Politica Internazionale

Politica Internazionale

Cerca nel blog

venerdì 22 febbraio 2013

L'atomica della Corea del Nord potrebbe rappresentare un pericolo ancora maggiore

Dopo il test nucleare effettuato dalla Corea del Nord e provato dalla registrazione di una scossa di terremoto di magnitudo 5, avvenuta a 100 chilometri dal confine con la Cina, continuano le misurazioni di radioattività da parte di USA, Giappone e Corea del Sud. Il fatto che non siano stata ancora rilevate tracce di radioattività non esclude certamente che la prova sia avvenuta, come hanno verificato i sismografi, ma pone interrogativi circa il materiale utilizzato per la bomba, che possono determinare, di conseguenza, i progressi nella ricerca e nel grado di tecnologia raggiunto da Pyongyang. Intanto una ipotesi della mancata rilevazione di particelle radioattive nell'aria, è che l'esperimento sia avvenuto all'interno di una sede protetta da formazioni rocciose ed in profondità. L'ammissione della Corea del Nord di avere fatto esplodere un ordigno miniaturizzato, quindi più leggero, ma con magiore potenza esplosiva, senza danni ambientali, incrociata con i dati del terremoto registrato in corrispondenza dell'effettuazione del test, fornisce una indicazione di massima agli scienziati, che consente di ipotizzare una potenza raggiunta di almeno 5 kiloton, superiore ai test nordcoreani precedenti, ma ancora lontano dai 20 kiloton raggiunti dalla bomba sganciata su Hiroshima. Tuttavia il punto cruciale è stabilire quale materiale ha effettivamente usato Pyongyang. Nei test precedenti si è certi che è stato usato plutonio, ma dalle indicazioni delle misurazioni questa volta all'interno della bomba potrebbe esservi stato uranio arricchito. Se ciò corrisponde al vero la notizia è preoccupante per due ragioni fondamentali: la prima costituisce la prova di un avanzamento tecnologico notevole, con potenziali implicazioni dell'esportazione della tecnologia raggiunta verso paesi interessati a dotarsi di armamenti atomici, fattore in grado di portare ulteriore instabilità nel mondo. La seconda è di ordine più strettamente militare, ma non meno preoccupante. Un ordigno costituito da uranio arricchito è più facilmente oscurabile ai satelliti spia e, come è stato detto, necessita di dimensioni minori, il che favorisce in maniera nettamente più facile il montaggio su missili a lungo raggio. Pyongyang dispone, in teoria, di testate missilistiche in grado di coprire 10.000 chilometri, un raggio sufficiente per arrivare a colpire il territorio statunitense; in pratica i test di questi missili non hanno mai raggiunto tale distanza esplodendo prima in volo, dopo essere stati colpiti. Nonostante questi insuccessi però, lo scorso dicembre utilizzando un missile analogo la Corea del Nord è riuscita a mettere in orbita un satellite. Tutti questi fatti hanno determinato un aumento della preoccupazione di Washington, che risulta essere il primo nemico della lista elaborata da Kim Jong-un, sulla base delle sanzioni inflitte al suo paese, proprio per la questione della nuclearizzazione nordcoreana. Con un paese ridotto allo stremo l'unica politica che il governo di Pyongyang è capace di elaborare, per ottenere gli aiuti necessari a mandare avanti la propria pur ridotta economia, è quello di dispiegare un apparato militare verso cui le risorse destinate appaiono sbilanciate rispetto al budget complessivo dello stato, un apparato militare che probabilmente è il vero detentore del potere nel paese e ne è la causa delle pessime condizioni di vita. Praticamente abbandonata anche dalla Cina, che non gradisce tale concentrazione mediatica ai suoi confini, la Corea del Nord sembra incrementare la sua politica di minacce come estrema risorsa di convincimento nei confronti dei soggetti che hanno decretato le sanzioni. Questa situazione ne costituisce un attore molto pericoloso, instabile ed anche imprevedibile, che crea allarme in una zona che ha assunto una importanza nevralgica nel commercio mondiale. Resta difficile credere che Obama resti indifferente ad una minaccia che è anche relativamente vicina al territorio americano, oltre a gravare anche su Giappone e, naturalmente, Corea del Sud. Il dispiegamento navale e le recenti manovre militari congiunte, che hanno visto la partecipazione dei marines americani, attorno alla Corea del Nord, vanno, appunto, viste in quest'ottica, anche se, probabilmente, non saranno che un anticipo di operazioni ancora maggiori. Gli USA, intendono così rispondere alle provocazioni nordcoreane, con una miscela di minaccia militare e l'aggravamento sanzionatorio, la tattica ha un alleato importante in Pechino, che intende risolvere la questione al più presto. Il pericolo, però, di un colpo di testa del regime di Pyongyang, maturato in un contesto fortemente instabile, rimane. Per Washington, che comunque è in possesso di tutti i sistemi di neutralizzazione antimissile, ora la corsa è contro il tempo, in modo tale da acquisire le conoscenze sufficienti sul grado di sviluppo della tecnologia della Corea del Nord, per adottare le adeguate contromisure.

giovedì 21 febbraio 2013

L'Italia a due giorni dal voto

Ormai prossimi alla scadenza elettorale italiana, cruciale per il paese, ma anche per l'Europa e l'intero occidente, la situazione nello stivale appare molto confusa ed il livello, sempre più basso, della campagna elettorale, contribuisce ad aumentare il senso di smarrimento nelle cancellerie. Partiamo dai sondaggi bloccati per legge da due settimane: fino a che sono stati resi pubblici si registrava un recupero dell'ex primo partito italiano e della sua coalizione di centro destra trainato dal ritorno sulla scena pubblica del leader della formazione Silvio Berlusconi, sulla coalizione favorita di orientamento di centro sinistra. Il premier uscente, Mario Monti, entrato nella competizione a sorpresa e contrariamente a quanto dichiarato, non pareva sfondare in un elettorato che lo ha percepito come autore di una politica vessatoria, malgrado gli apprezzamenti internazionali; la coalizione di centro capitanata proprio dal Presidente del Consiglio non era accreditata sopra il 12-15%, un risultato, che se confermato, sarà deludente per le attese di una fascia collocata al vertice della piramide sociale italiana, che confidava nella politica del governo dei tecnici, ma che potrebbe consentire un potere di ricatto nei confronti delle altre due coalizioni, in una posizione di ago della bilancia. Questa ipotesi apre allo scenario più probabile: la vittoria insufficiente del centro sinistra, che avrà bisogno della stampella di centro per potere formare il governo. Pare, invece, impraticabile la via alternativa verso una alleanza tra la formazione di Monti ed il centrodestra, sia per la presenza del partito a matrice antieuropea, la Lega Nord, sia per i toni accesi che hanno assunto reciprocamente Berlusconi e Monti, con lo scopo di guadagnare la fiducia dell'elettorato definito, spesso a torto, come moderato. Ma una alleanza tra il centro ed il centrosinistra, dove è presente una formazione più marcatamente di sinistra, Sinistra ecologia e libertà, guidata dal governatore della Puglia, Vendola, potrebbe causare la ripetizione dell'ultima esperienza del governo Prodi, quando per le incomprensioni per le componenti eterogenee dell'alleanza, l'esperienza di governo terminò anticipatamente, aprendo la strada all'ultimo governo Berlusconi, inviso ai maggiori paesi europei. Un tale quadro della situazione aprirebbe una fase di instabilità che non avrebbe altro epilogo che una nuova consultazione elettorale. Lo scenario fin qui presentato ricalca però la tendenza sia dei media, che degli istituti demoscopici italiani, che hanno sottovalutato la presenza degli altri movimenti in corsa ed in special modo l'impatto del Movimento Cinque Stelle, guidato da un comico, Beppe Grillo, capace di riempire le piazze con i suoi comizi, usando una strategia elettorale basata sull'uso del web ed, appunto, delle piazze, rifiutando il canale tradizionale della propaganda politica: la televisione. I programmi di Grillo non sono chiari, si tratta di un impasto infarcito di proposte populiste ed astio, ampiamente giustificato, verso una classe politica che ha dato ampie prove di incapacità e malgoverno, ma che, proprio per la facilità di comprensione del messaggio, stanno incrementando i consensi. Il Movimento Cinque Stelle rischia di diventare il terzo o addirittura il secondo partito del paese. Ad aiutare l'aumento del gradimento è stato lo svolgimento di una campagna elettorale, dove i partiti tradizionali hanno mantenuto il discorso sui programmi, solo nelle prime battute, per poi scadere di livello, trascinati in continui attacchi l'uno contro l'altro e promesse spesso antitetiche, quanto pittoresche, con quanto enunciato all'inizio della competizione. Si aggiunga che il coinvolgimento, seppure indiretto, in episodi giudiziari molto rilevanti, ha riguardato diverse formazioni politiche, andando ad accrescere e provare direttamente quanto sostenuto da tempo da Grillo nei confronti dei politici di professione. Nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle pur accreditato di un 15-18% è stato probabilmente sottostimato, non è dato di sapere se per imperizia o ad arte, ma attualmente, secondo le impressioni di vari osservatori, avrebbe una percentuale ancora più rilevante. Beppe Grillo, il leader del movimento, ha sempre rifiutato qualsiasi possibile alleanza con le forze poltiche tradizionali, ed un suo eventuale successo rappresenterebbe un ulteriore elemento di instabilità del sistema, forse ancora maggiore, che un eventuale accordo tra centro sinitra e centro, già di per se poco stabile, quasi per definizione. Questa situazione, che è forse il risultato più probabile delle urne, è ben presente alla platea internazionale, che nutre forti preoccupazioni per i riflessi negativi sulla moneta unica derivanti dalla non governabilità della terza economia della zona euro. I risultati a livello macroeconomico del governo dei tecnici guidato da Monti, hanno avuto l'effetto di tamponare una crisi che poteva trascinare dietro di se la moneta unica, ma non hanno sistemato in maniera strutturale l'impalcatura sempre traballante dell'economia italiana. Le scelte di forte compressione dello sviluppo attuate mediante una tassazione applicata in maniera oltremodo feroce, che ha ridotto potere di acquisto e capacità produttive, non possono essere tollerate da una società sempre più portata verso il basso, dove le forti tensioni sociali ne hanno minato la coesione. L'antipolitica, dei movimenti populisti, sembra abbia occupato gli spazi liberi lasciati dal fallimento delle forze politiche, a questo fenomeno si deve sommare il grande livello di astensionismo ed allontanamento dalle urne, che costituiscono la forma più diffusa di protesta verso il sistema dei partiti, che resiste all'implosione grazie ad uno zoccolo duro di affezionati, che tende, però, ad una sempre maggiore erosione. Sostanzialmente è questo lo scenario italiano a poche ore dalle urne, uno scenario giustamente preoccupante.

mercoledì 20 febbraio 2013

Israele: Tzipi Livni guiderà i negoziati con i palestinesi

In un Israele minacciato dall'Iran, dagli Hezbollah e dalla situazione siriana, l'incaricato a formare il nuovo governo, l'ex premier Benjamin Netanyahu, compie una scelta pragmatica per una possibile e sempre più necessaria soluzione della questione palestinese. L'incarico, che dovrebbe essere affidato, secondo gli ultimi accordi, a Tzipi Livni come Ministro della Giustizia, comprenderà anche la ripresa della conduzione dei negoziati di pace con i palestinesi. Si tratta di una scelta che può apparire sorprendente, la Livni ha avversato negli ultimi anni, l'azione di governo del Premier incaricato, dai banchi dell'opposizione, tuttavia per Netanyahu l'incarico alla nuova ministro è un passo obbligato per cercare di formare un governo che comprenda la maggior parte dei settori della società politica israeliana. Questa necessità è dettata dall'isolamento internazionale in cui il paese israeliano si è gettato, per le posizioni oltranziste ed oltremodo rigide, proprio tenute nei confronti della questione palestinese. La scelta della Livni, unita alla volontà dichiarata di mettere fine al conflitto con i palestinesi tramite la ripresa del processo di pace dovrebbe andare nella direzione tanto auspicata dagli Stati Uniti, di due stati per due popoli. Se le premesse sono queste il fatto è senz'altro positivo, anche se Benjamin Netanyahu ha spesso abituato a promesse non mantenute mediante sfacciati voltafaccia. L'attribuzione della direzione dei negoziati di pace ad un nuovo soggetto, rispetto agli assetti politici precedenti, come la Livni dovrebbe garantire però una intenzione sincera, non fosse altro che per la sopravvivenza del nuovo governo israeliano, necessaria per ridare stabilità ad un paese che ha il grande bisogno di risolvere le proprie questioni interne, legate all'economia in crisi e alla disgregazione del tessuto sociale a causa del declino della classe media, che soffre di una distribuzione del reddito sbilanciata. Ma la nomina della Livni, proprio perchè gradita ad Abu Mazen, USA ed Unione Europea, non è altrettanto apprezzata dai conservatori ed ultraortodossi, che restano comunque un alleato importante di Netanyahu. Il primo scoglio dell'azione della Livni sarà, infatti, la condizione essenziale posta dai palestinesi per riprendere i negoziati: la fine dei programmi di insediamento delle colonie nei territori palestinesi. Si tratta di un tema che suscita grandi reazioni in entrambe le parti e che Benjamin Netanyahu è ben felice di non trattare in prima persona e delegare ad altri. Su questa questione spinosa, potrebbe esserci la trappola per la Livni, che è pur sempre stata nel passato una rivale di Netanyahu e verso la quale l'ex capo del governo non può nutrire di colpo la piena fiducia, usata dal premier in pectore come soggetto sul quale scaricare un possibile fallimento dei negoziati e quindi riprendere la sua politica anti palestinese, con una piena giustificazione. Sulla reale sincerità di Benjamin Netanyahu sull'attuazione della definizione della questione palestinese da concludere con la formazione dei due stati, vi è infatti, più di un dubbio. Nella scorsa legislatura le occasioni, se non per concludere, almeno per arrivare ad un punto avanzato delle trattative ci sono state tutte, ma sono state puntualmente disattese con una politica repressiva ed arrogante contro i palestinesi, ampiamente sostenuta dai partiti ultraortodossi ancora presenti nella prossima coalizione di governo. Questa situazione di equilibri politici è però variata, grazie all'affermazione del nuovo partito di centro di Yair Lapid, meno propenso alle concezioni agli ultraortodossi. Il nuovo scenario politico israeliano riduce quindi i margini di manovra di Benjamin Netanyahu, che, tuttavia, potrebbe tentare qualche nuova invenzione per andare avanti nella politica degli insediamenti. Per capire le reali intenzioni del futuro capo del governo occorrerà attendere i reali spazi che saranno concessi alla Livni, tenendo presente che l'elettorato, pur guardando con attenzione alle questioni della sicurezza nazionale, ha espresso maggiore preoccupazione per i problemi interni, la cui soluzione passa anche attraverso la definizione della questione palestinese.

martedì 19 febbraio 2013

In Pachistan aumenta la violenza contro gli sciti

Gli episodi di violenza, che hanno provocato ben 89 morti, avvenuti in Pakistan, ai danni dell'etnia Hazara, di religione scita, annunciano un grave deterioramento all'interno dell'Islam, con conseguenze, che potenzialmente, possono provocare la deflagrazione di un conflitto di proporzioni immani. Gli autori degli attentati sono riconducibili ad aderenti al movimento estremista sunnita Lashkar-e Jhanvi, che non riconoscono gli sciti tra i componenti della fede musulmana. Nello scorso anno, in Pachistan, sono stati ben 400 i morti appartenenti all'etnia Hazara a seguito di attacchi causati dalla violenza settaria. Le persecuzioni si inquadrano in una strategia, che mira a conversioni forzate ed in ultima analisi alla trasformazione del Pakistan in teocrazia sunnita. In questo obiettivo al gruppo Lashkar-e Jhanvi, si affiancano Al Qaeda ed i Talebani, che godono di protezioni all'interno dello stesso governo di Islamabad. Occorre essenzialmente tenere presente due fattori che possono essere determinanti nella questione. La prima è il possesso di armamenti nucleari da parte del Pachistan. Si tratta di un aspetto fondamentale per gli equilibri regionali ed anche mondiali; il governo centrale, ancorchè corrotto ed inaffidabile, già ora, non riesce ad esercitare la piena sovranità sull'intero territorio sul quale esercita nominalmente il predominio legale; anzi ciò è vero soltanto nella zona immediatamente intorno alla capitale, nel resto del paese vi sono ampie porzioni di territorio in cui la legge è amministrata da bande locali o dai Talebani. In questa situazione trovano terreno fertile le azioni che puntano ad una legalità parallela, spesso fondata sul predominio etnico e religioso. Se queste pratiche dovessero diffondersi fino ad arrivare alle zone nevralgiche dei centri di potere, il pericolo che l'arsenale bellico cada in mano a gruppi radicali diventerebbe concreto. Il secondo fattore è che questi gruppi estremisti sunniti stanno intensificando la loro azione da circa un anno, per fare ciò hanno senz'altro avuto bisogno di finanziamenti, perlomeno per sostenere la lotta politica verso il regime teocratico. Trattandosi di sunniti non si può non pensare alle monarchie del Golfo Persico, che hanno ingaggiato da tempo una guerra non dichiarata contro l'Iran. Se questa influenza fosse malauguratamente vera sarebbe, altresì, impensabile la mancanza di una risposta da parte di Teheran, che ha fatto della tutela delle minoranze scite nel mondo, uno dei cardini della sua politica estera. Ecco delinearsi, quindi, il potenziale pericolo di un conflitto tutto interno all'Islam, che potrebbe coinvolgere una zona molto vasta che dall'Arabia Saudita, attraversa l'Iraq, l'Iran ed arrivi fino a Pakistan ed Afghanistan. Si tratta di un territorio strategico per l'economia mondiale perchè vi sono le più grandi riserve di greggio e costituisce un insieme di punti strategici per gli equilibri geopolitici. Difficile non credere che Washington guardi a questi episodi, che sono tutt'altro che avulsi da una visuale panoramica complessiva, senza la giusta preoccupazione. Del resto per gli USA, e per l'occidente, l'estremismo sunnita è ugualmente pericoloso di quello scita ed in una eventuale guerra di religione sarebbe veramente difficile assumere la scelta di un qualsiasi atteggiamento. Se si riduce, invece, la visuale, limitandosi al caso Pachistano, la comunità internazionale non può augurarsi l'instaurazione di una teocrazia opposta a quella iraniana soltanto perchè sunnita. Purtroppo le possibilità di riuscita che questo accada, perlomeno in parti singole del paese è molto alta: le elezioni in programma tra pochi mesi presentano un paese fortemente disunito, dove la povertà è fortemente aumentata in un contesto di difficile gestione della cosa pubblica da parte dello stato. Anche sul piano internazionale, l'alleanza con gli USA si è allentata per i ripetuti episodi di inaffidabilità delle istituzioni nella collaborazione nella lotta al terrorismo e l'inserimento cinese si è limitato ad insediamenti economici, senza abbracciare una visuale di collaborazione più complessiva, che non rientra nei piani di Pechino.

lunedì 18 febbraio 2013

L'Egitto distrugge i tunnel di Hamas

La politica inaugurata dal governo egiziano, del Presidente Mursi, di distruggere i tunnel sotterranei che comunicano con Gaza, pare muoversi in netta controtendenza, rispetto alle attese degli abitanti della Striscia ed ai pronostici degli osservatori internazionali, che prevedevano una politica preferenziale del paese egiziano verso Hamas. L'ascesa al potere dei partiti islamisti a Il Cairo, pareva indirizzarsi, seppure tra molti equilibrismi, in una direzione nettamente favorevole alla popolazione palestinese, suscitando la preoccupazione israeliana ed americana. In questo scenario l'apertura del valico, in superficie, di Rafah aveva già allarmato le forze armate di Israele per i possibili passaggi di armi. Parallelamente, però, il canale principale di comunicazione e, sopratutto, di passaggio delle merci, erano state le centinaia di tunnel, scavate con relativa facilità in un suolo particolarmente adatto allo scopo, presenti nel sottosuolo al confine tra Egitto e Striscia di Gaza. Costruiti durante il regime di Mubarak, i tunnel hanno permesso di aggirare il rigido embargo israeliano, che riguardava anche generi alimentari e medicinali, oltre ad altre svariate specie di materiali, tra cui quelli da costruzione e carburanti a prezzo decisamente minore da quello imposto da Tel Aviv. Si stima che le merci che giungevano dai tunnel rappresentassero circa un terzo del fabbisogno totale delgi abitanti della Striscia di Gaza. Chiaramente la natura del traffico di queste merci non era legale, trattandosi della violazione dell'embargo israeliano, si poteva inquadrare il fenomeno come una forma necessaria di contrabbando, conveniente, però a quasi tutti gli attori coinvolti nello scenario. I mercanti egiziani e palestinesi davano incremento ai loro guadagni, per le guardie di frontiera dell'Egitto era una fonte alternativa di guadagno e per Hamas una entrata fiscale vera e propria, in quanto le merci che attraversavano il sottosuolo erano soggette ad un regime di tassazione. Negli ultimi giorni, però, l'attività dei tunnel è stata fortemente compromessa dall'azione dell'esercito egiziano che ha provveduto a piazzare cariche di esplosivo, che ne hanno provocato il parziale crollo, assieme alla pratica di inondare le vie sotterranee, di fatto diminuendone la capacità del transito delle merci. La situazione economica di Gaza, già molto difficoltosa a causa di una disoccupazione che si aggira intorno al 50%, ha subito così un contraccolpo importante, che non poteva non essere stato valutato dal governo egiziano. Tali misure mettono in chiara difficoltà Hamas, che è al governo nella Striscia, e che aveva speso parole di elogio e di speranza per l'elezione di Mursi. Il Presidente egiziano, con questa mossa, pare, invece, avere sacrificato la parte più estremista, ma più affine al suo partito, del movimento per la liberazione della Palestina: Hamas. Le ragioni non paiono essere ben chiare, una motivazione potrebbe essere la pressione USA, dietro sollecitazione israeliana, di chiudere una via che possa permettere un passaggio di armi; in questo momento Tel Aviv è impegnata sul confine settentrionale a controllare la minaccia proveniente dalla dissoluzione siriana ed un eventuale risveglio militare di Hamas potrebbe creare problemi all'esercito per uno schieramento massiccio su due fronti contemporaneamente. I militari egiziani intendono mantenere buoni rapporti con gli USA e questo elemento potrebbe favorire la disponibilità con la quale si sono prestati al sabotaggio dei tunnel. Tuttavia, se queste ipotesi possono ritenersi concrete e verosimili, è altrettanto credibile che il presidente egiziano voglia accreditarsi sotto una luce particolarmente positiva alle potenze occidentali e filoisraeliane per distogliere l'attenzione dalla situazione interna del paese. Le feroci repressioni dell'opposizione, a causa dell'approvazione di una carta costituzionale fortemente sbilanciata verso posizioni di radicalismo islamico, hanno provocato parecchi dubbi sulla legittimità e l'affidabilità del nuovo governo dell'Egitto, peraltro democraticamente eletto. L'evoluzione politica interna del paese, ritenuto molto importante dalle cancellerie occidentali per l'equilibrio regionale, ha suscitato negli ambienti governativi de Il Cairo, un timore assoluto di essere relegato in un pericoloso isolamento dai paesi dell'occidente, condizione che aggraverebbe un tessuto economico già molto compromesso e che, è bene ricordarlo, è stato la causa scatenante della ribellione contro Mubarak. Mursi, che non vuole o non può cambiare la sua politica interna, sia per proprie convinzioni, che per essere ostaggio delle parti politiche più radicali, cerca di attuare strategie alternative che possano consentirgli accrediti ritenuti sufficienti presso la diplomazia occidentale. Con la distruzione dei tunnel il messaggio che si vuole fare passare è quello di combattere il terrorismo palestinese, ma se Israele potrebbe ringraziare per questa azione, è proprio dal fronte interno, nei movimenti più vicini al presidente egiziano, che possono venire i contraccolpi maggiori. La strategia è quindi di azzardo, perchè a Mursi potrebbe sfuggire il controllo dei gruppi contrari ad Israele, andando ad innescare un pericoloso cortocircuito proprio all'interno della compagine governativa.

venerdì 15 febbraio 2013

La prova del coinvolgimento dell'Iran in Siria

Il funerale di un generale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, i cosidetti Pasdaran, l'ala militarista più fondamentalista del regime di Teheran, rischia di diventare un caso diplomatico. Il militare sarebbe rimasto ucciso in Siria, mentre stava coordinando il trasferimento di razzi ed altri armamenti dell'arsenale di Assad in Libano, durante il raid aereo compiuto dall'aviazione militare israeliana del 30 gennaio. Questa versione è quella presentata dal portavoce dell'Esercito siriano libero, Fahd al Masri, che ha affermato che il generale stava agendo, nel trasferimento delle armi, per conto delle forze armate iraniane. Se ciò corrispondesse al vero, come numerosi osservatori sospettano, la posizione iraniana sarebbe diventata difficile, perlomeno sullo stesso piano di quella israeliana, tanto contestata da Teheran, al punto di minacciare ritorsioni contro Tel Aviv per l'azione compiuta sul territorio del migliore alleato dell'Iran: la Siria. Nella versione ufficiale, accompagnata dalla solita retorica del regime, che incolpa della morte del generale i mercenari ed i sostenitori del regime sionista, il militare sarebbe deceduto martedì scorso ed il nome fornito dalla televisione iraniana di lingua inglese, Press TV, è stato quello di Hassan Shateri, mentre l'Ambasciata iraniana a Beirut a fornito il nominativo di Khoshnevis Husam. In realtà si tratterebbe della stessa persona, in quanto il nome fornito dalla sede diplomatica dell'Iran in Libano, sarebbe il nominativo di copertura utilizzato per ricoprire a Beirut il ruolo di presidente della Commissione iraniana per la ricostruzione del Libano, una associazione fondata da Teheran dopo il conflitto combattuto tra Israele ed Hezbollah nell'estate del 2006, identificata come la struttura incaricata di fornire gli estremisti libanesi di armi. La vicenda costituirebbe così la prova del coinvolgimento, sempre negato, della Repubblica islamica iraniana, nella guerra civile siriana al fianco di Assad, per la verità un segreto niente affatto tale. I sospetti dell'attivismo iraniano nella guerra in corso in Siria, sono stati, peraltro sempre suffragati, dall'azione diplomatica di Teheran, tesa a preservare il governo in carica, perchè punto chiave nella strategia della politica internazionale dell'Iran. Esiste anche un precedente che ha coinvolto 48 membri dei Pasdaran, presi in ostaggio dai ribelli siriani, ma identificati dalle fonti iraniane come pellegrini. La vicenda, comunque, alzerà ancora di più il livello dello scontro sotterraneo, mai chiaramente ammesso da ambo le parti, tra Israele ed Iran, che si innesta nel contronto armato ancora da più tempo in corso tra i due stati per la questione del nucleare iraniano. Dal punto di vista internazionale, invece, la conferma del coinvolgimento diretto dell'Iran nella guerra siriana, non rappresenta una novità, se non per le potenziali conseguenze che Teheran potrà potenzialmente patire in termini di censura diplomatica, nel caso l'ONU intenda procedere in questo senso.

giovedì 14 febbraio 2013

Seul risponde a Pyongyang

Dopo il test nucleare nordcoreano, Seul ha risposto con il lancio di missili da crociera, durante una esercitazione. La gittata di questi missili consente il raggiungimento di qualsiasi obiettivo nella Corea del Nord, avendo un raggio massimo di azione di quasi 1.500 chilometri, che equivale circa al doppio della lunghezza dell territorio nordcoreano. Lo scopo dell'esercitazione è duplice: da una parte vi è un motivo di ordine internazionale, consistito nell'evidenziare a Pyongyang la capacità di fuoco sudcoreana, peraltro ben conosciuta, dall'altra parte l'atto è stato quasi obbligato da ragioni interne, per mostrare ad una popolazione allarmata, le capacità difensive nazionali e la disposizione della propria forza armata alla difesa della nazione. Per altro, dal punto di vista internazionale vi è un significato ancora ulteriore, oltre al segnale diretto verso Pyongyang, ed è quello inviato alla comunità internazionale, comunque già molto sensibile al problema. Seul sta dicendo in modo chiaro di essere pronto ad intraprendere azioni militari sia in risposta al test nordcoreano, che contro eventuali minacce provenienti dalla stessa parte settentrionale della penisola della Corea. Anche la tempistica scelta per fare presente al mondo intero della disponibilità di tali armi missilistiche, avvenuta in un momento di massima tensione nella regione, aggiunge motivi di preoccupazione per il panorama internazionale. Contemporaneamente le forze armate sudcoreane hanno svolto quattro giorni di esercitazioni congiunte con gli Stati Uniti, che mantengono la presenza di 28.500 militari, da impiegare nella malaugurata ipotesi di un attacco proveniente dalla Corea del Nord. Questa attività militare ha provocato la precisazione di Pyongyang, che pur ribadendo la propria capacità a fare fronte ad eventuali attacchi esterni, ha insistito sul bisogno del rafforzamento del proprio deterrente nucleare, più che altro contro gli USA, che guidano le forze ostili al paese nordcoreano. Siamo quindi di fronte ad un soggetto che non solo conferma la propria appartenenza al club nucleare, ma che ribadisce la propria necessità ad ampliare il proprio arsenale: una situazione ben diversa da quella dell'Iran, dove il governo, ufficialmente, ammette soltanto richerche nucleari ad esclusivi fini pacifici. In entrambi i casi si è adottato lo stesso mezzo di dissuasione, le sanzioni, che pur avendo peggiorato notevolmente la condizione di entrambi gli stati, non hanno sortito gli effetti desiderati. Con la fine della guerra fredda la proliferazione nucleare ha avuto un incremento che provoca, non più crisi globali ma crisi regionali, moltiplicando i potenziali conflitti. Resta il fatto che nessuno, se non qualche paese arabo, condanna Israele quale possessore di ordigni atomici ed analogamente neppure Cina, India e Pakistan ricevono censure per avere nel proprio arsenale bombe nucleari. Se la Corea del Nord può essere pericolosa, cosa dire allora di un paese come quello pachistano, dove esistono, spesso anche negli apparati governativi, tendenze collimanti con il radicalismo islamico. Ed in ultima analisi quale è il diritto di possedere tali ordigni di USA, Francia Inghilterra e Russia? La verità è che non si è fatto abbastanza per mettere al bando le armi atomiche sia dalle nazioni principali che dagli organismi internazionali. Accettare come legittimo il possesso di questi armamenti per Washington e non per Pyongyang, ha certamente delle basi relative valide, ma non ne ha in senso assoluto.