Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

lunedì 21 novembre 2011

Il nuovo pericolo per la democrazia si chiama tecnocrazia

Passata la prima fase di euforia, sulla nomina del nuovo governo tecnocratico italiano cominciano a crearsi dubbi e domande. Il necessario cambio, praticamente imposto da una Unione Europea impaurita dalle possibili conseguenze di un crollo italiano, porterà nelle case dei cittadini del belpaese una serie di sacrifici, che non ne miglioreranno la situazione rispetto all'immediato passato. Si dirà, ed in parte è vero, che sono provvedimenti necessari ed investimenti per migliorare il futuro, tuttavia se il peso del risanamento continuerà a ricadere sulla stessa parte della popolazione, ciò dovrà essere, per forza, materia di analisi da parte dei burocrati di Bruxelles. Senza un'adeguata ripartizione dei sacrifici su base proporzionale della ricchezza manca uno dei requisiti principe per cui è nata la stessa Unione Europea: l'uguaglianza, sia in senso letterale, che in senso lato. Attualmente per l'Europa, appare sempre più chiaro, le questioni di fondo, quelle riguardanti i principi, sono rimaste indietro rispetto ai freddi numeri, l'urgenza di riportare a valori adeguati gli indici economici ha tralasciato il metodo sul come riportare entro binari prestabiliti i fondamentali economici. La percezione, da lontano, è che agli eurocrati, sia di matrice politica, che di matrice burocratica, interessi il solo raggiungimento del risultato, come se i numeri indicassero poi la reale conseguenza sulla maggior parte dei cittadini. Se questo è vero, lo è però, solo fino ad un certo punto: senza una equa redistribuzione della ricchezza e quindi un benessere maggiormente diffuso, l'efficienza dimostrata dai risultati vale poco, se non per garantire ulteriore benessere a chi già lo aveva. La questione è fondamentale per un analista di fatti politici, il nuovo governo italiano, che non gode, se non formalmente, ma non effettivamente, di una investitura democratica, è composto da si da tecnici, ma che provengono per buona parte da settori dai quali maggiormente si individuano le colpe della situazione attuale. Non che i nuovi ministri italiani siano, fino a prova contraria, tra chi ha causato la crisi, ma ragioni di opportunità avrebbero consigliato scelte differenti. Ma il silenzio, anzi l'entusiasmo, europeo su questa direzione intrapresa la dice lunga all'approvazione riservata ad un governo che costituisce un precedente pericoloso. A parte dubbi di natura di legittimità più che condivisibili, quello che l'Europa ha avvallato è un governo che vuole garantire una direzione ben incanalata da Bruxelles senza che il corpo elettorale italiano possa esprimere un parere vincolante. Il fatto negativo è che la UE eserciti una funzione non statuata nei confronti di un paese, colpevole finchè si vuole di leggerezza politica ed economica, facendo ricadere letteralmente la sua decisione dall'alto, pur con tutte le attenuanti di urgenza che hanno provocatola misura. Certamente le istituzioni italiane, fin dal Presidente della Repubblica, non sono state obbligate da un golpe militare, e pagano la scarsa competenza in materia economico finanziaria del precedente governo, ma in questo caso sono state ostaggio di Bruxelles. E qui si ritorna all'inizio di questa riflessione, le decisioni che andranno a subire i cittadini italiani, che sono è bene ricordarlo le vittime di questa situazione, giacchè non è vero come si dice che hanno vissuto al di sopra delle loro capcità, ma la verità è semmai il contrario (perlomeno per la maggiore parte di essi), saranno quindi frutto di una mancanza di legittimità, che potrà essere solo sanata da provvedimenti effettivamente tesi a stabilire una equità sociale fin qui mancata tramite una effettiva redistribuzione della ricchezza e delle opportunità sociali. Allora, se questo si verificherà, si potrà giustificare l'ingerenza europea perchè attuata in nome dei principi ispiratori dell'unione sovranazionale del vecchio continente, viceversa sarà solo un ulteriore passo verso la tecnocrazia totale, una forma più soft di dispotismo, ma sempre una interruzione di democrazia. Occorre prestare attenzione a questo possibile sviluppo della UE, l'Italia in questo senso può costituire un valido laboratorio per chi vuole portare la barra delle decisioni in mano agli esperti escludendo di fatto le decisioni di merito, quelle che solo la politica può portare.

sabato 19 novembre 2011

Kenya ed Israele si alleano contro Al Shabab (e contro l'Iran)

Tra Israele ed Iran non c'è solo il conflitto potenziale che ruota intorno all'atomica di Teheran, ormai tra i due paesi esiste tutta una guerra sotterranea fatta di alleanze ed aiuto ai reciproci nemici. L'ultimo caso riguarda la fornitura di supporto al Kenya nella lotta contro la milizia Al Shabab, che con frequenti incursioni dalla parte somala della frontiera, porta il terrorismo islamico mediante azioni militari ed attentati fin dentro il territorio di Nairobi. Lo scopo è formare una coalizione contro il fondamentalismo islamico, cui dietro si sospetta ci siano i concreti aiuti iraniani. L'alleanza conviene ad ambo le parti, per il Kenya la competenza militare e l'attrezzatura israeliana possono costituire un sostanziale rafforzamento della misure adottate schierata contro le milizie islamiche, per Israele il lavoro diretto sul campo può consentire un lavoro di intelligence in maniera di ricavare informazioni di prima mano, sia sull'attività di Al Shabab, che sui suoi canali di supporto, tra cui si sospetta la fattiva attività dell'Iran. Del resto la presenza della repubblica islamica nella regione non rappresenta un mistero, la marina militare iraniana pattuglia il golfo di Aden, ufficialmente per combattere la presenza della pirateria che sovente attacca le navi mercantili, durante la recente carestia il regime di Teheran ha donato alla Somalia una cifra attorno ai 43 milioni di dollari ed è diventato il principale partner commerciale del paese del corno d'Africa. E' logico che avere soldati e funzionari israeliani al confine di un paese dove certamente stazionano omologhi iraniani può diventare una fonte di confronto pericoloso e, se possibile di peggioramento della situazione regionale proprio tra Kenya e Somalia. Un aggravamento dei rapporti tra i due stati potrebbe causare una situazione molto più pericolosa sul fronte delle grandi migrazioni provocate dalle carestie ed in parte aggravate dall'atteggiamento delle milizie islamiche, che impediscono il fluire regolare delgi aiuti, indirizzando verso il Kenya grandi masse di disperati. E' una tattica usata per mettere in ginocchio il paese kenyano, aggravata ulteriormente dai ripetuti rapimenti avvenuti sul confine dei due stati, operati nei confronti di cittadini europei. Con queste tattiche Al Shabab prova a sfondare in Kenya e quindi ad allargare la sua zona di influenza e di conseguenza portare l'estremismo islamico nel paese di Nairobi. La zona è considerata particolarmente fertile per un possibile attecchimento del fondamentalismo islamico proprio per le grandi masse di somali, la cui gran parte è proprio di religione islamica, costretti a fuggire dalla fame e tenuti all'oscuro delle manovre di interdizione sui rifornimenti alimentari operati da Al Shabab. Per Israele è necessario cercare di bloccare questa tendenza proprio per togliere consenso alla nazione iraniana, che necessita di sempre un maggior numero di alleati, ma l'alleanza con il Kenya, al di la della necessità strumentale, significa anche dimostrare al panorama diplomatico mondiale, che Tel Aviv possiede ancora capacità di trovare nuove sponde con cui intessere rapporti internazionali.

mercoledì 16 novembre 2011

Mentre gli USA si rafforzano in Australia, si delinea il nuovo duopolio mondiale

Gli USA ridisegnano la loro strategia militare, che dovrebbe seguire al progressivo sganciamento, se ciò sarà possibile alla luce dei sempre nuovi sviluppi di politica estera, da Iraq ed Afghanistan. La nuova regione di importanza strategica ritenuta fondamentale è stata da tempo individuata nel continente oceanico ed in Australia in particolare, per fronteggiare quella che è la nuova superpotenza antagonista americana: la Cina. L'alleanza con il paese dei canguri procederà in maniera graduale con un invio di truppe dapprima contenuto e poi in incremento, fino a raggiungere un numero di effettivi intorno a 2.500. Obama ha sottolineato che sia USA che Australia sono due paesi tradizionalmente amici, che sono entrambi nel Pacifico ed hanno interessi comuni sia economici che militari. E' chiaro che l'obiettivo, neanche tanto occulto, di questo messaggio è Pechino, che d'altronde, ha accolto in maniera tutt'altro che favorevole l'iniziativa americana. Del resto per gli USA gli assetti del continente asiatico sono sempre più importanti, per la visione di Obama è preminente tutelare non solo gli alleati presenti nell'area come Giappone e Corea del Sud, ma presidiare anche le importantissime rotte commerciali del Pacifico per non lasciarne alla Cina il predominio. La presenza in Australia si configura quindi come presidio e base logistica degli Stati Uniti in una zona che sta accrescendo la propria importanza nella politica estera di Washington. Quello che si va a delineare è quasi una riproposizione dello scenario bipolare del secondo dopo guerra, mitigato però dalla presenza di altri attori sulla scena che limitano la preponderanza dei due soggetti principali. La UE, la Russia, l'India, il Brasile e la galassia dei paesi arabi che si sta formando a seguito dello sviluppo delle primavere arabe, costituiscono dei soggetti che possono fare pendere la bilancia da una parte o dall'altra, ma non sembrano avere sufficiente autonomia da diventare una potenza tale da inserirsi nel confronto del duopolio sino americano. Inoltre vi è tutta quella fascia di paesi emergenti, sia in Asia che in Africa che dispongono grandi risorse naturali capaci di condizionare i mercati e sui quali si gioca la partita delle influenze delle due superpotenze. La strada imboccata dai rapporti di forza tra i due stati che si pongono come guida del mondo, sia pure in maniera differente, si svilupperà quindi verosimilmente in una continua ricerca di alleanze che diventerà, entro certi limiti mobile, lo scenario non si baserà più su blocchi definiti rigidamente, ma attorno ad alleati più fedeli verranno creati nuovi legami meno rigidi. Un esempio di questa situazione in divenire potrebbe essere l'attuale Pakistan, che da una alleanza mai compiuta con gli USA, sta dirigendosi verso più stringenti rapporti con il colosso cinese. Nell'assetto mondiale che sta nascendo la caratterizzazione della fedeltà, sopratutto per i paesi che si affrancano dalla povertà più estrema, sarà frutto di opportunità da cogliere al volo per capitalizzare le proprie risorse all'interno dello scacchiere internazionale.

Euro ed Unione Europea non sono separabili

La vita della moneta europea è ad un bivio. Nata come collante preventivo all'unificazione politica del vecchio continente, è stata lasciata a se stessa, senza un governo effettivo che ne regolasse la vita e le funzioni, forse anche in maniera deliberata dietro a cui nascondere speculazioni e malfunzionamenti delle economie dei singoli stati. Tuttavia, pur con tutti i limiti imposti da una cattiva gestione, l'Euro ha fornito, fin dove ha potuto e comunque più delle singole monete statali, una protezione efficace contro gli effetti delle svalutazioni selvagge ed ha saputo contenere i valori a due cifre caratteristici dell'inflazione degli anni precedenti alla sua adozione. Certo non è una valuta ben vista da speculatori e finanzieri d'assalto, a cui si aggiungono in un'alleanza inedita, ma non troppo, i leader ed i seguaci dei partiti nazionalistici e localistici, che hanno riscosso tanto successo in Europa. Le ragioni, è logico sono differenti ma non dissimili, per i primi l'euro ha costituito un ostacolo alle manovre speculative generando un argine che purtroppo si sta sgretolando, per i secondi l'impossibilità di agire sulla leva della svalutazione ha impedito pericolose oscillazioni del valore e la conseguente instabilità monetaria. Non è quindi peregrina l'idea che dietro ai demolitori della moneta unica vi siano, oltre che gruppi tesi al mero guadagno, anche soggetti con obiettivi più politici riguardo al ritorno delle monete nei singoli stati. Ciò collima con chi è contrario all'Europa unita, delegittimare e quindi ridurre l'euro all'impotenza, significa stroncare anche l'unione politica fin qui tanto faticosamente costruita. E' una visione che pareva sopita ma rinasce grazie alle disgrazie della moneta unica, forse alimentate anche da chi non vuole l'unificazione europea. La scelta che si impone è un chiaro cambio di passo nella questione dell'importanza delle strutture governative sovranazionali, senza un potere accresciuto di Bruxelles nei confronti delle sovranità statali, la UE resta una mezza figura, facile preda di veti incrociati e senza alcuno sbocco definitivo. La crisi dell'euro, tra i tanti svantaggi, ha anche il pregio di potere mettere fretta a chi crede nell'unione politica, ma finora è rimasto in mezzo al guado, dato che per uscire dalla attuale difficile situazione occorre accelerare sulla preminenza degli strumenti comuni proprio riguardo alla gestione della moneta unica. Si è più volte sottolineato che il punto debole dell'euro è la mancanza di uniformità delle economie aderenti, soltanto quindi regole comuni dell'economia e della finanza possono portare aggiustamenti tali da correggere queste differenze. Ma queste decisioni che vanno ad impattare sull'insieme dei paesi aderenti alla zona euro sono prima di tutto decisioni politiche ed andrebbero quindi a costituire il nucleo fondante di provvedimenti comuni più ampi, tali da gestire una più efficace gestione sovranazionale, capace di integrare in tutte le sue forme l'Europa, come deve essere una federazione compiuta di stati. Però questo impone, finalmente scelte nette e definitive, da dentro o fuori, per tutti. Non dovrà esserci più posto per chi galleggia a metà ed usa l'Europa solo per allargare i propri mercati o intascare i sostanziosi contributi europei. Neppure dovrà esserci posto per chi non aderisce in toto alle istituzioni ma non alla moneta unica, i due aspetti sono inscindibili e non negoziabili, perchè una loro separazione significa mancanza di piena convinzione europeista. E' questa la sfida che devono portare a compimento gli europeisti cominciando l'opera di convincimento a livello locale, dove in definitiva si annidano i principali ostacoli.

martedì 15 novembre 2011

In Siria assalto alle ambasciate

Il regime siriano allarga la linea della repressione dai civili verso le ambasciate estere. L'escalation di Damasco segna un fatto nuovo nei fatti siriani, andando a colpire gli uffici diplomatici di Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Francia, colpevoli agli occhi del regime di condannarne l'operato. L'operato siriano sembra quasi un avvertimento in preparazione della riunione dell'imminente Lega Araba, quando si riuniranno i ministri degli esteri dell'organizzazione sovranazionale, che ha più volte condannato l'operato di Assad. Inoltre, per la Siria si aggiunge anche la posizione pesantemente critica della Turchia, che fino ad ora, pur condannando le violenze del regime di Damasco, non aveva ancora intrapreso passi ufficiali contro il governo. Ankara ha, infatti deciso la completa evacuazione di tutto il proprio personale diplomatico, andando così a sottolineare la completa incapacità di garantire la sicurezza del governo di Damasco alle legazioni diplomatiche. Il passo turco ha il significato di condannare esplicitamente l'amministrazione siriana ed i suoi metodi, gettando sul piano diplomatico tutta la propria importanza acquisita nella regione; tale mossa si completa con il prossimo incontro del ministro degli esteri di Ankara con i rappresentanti dell'opposizione siriana, vertice, peraltro che non rappresenta una novità, dato che si è tenuto già lo scorso mese.
Il mancato rispetto delle sedi diplomatiche in Siria, pare una tattica ormai consueta nella pratica repressiva attuata da Assad, che si concretizza con manifestazioni di appoggio al regime che finiscono per assaltare l'ambasciata di turno del paese che ha espresso o appoggio ai ribelli o reprimende per le repressioni governative. Perfino la sede dell'ambasciata dell'Arabia Saudita è stata violata, pur essendo a pochi isolati dagli uffici dello stesso Assad, una delle zone più sorvegliate della capitale siriana, fatto questo, che sta a dimostrare l'assoluto appoggio del regime alla pratica delle ritorsioni contro le sedi diplomatiche. La palese violazione delle consuetudini del diritto internazionale, che sanciscono il principio di extra territorialità delle sedi diplomatiche, rappresenta la grande difficoltà del regime ha governare sia l'opposizione interna, che quella, ritenuta ben più pericolosa, proveniente dal mondo diplomatico, sopratutto di matrice araba. La pressione su Assad proveniente dal mondo musulmano, specialmente sunnita, mentre l'Iran appoggia apertamente Damasco, ha una sua giustificazione nel timore di un allargamento a macchia d'olio delle proteste, già faticosamente represse proprio in Arabia Saudita ed Oman. Sopratutto Riyad preferirebbe che la situazione siriana andasse a normalizzarsi, anche con aperture che potrebbero essere causa di possibile emulazione di oppositori interni, con una uscita di scena del presidente Assad, in maniera tale da tacitare al più presto la questione siriana. Anche la Francia ha richiamato l'ambasciatore siriano affinchè il suo stato si attenga al rispetto dei reciproci obblighi dettati dal diritto internazionale, mentre si attende ancora l'azione dell'Unione Europea, nella speranza che le questioni economiche non distolgano Bruxelles dal proprio ruolo diplomatico.

lunedì 14 novembre 2011

Politica e mercato: invertire la rotta

Con l'insediamento del nuovo governo greco ed il prossimo insediamento di quello nuovo italiano si sancisce una sorta di sospensione della supremazia della politica a favore dell'economia. E' vero che ora ciò vale per una parte ridotta, per adesso, dell'occidente, ma in futuro la prassi potrebbe allargarsi. Per Grecia ed Italia si è comunque scelto all'interno del proprio ordinamento una soluzione più veloce di quella scelta da altri grandi malati dell'area euro, Irlanda e Spagna, infatti hanno optato per la soluzione elettorale, che preserva la democrazia fino in fondo, ma non assicura quella velocità di aggiustamento dei mercati che le situazioni di Atene e Roma, stanno richiedendo. Beninteso non si tratta di colpi di stato, la transizione governativa è o sta avvenendo, nell'alveo delle regole scritte dalle rispettive leggi fondamentali, pur essendo caratterizzate da dispositivi normativi dettati da una urgenza pressante. Quello che interessa rilevare è che l'influenza del mercato si è spinta talmente avanti da potere condizionare gli assetti politici di una nazione, non più in maniera occulta, ma in modo aperto e chiaro. Questo è un riflesso, innanzitutto di oltre vent'anni di teorie liberiste, che hanno imperato sull'economia, sull'industria, sulla finanza fino a sopravvanzare anche sulla politica. Alla fine la politica è stata vittima di se stessa, nella misura in cui ha favorito l'espansione delle teorie liberiste; l'attività politica si è come ripiegata su se stessa lasciando campo libero ad una sorta di autoregolamentazione, in realtà guidata eccome, dettata dal mercato, che ha generato una dialettica costruttiva sempre più flebile, in favore di un dialogo nel ruolo deputato alla democrazia, il parlamento, sempre più volgare e distante dalle modalità consuete dell'esercizio della vita democratica. Una politica sempre più distante dai cittadini e dalle esigenze della società ha finito per non essere più utile neppure a se stessa ed è stata scavalcata per la propria inefficienza. E' come se lo stesso mercato richiamasse ai suoi doveri la politica, rinnegando esso stesso le teorie liberiste, che avrebbero dovuto favorirlo. E' presto per dire se questa tendenza dovesse prendere campo in maniera ulteriore, tutto dipenderà dai dati economici e finanziari che si svilupperanno, un'altra nazione indiziata ad andare in questa direzione potrebbe essere la Francia, se il suo sistema bancario dovesse andare incontro a pericolosi sviluppi, tuttavia è ormai un dato sicuro che anche i governi più saldamente in carica, stanno mettendo a fuoco strategie di aggiustamento progressivo per non essere travolti da leggi del mercato che stanno cercando di cannibalizzare i sistemi politici. La ricerca di maggiore equità e la lotta stessa alle diseguaglianze più estreme che si sono sviluppate, rappresentano la migliore base di partenza per un ritorno da protagonista della politica nell'agone sociale, sia di ogni singolo paese che a livello più globale, ma dovrà essere una politica rigenerata al suo interno e maggiormente sensibili a quei temi che consentano la creazione di dighe efficaci affinchè non si ripeta mai più la deriva di questi anni.

venerdì 11 novembre 2011

Il rilancio della UE passa per la perdita di sovranità degli stati

Il potere di indirizzo delle istituzioni europee, in realtà della Germania ed in misura minore della Francia, si sta concretizzando, andando ad influire sulle scelte degli uomini che andranno a governare i paesi con maggiori problemi. Se per certi versi pare una invasione del concetto di sovranità, questa visione deve essere, invece superata, alla luce dei nuovi assetti imposti dalla presenza di organizzazioni sovranazionali ed anche dalle soluzioni richieste dalle situazioni contingenti. In realtà le due questioni sono intimamente legate, in un quadro generale di comunità degli stati è normale che se esistono dei problemi gravi in una parte, che oltretutto possono riverberarsi nella totalità, debbano essere ammesse delle "invasioni" in quella che era comunemente definita sovranità nazionale. Gli elementi che concorrono a superare il vecchio concetto sono, nell'attualità del momento, sia di ordine politico che economico, ma in un futuro anche prossimo potrebbero diventare anche di ordine militare. Tale processo, peraltro, dovrebbe essere una logica conseguenza dell'evoluzione, in senso compiuto dell'attuazione dell'Unione Europea da soggetto sovranazionale in soggetto nazionale, secondo le concezioni più tradizionali del termine. Ma ciò sarebbe vero in una situazione ottimale, puramente teorica, un caso da laboratorio politico, non inficiato da tutte quelle variabili di singolarità presenti in ogni singolo stato e rappresentate da istanze localistiche ed interessi limitati ad argomenti ristretti. Certo le modalità di cambio di governo in Grecia e prossimamente in Italia, devia da quella che dovrebbe essere una modalità, che seppure non ancora codificata, dovrebbe incentrarsi su indicazione, certamente non vincolante, dell'autorità di Bruxelles. Purtroppo, proprio la scarsa autorità politica di Bruxelles non può procedere ed allora la responsabilità ricade sul paese capofila dell'Europa: la Germania ed in maniera minore sulla Francia. Esiste una sostanziale differenza circa la leadership dei due paesi nei confronti dell'Unione Europea, pur avendo di fatto creato un direttorio a due, Parigi non ha le stesse prerogative e le stesse esigenze di Berlino. Infatti per la Francia, nonostante le pose e gli atteggiamenti tipici della grandeur, si tratta, in sostanza, di salvare un sistema bancario fortemente esposto ad una grande quantità di titoli tossici, che in caso di crollo provocherebbe l'implosione finanziaria dello stato. Per la Germania è diverso, pur mossa anche da mere esigenze di cassa e di salvaguardia del proprio mercato, è l'unico stato con gli indici in ordine e possiede quindi i titoli per esercitare un ruolo di guida, fortemente supportato e condiviso dalla classe politica, anche se esistono, al contrario, dubbi rilevanti nell'opione pubblica. Tuttavia un aspetto importante della preminenza tedesca è proprio il convinto europeismo del governo in carica. L'analisi di questi aspetti porta diritto alla questione del restringimento della sovranità, di fatto, per alcuni stati, principio che se ora è valido per alcuni potrà essere esteso anche ad altri, pure per casistiche differenti. Nell'area di una comunità di stati che aspira ad una unione ben più stringente della attuale, pur con tutti i distinguo e le resistenze da considerare, occorre accettare, in assenza di norme codificate, l'iniziativa di chi ha più titolo, anche in funzione di salvaguardia, anche suo malgrado, del membro in difficoltà, pena la fuoriuscita dal sistema comune. E' un punto di partenza forzato e forzoso, ma che costituisce, pur nella negatività del momento attuale, l'aspetto più positivo possibile per dare finalmente slancio ad una unificazione politica dell'Europa più completa e reale.