Politica Internazionale

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giovedì 19 aprile 2012

L'India dispone di un missile capace di colpire la Cina

Con il lancio sperimentale del primo missile indiano di classe intermedia, cioè con una gittata inferiore a 6.400 chilometri, dotato di capacità nucleare, Nuova Delhi completa quella che considera la propria strategia preventiva nei confronti dei possibili avversari regionali. Questo missile, infatti colma il vuoto difensivo nei confronti della Cina, avversario economico e politico, con cui i rapporti diplomatici sono tutt'altro che distesi. Il sistema missilistico indiano contava nel suo organico soltanto missili a corto raggio, con gittata entro i 2.500 chilometri, pensati per la possibile minaccia proveniente dal Pakistan, ora l'arsenale dell'India si pone direttamente al di sotto di quelli dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, che sono dotati di missili balistici intercontinentali capaci di sostenere una gittata oltre i 5.000 chilometri. Sul piano geopolitico mondiale non è una buona notizia: la proliferazione nucleare avanza ed il corso della storia sembra mettere indietro le lancette degli orologi, quando la pace mondiale si basava sull'equilibrio del terrore. La differenza era che gli attori direttamente coinvolti erano soltanto due, mentre ora la platea dei soggetti coinvolti è molto più vasta ed i soci del club dell'armamento nucleare rischiano di aumentare sempre di più. Ciò non può che comportare una minore stabilità, seppure latente, ed accrescere le possibilità di uso di questi armamenti, anche se la ragione maggiore della costruzione di questi missili è di natura preventiva, il solo fatto che una nazione accresca il proprio arsenale nucleare è fonte di irrigidimento diplomatico, aggravando spesso relazioni già difficoltose. Senza entrare nel caso più spinoso, costituito del confronto Israele-Iran, il missile indiano ha subito generato una piccata risposta diplomatica cinese, che parlava chiaramente di auto sopravalutazione della forza militare indiana. La Cina ha un arsenale ben più fornito e gli sforzi continui per ammodernare le sue forze armate, con investimenti ingenti, sono proprio una delle cause della corsa al riarmo nella regione, sia sulla terra che in mare, che coinvolge direttamente diversi paesi. Quando si verifica il successo di un test missilistico, la nazione che lo ha compiuto, per prima cosa si affretta a dichiarare che la nuova arma non è contro alcun paese e così ha fatto l'India, per evitare tensioni diplomatiche, specialmente con il vicino cinese. Ma il missile indiano non è che una parte dei cospicui investimenti militari operati da Nuova Delhi. Il governo indiano è convinto che il progresso economico della propria nazione debba essere tutelato da un sostanzioso rafforzamento delle forze armate, questo elemento non può non rappresentare una fonte di profonda preoccupazione per la stabilità mondiale. La politica estera indiana, tradizionalmente alleata agli USA, ha recentemente compiuto passi verso una autonomia non ancora ben chiarita, ma che tende ad un protagonismo regionale e l'assetto stesso dello stato indiano, che ha un ordinamento federale, spesso governato da forze in netto contrasto tra di loro, rappresenta elementi di profonda incertezza in relazione al possesso di tali armamenti. Anche il recente caso, che rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale, che sta purtroppo continuando, del sequestro della nave mercantile italiana e dell'incarcerazione di militari della stessa nazione per un episodio non chiarito, ma comunque avvenuto in acque internazionali, non depone a favore di una potenza che si vuole accreditare come pacifica. Ma aldilà di considerazioni di carattere più esteso, l'elemento di maggiore urgenza è il potenziale peggioramento delle relazioni tra India e Cina, che hanno in comune diversi chilometri di frontiera. I difficili equilibri commerciali tra i due paesi, sui quali si innestano politiche internazionali potenzialmente molto pericolose, come il sempre maggiore avvicinamento di Pechino ad Islamabad, possono costituire il detonatore di un progressivo aggravamento dei rapporti tra i due colossi. Al mondo serve tutt'altro che un nuovo confronto che aggravi la stabilità politica ed economica.

mercoledì 18 aprile 2012

Il caso Repsol: precedente pericoloso in una condizione globale difficile

L'atto della presidentessa argentina Kirchner, di rinazionalizzare i giacimenti petroliferi del paese a danno della società spagnola Repsol, che li aveva in concessione, dopo un pagamento di circa 13 miliardi di euro, obbliga a riflessioni che sconfinano nelle questioni degli equilibri geopolitici. La prima considerazione da fare è che la tempistica non è casuale, l'Argentina colpisce la Spagna in un momento di debolezza economica, aggravandone i fondamentali, che infatti sono immediatamente peggiorati. Sembra una vera e propria dichiarazione di guerra economica e diplomatica, che non può essere letta slegata dall'azione politica sulla questione delle Falkland-Malvinas intrapresa sulla stampa contro il governo inglese. Siamo di fronte ad un ulteriore tassello, costruito dal governo argentino, per portare avanti la propria strategia di distrazione dalla difficile questione interna. Tuttavia questo è solo un aspetto della più ampia e complessa questione. La valenza strategica delle risorse naturali impone continue scelte che variano gli assetti pre esistenti, sebbene questi siano regolati da accordi internazionali o semplicemente da accordi di tipo commerciale. Il governo argentino si trova nella difficile situazione di avere la materia prima ma non la tecnologia per lavorarla, in questo manifestando la assoluta arretratezza delle proprie infrastrutture, ma risolvere il problema semplicemente espropriando le raffinerie di un gruppo industriale estero, pone o meglio dovrebbe porre il paese in uno stato di totale inaffidabilità, oltre che esporlo a sanzioni e guerre commerciali. Ma questo è vero solo in parte, la Spagna attuale ha poche possibilità di fare valere le sue ragioni, per prima cosa proprio per la difficile situazione che sta attraversando e poi perchè, come paese esportatore avrebbe comunque degli ulteriori svantaggi ad intraprendere una azione commerciale contro l'Argentina, che è nei confronti spagnoli, paese importatore. Nemmeno la UE, può andare oltre le proteste formali, evidenziando ancora una volta l'impotenza dell'organismo, che è grande solo sulla carta e ben poche volte nella pratica. Resta il problema che di fronte ad altri potenziali partner stranieri, anche in campi diversi da quello energetico, l'Argentina dovrebbe entrare sulla lista nera dei paesi poco affidabili. Malgrado questa considerazione ovvia Buenos Aires non deraglia dai propri propositi, questo potrebbe significare che dietro la manovra della nazionalizzazione ci siano altre potenze o gruppi stranieri pronti a subentrare alla società spagnola e per la verità si sono già fatti i nomi di società russe. Ma anche se ciò non dovesse verificarsi e l'Argentina optasse per una gestione nazionale delle proprie risorse energetiche, nel panorama internazionale la manovra non ha destato grossa indignazione. Gli USA non hanno fatto alcuna dichiarazione e nei paesi latino americani è sempre più crescente il sentimento anti europeo nella misura in cui gli stati o le società del vecchio continente sono percepite non come portatrici di lavoro e di reddito ma come sfruttatori delle risorse e del lavoro di quelle che erano ex colonie, anche se da tempo si sono affrancate da questo stato. Tutto ciò non può che portare alla riflessione che la ricchezza mondiale deve essere divisa in modo diverso, sia sul piano internazionale che sul piano sociale interno ad ogni paese. Casi come quello della Repsol potrebbero aumentare proprio in ragione della maggiore difficoltà economica degli stati causata dalla congiuntura attuale, che obbliga i governi a racimolare le risorse disponibile dove sono, anche contravvenendo alle leggi commerciali. In fondo la Spagna è una potenza medio piccola che di fronte ad un caso del genere può ben poco, ma se ciò accadesse e potrà accadere, a potenze di maggiore peso e consistenza quale potranno essere le vie di soluzione? Quella che rischia di aprirsi è una fase difficile dei rapporti commerciali internazionali, perchè condizionati dall'alto debito pubblico di diversi stati e dalla difficoltà finanziaria della manovra dei governi. La soluzione Kirchner rischia di aprire una strada pericolosa e densa di elementi negativi, che si può prevenire soltanto con una ridiscussione globale degli effetti negativi della finanza mondiale, in modo da prospettare una soluzione sicura ma diluita nel tempo del problema del debito pubblico mondiale.

martedì 17 aprile 2012

Il pericolo di guerra tra Sud Sudan e Sudan

Dopo la difficile situazione in corso nel Mali, un'altro conflitto, che potrebbe però avere ben altre conseguenze, rischia di svilupparsi nel continente africano. Quello tra Sudan e Sud Sudan, dove la seconda nazione è nata per mezzo di un referendum democratico staccandosi dalla prima, è un confronto aperto che sta per scoppiare da mesi. Nonostante la prima impressione dopo l'effettuazione del referendum, fosse quella di una tranquilla transizione, sebbene precedentemente ci fossero stati anni di confronti militari, il mancato accordo definitivo sulle rispettive linee di confine ha lasciato una situazione potenzialmente instabile, che ora presenta il conto. Tutto ruota al fattore petrolio, determinante per l'economia dei due paesi, che restano comunque dipendenti l'uno dall'altro a causa del possesso del Sud Sudan dei giacimenti e del Sudan delle infrastrutture necessarie per il trasporto del greggio. Tuttavia con la perdita della parte meridionale del paese, Khartum, capitale del Sudan, ha visto diminuire la sua capacità estrattiva di circa il 75%. E' così diventato fondamentale cercare di inglobare all'interno dei propri confini la città petrolifera di Heglig, capace di una produzione di circa 115.000 barili al giorno. La città si trova nell distretto di Abyei, letteralmente a cavallo tra i due stati e spesso teatro di scontri tra le due fazioni. Va detto che un arbitrato internazionale riconobbe al Sudan i giacimenti di idrocarburi presenti a nord, est ed ovest della città di Abyei, insieme ad i siti petroliferi di Heglig, mentre al Sud Sudan si assegnò il controllo amministrativo del centro urbano di Abyei ed il campo petrolifero di Diffra. Alla città di Abyei veniva concesso però anche uno speciale status amministrativo che prevedeva l'effettuazione successiva di un referendum, attraverso il quale il centro urbano avrebbe dovuto scegliere di quale stato avrebbe fatto parte. Questo referendum non è mai stato indetto e rappresenta uno dei motivi che contribuiscono e rendere poco limpida la situazione, favorendo la disputa che potrebbe sfociare in conflitto.
Le dichiarazioni che provengono da Karthoum parlano espressamente del Sud Sudan come nemico ed il conflitto appare sempre più probabile, anche perchè le truppe del Sud hanno occupato Heglig, andando a violare l'arbitrato internazionale ma sopratutto colpendo in maniera pesante l'economia Sudanese, privandola dalla quota consistente di greggio proveniente dalla città occupata. L'aviazione sudanese ha così intrapreso una massiccia campagna di bombardamenti, che potrebbe aprire altri fronti di confronto bellico. Ma questa situazione, che in altri teatri sarebbe già sfociata in una dichiarazione di guerra aperta, non si evolve ed i due paesi ufficialmente sono ancora in pace. Entrambi temono che una guerra formale aprirebbe scenari difficile da controllare, sia sulpiano geopolitico che economico e quindi preferiscono proseguire su atti intimidatori isolati da un contesto più ampio, scaramucce di confine che dovrebbero, nelle intenzioni dei due contendenti provocare la desistenza dell'avversario. Una delle ragioni è il costo troppo elevato di una guerra su grande scale, che nessuna delle economie dei due paesi sarebbe in grado di sopportare. Ci sono poi le esortazioni delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea a trovare un accordo, anche per evitare pericolose ripercussioni sul prezzo del greggio in un momento particolarmente difficile per l'economia globale. I due soggetti sovranazionali dovrebbero adoperarsi di più per dirimere la questione, iniziando a mediare tra i due stati per quel che riguarda le problematiche economiche più immediate ma che costituiscono sempre un terreno minato. Il Sud Sudan accusa infatti il Sudan di rubare il proprio petrolio che viene trasportato nelle infrastrutture sudanesi, ma quest'ultimo accusa il primo di non pagare i costi del trasporto dovuti; a questo va ad aggiungersi la polemica sul mancato accordo della ripartizione del gettito fiscale circa i prodotti petroliferi, che occorre ricordarlo, vengono lavorati dal greggio del Sud Sudan in raffinerie sudanesi.

lunedì 16 aprile 2012

Osservazioni sugli attentati dei talebani a Kabul

La tradizionale offensiva di primavera, da parte dei talebani in Afghanistan, è partita in modo spettacolare proprio nel cuore della capitale del paese: Kabul. La capacità tattica dei talebani ha saputo coordinare un ventaglio di attentati portati ai centri nevralgici dello stato, alle ambasciate occidentale ed alle caserme della NATO. L'uso di kamikaze, votati alla morte, ha reso più difficile l'azione preventiva delle forze governative, anche se il fallimento dei servizi segreti, gli unici in grado di fornire informazioni tali da anticipare le mosse dei terroristi, appare in questi momenti significativa. Sono occorse ben diciassette ore di combattimenti, con l'appoggio dell'aviazione leggera americana, per avere ragione dei combattenti talebani, che hanno dimostrato una notevole capacità militare, anche al di fuori dei terreni montuosi, a loro ben più congeniali. Nonostante le lodi del generale americano John Allen, che comanda l'ISAF, alle forze regolari afghane, è chiaro che il teatro di guerra di Kabul non rappresenta l'intero Afghanistan. La capitale del paese, oltre ad essere un teatro urbano, contiene al suo interno arsenali e caserme, sia dell'esercito locale che di quello NATO, che consentono un presidio costante ed una conseguente reazione rapida ad eventuali attacchi. Non così nelle zone montagnose del paese, che comprendono valli impervie ed inaccessibili e dove le forze talebane possono contare anche sull'appoggio di gran parte della popolazione. Tanto è vero che neppure i potenti mezzi dell'esercito americano, come gli altri eserciti che nel corso della storia ci hanno provato, sono riusciti ad avere ragione dei combattenti locali. Tuttavia, se fino ad ora i combattimenti più feroci si sono svolti proprio nei territori di montagna, l'attacco diretto a Kabul può essere un punto di svolta nella strategia talebana ed insieme rappresentare la consapevolezza della propria forza. E' un nuovo elemento da non sottovalutare per il prosieguo delle ostilità e della vita stessa dello stato afghano come è stato ricostruito dal 2001. La posizione di Karzai esce indebolita da un attacco così diretto al cuore del paese e probabilmente gli USA saranno costretti a rivedere la loro strategia di uscita, prevista per il 2014; inoltre l'attacco militare compiuto in grande stile, significa anche il fallimento dichiarato delle trattative dei mesi scorsi. Sul tavolo del Qatar, erano puntate le speranze americane di lasciare un paese pacificato, con il coinvolgimento di almeno quella parte di talebani che pareva più disposta al dialogo. Proprio questa divisione tra le varie componenti della galassia talebana, potrebbe fare pensare che gli autori degli attentati possano fare parte della parte più oltranzista, che con una tale operazione ha cercato, ed ottenuto, una maggiore visibilità mediatica. In ogni caso è inconfutabile che la capacità di infiltrarsi e di compier atti terroristici proprio nei centri di potere raggiunta dai talebani risulta essere notevolmente accresciuta. Ancora una volta il lavoro dei servizi segreti, come rilevato dal presidente Karzai, non è stato all'altezza e continua a rappresentare il tallone d'Achille del sistema difensivo interno. Se ad un certo punto la politica di Obama, di puntare meno sull'impatto bellico e potenziare sia i servizi di informazione, che il contatto con il tessuto sociale, mediante la costruzione di scuole e di ospedali, sembrava produrre buoni risultati, ora si torna clamorosamente indietro ed il paese, oltre che meno stabile, risulta in preda ad una frattura insanabile tra centri urbani e zone montuose, dove la sovranità del governo di fatto è inesistente. La volontà di compiere atti che hanno una cassa di risonanza così ampia è anche quella di colpire l'immaginazione del popolo americano nel momento del voto imminente. I sentimenti del cittadino medio sono combattuti tra volontà di affermazione della super potenza americana e la paura di finire in situazioni analoghe al Vietnam ed all'Iraq. Ma Obama non può, per ragioni strettamente geopolitiche abbandonare Karzai, che senza gli USA è un uomo morto. Un paese di nuovo in mano ai talebani è fuori dai progetti americani, perchè potrebbe tornare ad essere un serbatoio importante per il terrorismo internazionale. La questione diventa quindi di difficile soluzione. Probabile che per il momento il programma di ritiro resti invariato, ma dopo le elezioni qualcosa potrebbe cambiare.

Il pericoloso nervosismo di Israele

Nel comportamento di Israele nei confronti degli attivisti internazionali, che si erano dati appuntamento per l'inaugurazione di una scuola palestinese a Betlemme per denunciare la politica del controllo dell'accesso ai territori da parte dello stato ebraico, si ravvisa un comportamento pericoloso per lo svolgimento futuro della questione palestinese e degno delle peggiori dittature e forse elemento peggiore un comportamento autolesionistico che non può che denunciare lo stato di profonda confusione di cui è preda il governo di Tel Aviv. Minacciare le principali compagnie aeree europee di ritorsioni in caso di imbarco di persone presenti sulla lista dei non graditi, significa andare contro ogni logica del buon senso. Anche chi non parteggia apertamente con la causa palestinese non ha potuto fare altro che rilevare come i metodi usati da Tel Aviv sfiorino, oltre che l'inopportunità, anche una fonte di potenziale attrito con diversi paesi, che pure sono alleati di Israele. Cosa teme Israele da una protesta che in fondo non è diversa da molte altre, portata avanti si, da organizzazioni di altri paesi e quindi con rilevanza internazionale, ma in cui sono protagoniste associazioni che si presentano palesemente filo palestinesi, quindi che non portano alcuna novità alla causa della Palestina? La sensazione è che in altri tempi Israele avrebbe lasciato fare la manifestazione, controllandola da lontano, ma senza esporsi in modo così marcato di fronte ad un panorama internazionale che è completamente allibito. Ma il senso di accerchiamento e la continua tensione per la questione iraniana, devono avere alterato in maniera significativa il metro di giudizio del governo. Occorre dire, che sia la politica del controllo degli accessi e sopratutto la politica degli insediamenti abusivi dei coloni israeliani nei territori palestinesi sono atti di forza illegittimi, che il governo di Benjamin Netanyahu compie sapendo di infrangere accordi precedenti, nonostante insista ad incolpare i dirigenti palestinesi di non volersi sedere al tavolo della pace. La strategia di pressione politica messa in atto da Mazen, con la pressante richiesta di riconoscimento della Palestina all'ONU, ha, di fatto, messo all'angolo Israele, entrato nell'occhio mediatico e diplomatico internazionale. Tel Aviv non sapendo fornire risposte flessibili a causa di una rigidità di fondo, ha inasprito la sua politica costrittiva contro i palestinesi, imboccando una strada senza uscita. Il punto cruciale è che ora Israele è al centro di questioni più ampie, per le quali la soluzione pacifica e definitiva del problema palestinese rappresenterebbe un grosso contributo proprio per trovare la stabilità almeno regionale se non di settori più ampi. Questa attenzione innervosisce il governo che non può continuare una politica repressiva lontano da occhi indiscreti ed anche una banale manifestazione, ma con partecipanti internazionali è capace di turbare la situazione a tal punto da creare casi al limite dell'incidente diplomatico. Il culmine, quasi comico, è stata la patetica lettera del capo del governo israeliano agli attivisti, dove con toni da dittatore paternalista si invitava a dimostrare contro la repressione siriana o quella degli oppositori iraniani; cose che comunque non escludono di manifestare per la Palestina. Il tentativo di fare distogliere l'attenzione su Israele per rivolgerla su altre questioni ricalca uno schema già usato proprio da quei dittatori sui quali Netanyahu chiede di rivolgere le attenzioni dei sostenitori palestinesi. La situazione nervosa del governo israeliano si rivela dunque molto critica ed è un fattore che non può che destare forte preoccupazione circa la questione del nucleare iraniano, dove Tel Aviv ha più volte manifestato la volontà di un attacco armato preventivo. Quello che ne potrebbe derivare non è prevedibile ed il fatto che un arsenale nucleare sia in mano a chi assume iniziative così platealmente contro producenti innanzitutto per il proprio paese nono può che aggiungere motivi di enorme preoccupazione.

venerdì 13 aprile 2012

La distorsione politica dei governi tecnici

Un mezzo, che in futuro pare dovrà aumentare sempre di più, per permettere di governare le crisi economiche e finanziarie, dovrebbe essere costituito dalla rinuncia di quote di sovranità nazionale a beneficio di organizzazioni sovranazionali. Detto così potrebbe significare soltanto, in un quadro politico e normativo certo, il mero trasferimento di delega, attraverso il comune esercizio del voto, da rappresentanze esclusivamente nazionali a rappresentanze sovranazionali, comunque in grado di garantire una rappresentatività democratica capace di gestire le situazioni sia di ordine esecutivo che legislativo, che il momento storico attraversato vorrà presentare, attraverso la politica, intesa come esercizio democratico. Se così fosse, gli unici a potere obiettare qualcosa contro questo ordinamento potrebbero essere coloro che si riconoscono in movimenti locali o nazionalistici, che non riescono a superare l'idea di patria o nazione e pertanto non condividono l'unione tra stati, pur accomunati da reciproci fattori comuni, capaci di aggregare nazioni diverse. Sono obiezioni legittime che fino a questo momento rappresentavano l'unico elemento di contrarietà ad una spinta propulsiva definitiva che portasse, ad esempio, al compimento del processo per gli Stati Uniti d'Europa. Le crisi finanziarie, oltre ai tanti fattori negativi che hanno portato, sia di tipo economico, che sociale, sono anche riuscite ad incrementare la sfiducia, che ha passato le frontiere dei partiti nazionalisti o dei movimenti locali, verso la politica di unione perchè questa è stata scavalcata in avanti dalla costruzione di forme di governo artificiali, che non hanno nulla in comune con i risultati scaturiti dalle urne elettorali. La piaga dei governi tecnici, che provengono alla fine, da quegli stessi ambienti che hanno determinato le crisi finanziarie, è stato il colpo finale che favorirà il sentimento dell'anti politica. Cittadini delusi da classi politiche incapaci e non all'altezza, sia morale che tecnica, mancante, cioè, della totale capacità dell'esercizio dell'amministrazione della cosa pubblica, si vedono ora vessati da personale di governo, calato dall'alto, che percorre scopi, senza alcuna discriminazione di tipo politico, senza cioè alcun apparente criterio di scelta, in nome di obiettivi da raggiungere attraverso il mero uso della calcolatrice. Politiche fiscali troppo pressanti che non tengono conto della necessaria crescita e che per questo saranno vanificate, sono percorse in modo ottuso e con pochi compromessi con quei soggetti politici che costituivano i tradizionali interlocutori del dibattito politico. Questo è già realtà per Grecia ed Italia ed il rischio che la pratica si allarghi ad altri stati è ormai una certezza. Ci si avvia verso un nuovo feudalesimo, se possibile peggiore delle dittature, dove il consenso non è necessario perchè ciò che legittima il potere è il solo fattore economico, un potere sordo ed impermeabile alle critiche, tanto da non doverle neppure considerare come elemento di disturbo alla propria azione, un potere che per ora mantiene i riti della democrazia in vita, ma svuotandoli dei loro reali significati e che in futuro potrà cancellarli come inutili orpelli perchè rallentano l'azione governativa. D'altronde è proprio il diffuso sentimento, in gran parte giustificato, di avversione alla politica che costituisce un fattore facilitante della diffusione della tecnocrazia: l'impressione di competenza ed anche di onestà che spesso ispirano i tecnici maschera molto bene il fatto che svolgano la loro azione senza investitura popolare ed anzi che questa possa diventare non più necessaria in un futuro prossimo. Anni ed anni di uso distorto dei media hanno favorito uno spianamento delle coscienze e delle consapevolezze proprio di quei ceti che più dovrebbero esercitare i loro diritti democratici e che ora, invece, sono proprio quelle parti sociali che più avvallano l'avvento dei tecnici, non rendendosi conto di esserne le principali vittime. In nome dela tecnocrazia è più facile cancellare diritti ed indebolire conquiste per cui si è impiegato anni: non è la parte politica avversa che li propugna per un particolare programma politico, ma sono soltanto gli effetti che permettono di raggiungere un valore complessivo che scongiura qualche punto in meno di un indice borsistico. Appiattendo il confronto, che diventa asettico e privo della dialettica necessaria a sviluppare il classico dibattito politico, il raggiungimento dello scopo è quasi indolore perchè anestetizzato dai freddi dati presentati senza un necessario corollario programmatico decisivo per la sua comprensione. Insomma senza una limitazione urgente del ricorso al governo di tipo tecnico si richia la perdita della democrazia senza neppure rendersene conto, occorre perciò trovare alternative che consentano di superare le tradizionali differenze ideologiche tra le forze politiche, anche con forme di coalizioni temporanee, ma non imposte dal mercato, che permettano di recuperare alla politica il ruolo che le spetta.

I comportamenti comuni dei dittatori e la necessità di anticiparli

Dalle ultime vicende emerge chiaramente come lo schema mentale dei dittatori si muova su binari comuni, con similitudini impressionanti. In genere fin dai primi episodi di ribellione la risposta scelta è fin da subito quella violenta, accompagnata con un silenzio sul fatto di cronaca. Se la repressione pubblica riesce, segue una fase di annientamento degli oppositori operata dalla polizia, più spesso segreta, con rapimenti che sfociano in utilizzo di mezzi coercitivi violenti, che spesso possono concludersi con la soppressione fisica del catturato. Se gli episodi di protesta si ripetono e riescono, come ormai la diffusione dei mezzi tecnologici permette con una certa facilità, a varcare i confini del paese, i media in mano alla dittatura si affannano a presentare le rivolte come atti terroristici tesi a destabilizzare la nazione, più spesso definiti come eseguiti su mandato di potenze straniere. La potenza di fuoco messa in campo per stroncare il dissenso è sproporzionata alla forza dell'avversario, che, a quel punto, deve sperare in un aiuto esterno, meglio se sotto la copertura delle Nazioni Unite. Così è stato per la Libia, ma il contrario sta avvenendo in Siria. Nella fase intermedia del processo di ribellione, che non parte mai in modo violento, ma sempre più spesso su impulso di uno svariato numero di persone, che sfidano il regime in luoghi pubblici, spesso eletti a simbolo della protesta stessa, come la famosa piazza del Cairo, il dittatore, se in difficoltà, non tanto per quanto riguarda la politica interna ma piuttosto per quella estera, inizia a fare promesse per guadagnare tempo, sperando che la situazione volga in suo favore. Spesso le altre nazioni, cadono nel tranello e concedono tempo prezioso alla riorganizzazione della repressione, con azioni parallele di politica estera che devono fare presa su possibili nazioni alleate, sempre per interessi particolari strategici, geopolitici o economici. A questo punto, di solito entrano in gioco le sanzioni, che provocano effetti immediati negativi sulla popolazione, andando ad aggravare situazioni già molto difficili. Per lo stato oggetto di sanzioni gli effetti entrano ad avere una qualche ripercussione non con tempistiche veloci, grazie a riserve accumulate, che permettono un certo margine di gestione della situazione. Sul lungo periodo, quando gli effetti delle sanzioni iniziano a produrre conseguenze anche per il regime, la tattica può diventare di inasprire ulteriormente la repressione o fingere concessioni, che in realtà servono ad accreditarsi ad una opinione pubblica internazionale, ma che non hanno alcuna ripercussione sui diritti rivendicati. Un aspetto comunemente rilevato è il ricorso ad individuare forze esterne, altre nazioni o organizzazioni terroristiche esistenti, ma che spesso non sono protagoniste dei disordini, come responsabili delle agitazioni che causano la repressione dei regimi. Ciò implica una volontà ben precisa di non accreditare un ruolo politico all'opposizione o alle opposizioni interne, perchè semplicemente all'interno delle dittature non deve essere riconosciuta la presenza di idee o comportamenti al di fuori degli schemi prestabiliti. Si dovrebbe così ottenere il duplice scopo di auto accreditarsi un consenso generale, che in effetti non è presente e nello stesso tempo, di non offrire la sponda al coinvolgimento di altri soggetti nella ribellione. Le nazioni democratiche che vogliono contribuire ad eliminare le dittature e che si trovano coinvolte nel teatro internazionale come soggetti attivi, insieme alle organizzazioni internazionali, spesso non tengono conto di questi schemi, ormai provati e così facendo non anticipano le mosse delle dittature, sopratutto in ragioni di interessi di stabilità, che al contrario vengono proprio intaccati da episodi repressivi. Il ruolo delle Nazioni Unite è ancora troppo bloccato da regolamenti troppo stringenti sull'autonomia di funzionamento, per cui le risposte fornite, quando ci sono, avvengono in modo tardivo. Il problema della violenza su popoli interi, oltre a generare naturali sentimenti di ribrezzo, deve essere anche visto in maniera tale da individuarne le possibili conseguenze in un mondo sempre più globalizzato e legato da sistemi di causa ed effetto che vanno a ripercuotersi nello normale svolgimento della vita di un qualsiasi stato democratico. Per tutti valga il triste esempio delle migrazioni dei popoli in fuga non solo dalla fame ma dalle guerre e dalle repressioni. Si è assistito, con la guerra libica, a movimenti ingenti di masse di rifugiati verso le coste europee, dove hanno trovato stati totalmente impreparati alla gestione del fenomeno. La migliore tattica dovrebbe essere una azione preventiva a livello politico, mediante aiuti ed assistenza, per favorire la transizione democratica pacifica che riguardi tutti quei regimi potenzialmente pericolosi per la stabilità mondiale. Non si tratta di un pensiero utopico, ma di un progetto a lungo termine che è un investimento per la pace e la stabilità mondiale, che può essere affrontato soltanto, come primo attore da una organizzazione internazionale.