regione e le simpatie che riscuote sul piano internazionale sono sempre meno; se l'attrito strisciante con l'amministrazione USA dovesse prendere una via più marcata, il problema per Tel Aviv sarebbe gestire un isolamento ancora più marcato. Netanyahu, probabilmente da per scontato che gli USA non abbandoneranno mai Israele e questo dovrebbe essere certo, ma anche in un quadro di alleanza vi sono gradi diversi. Se gli USA si stancano di vedere vanificati i propri sforzi, sotterranei per non urtare la suscettibilità degli israeliani, a causa del comportamento scorretto del governo di Tel Aviv, possono adottare un diverso atteggiamento, con una gamma estesa di conseguenze che possono andare ad esercitare una pressione, anche consistente su Israele. E' chiaro che la tattica del governo israeliano, che gran parte della popolazione non condivide, è di impiantare la maggior parte di insediamenti possibili sui territori palestinesi, per poi trattare, se mai si tratterà, da posizioni di forza, ancorchè illegali. La valutazione sulla bontà di questa tattica tiene conto di soli elementi interni, tralasciando gli effetti diplomatici che verranno e vengono provocati. Ma a questo punto devono essere gli USA e l'ONU a prendere in manola situazione e costringere, per il suo stesso interesse, Israele a cambiare atteggiamento sopratutto con i fatti.

martedì 27 settembre 2011

Francia: il Senato per la prima volta alla sinistra

A pochi mesi dalle elezioni presidenziali francesi, si è verificato un pesante rovescio per la destra francese, che, per la prima volta della storia, perde la maggioranza al senato. La sconfitta è particolarmente significativa perchè è maturata nei territori francesi più conservatori, situati nella Francia più profonda e contadina. Si tratta di zone che costituiscono il tradizionale serbatoio di voti per la destra francese e conservatrice e che hanno virato la loro preferenza elettorale verso sinistra. Il fenomeno segnala la profonda delusione dell’elettorato francese verso Sarkozy, da imputare, in special modo all’andamento della politica interna. Le difficoltà economiche, comuni a tutti i paesi dell’area euro, hanno determinato una situazione difficile, che si è riflessa anche negli aspetti e nelle dinamiche sociali della Francia. Il Presidente francese è conscio di questa difficoltà, anche se sul piano dell’azione economico politica, i suoi movimenti sono imbrigliati dalle regole dell’euro. Sarkozy aveva già previsto questa difficoltà, in vista delle elezioni presidenziali, che ha tentato di mascherare con una azione incessante in politica estera. Tuttavia l’argomento della “grandeur” francese non pare suscitare più gli entusiasmi di una volta, il popolo francese ha necessità più pressanti, che il prestigio internazionale. Nelle metropoli al problema economico si somma quello sociale, dato l’alto tasso di immigrazione, nelle campagne la crisi economica stravolge modi di vita sedimentati da anni. La percezione degli elettori francesi è di un governo avulso dai problemi reali del paese, che procede a tentoni nella ricerca delle soluzioni. Il cambio di preferenza avvenuto nelle zone più conservatrici del paese rappresenta lo stravolgimento di un paradigma dato per assodato, che prevedeva il totale asservimento elettorale delle zone più interne alle posizioni più conservatrici. Così non è più; non bastano più le idee di fondo, l’elettore si è evoluto ed ora sceglie i programmi che, con i risultati, meno possono discostarsi dalle esigenze elttorali; chi delude, non raggiungendo almeno obiettivi minimi viene scartato a favore di chi può fare meglio, anche se non rappresenta le idee più consone di chi vota. Questo è quello che hanno detto le elezioni del senato francese e con questi dati per Sarkozy la strada alla rielezione dell’Eliseo pare in forte salita.

P

Attentato al gasdotto per Israele e sue implicazioni

L'attentato al gasdotto egiziano che fornisce il gas ad Israele ed anche alla Giordania, segna un nuovo passo nell'isolamento di Tel Aviv ed un innalzamento ulteriore della tensione intorno alla frontiera israelo egiziana e dei rapporti tra i due stati. Israele aveva ragione di preoccuparsi della caduta di Mubarak, che assicurava una forte stabilità nei rapporti con l'Egitto, il problema è stato non adeguarsi alla mutata situazione politica maturata al Cairo. Avere mantenuto, prima un atteggiamento avverso e dopo un distacco dalla primavera araba egiziana, ha rinfocolato la tradizionale avversione araba allo stato di Israele. Malgrado le rassicurazioni dei militari egiziani, il popolo ha lasciato libero sfogo alle pulsioni, peraltro a lungo represse, contro Tel Aviv e culminate nell'assalto all'ambasciata israeliana. In verità ci sono stati episodi anche da parte di tel Aviv, che hanno contribuito a riscaldare la tensione, come l'uccisione delle guardie di frontiera egiziane, per errore, da parte di soldati dell'esercito israeliano. Quello che è mancato è stata una disposizione di Israele a rapportarsi in maniera differente con il nuovo stato, preoccupandosi, invece, di autoisolarsi in ottica difensiva, verso possibili aiuti, da parte dell'Egitto alla striscia di Gaza. La freddezza di Tel Aviv ha finito per essere un boomerang nei rapporti con l'Egitto, Israele doveva, invece, passare sopra alle proprie diffidenze ed aprirsi alla nascente democrazia fiorita la Cairo. L'atteggiamento miope, peraltro praticato su tutta la linea della politica estera, non ha prodotto risultati positivi per Israele, che, però, non pare avere imparato la lezione, insistendo in questa direzione ottusa. L'attentato al gasdotto egiziano rischia di avere pesanti ripercussioni per l'economia israeliana, che riceve dall'Egitto oltre il 40% del fabbisogno di gas e che con questo atto terroristico vede compromessa la stabilità delle forniture; l'ennesima prova della necessità della revisione della politica estera israeliana. Questo attentato non è, infatti da sottovalutare, perchè rappresenta la prova provata dell'isolamento in cui versa ormai Tel Aviv e dal quale deve velocemente uscire, per non restare impigliato in una ragnatela, che esso stesso ha creato.