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sabato 17 marzo 2012
Afghanistan: errori ed evoluzione della politica estera USA
La situazione afghana rischia di arrivare ad un punto di non ritorno, che potrebbe mettere in seria difficoltà sia Obama, che Karzai. Il tragico avvenimento della strage dei civili da parte di un militare americano, inquadrato nella fredda contabilità dei rapporti internazionali, rappresenta soltanto un ulteriore elemento a favore di chi spinge per il ritorno del paese ad una situazione simile a quella vigente con i talebani al governo. D'altronde la sequenza temporale dell'abbandono del tavolo delle trattative in Qatar da parte proprio dei talebani, appena dopo la strage, non fa altro che dimostrare che essi non attendessero un qualunque pretesto per lasciare l'approccio diplomatico. Ma con i talebani svincolati dal processo di pace la prima conseguenza oggettiva è il fallimento della politica di Obama e di Karzai e quindi per l'Afghanistan il destino è quello di ritornare nel caos più completo. Sopratutto a perdere è la politica estera americana, ma non soltanto quella di Obama, anche quella precedente; infatti l'approccio essenzialmente militare, stemperato soltanto negli ultimi tempi da Obama, nal lungo periodo si è rivelato perdente perchè non ha saputo dare al paese asiatico la necessaria stabilità politica attraverso il presidio del territorio. Proprio su questo versante è stata la mancanza più grossa: puntare sull'esclusiva azione bellica, sopratutto nella prima fase, non ha permesso di debellare le formazioni talebane, molto radicate nel territorio, che sono rimaste a presidiare zone chiave da cui fare ripartire l'offensiva. Occorre riconoscere la suprema difficoltà che si erano dati gli USA fin dall'inizio delle operazioni militari: storicamente nessuno è mai riuscito vincitore dal confronto militare con le popolazioni afghane, ma proprio questo assunto doveva fare impostare diversamente la strategia, che doveva essere accompagnata fin dalla partenza da azioni alternative, sia dal punto di vista sociale che diplomatico. Non è azzardato dire che se Obama avesse avuto il comando dall'inizio i risultati potevano essere differenti, ma avendo ereditato una situazione da subito compromessa abbia operato aggiustamenti risultati insufficienti. Nel conto occorre mettere anche l'atteggiamento del Pachistan, che ha ondeggiato troppo spesso tra collaborazione ed ostruzionismo, praticando un doppio gioco che ha favorito essenzialmente le milizie talebane. Ciò a beneficio di quei settori politici presenti ad Islamabad che nutrono ambizioni di portare Kabul entro la propria sfera di influenza. In questo la diplomazia americana ha fatto diversi errori di valutazione, dovuti alla convinzione, in parte giustificata da necessità di equilibri di geopolitica, che il Pachistan fosse l'alleato chiave nella questione afghana. Su questa convinzione assoluta si è basata l'azione della politica estera USA, che non ha saputo elaborare strategie alternative in grado di potere praticare altre vie, ciò neppure quando è stato palese che Islamabad non era affidabile perchè tollerava sul suo territorio Bin Laden. Ben peggiore, però del fatto di avere il massimo simbolo del terrorismo internazionale all'interno dei propri confini, è la protezione che il Pachistan offre alle basi delle milizie talebane, dalle quali partono gli attacchi verso le truppe NATO. Di fronte a questa serie di fattori lo stesso Karzai, per non perdere consensi in patria, si deve dimostrare ostile agli americani, pressato da un lato dall'indignazione popolare, peraltro montata ad arte dagli estremisti islamici, e dall'altro lato, della sempre crescente influenza ed importanza dei talebani. Si inquadra nell'attuale scenario, che deriva da questi presupposti, la necessità della richiesta di tenere le truppe USA all'interno delle proprie caserme in Afghanistan, praticamente soltanto pronte ad essere impiegate in situazioni di emergenza. Se questo nuovo elemento può favorire il piano di rientro elaborato da Obama, nel contempo, ne fa registrare l'ennesimo sintomo del fallimento americano. Per analizzare obiettivamente la situazione che si è creata, occorre stabilire se l'Afghanistan può ancora rappresentare un problema sul palcoscenico del terrorismo internazionale, innazitutto per il mondo occidentale ed in ultima istanza per gli USA. La risposta è complessa perchè deve tenere conto di più elementi difficilmente prevedibili, che non riguardano soltanto l'aspetto essenzialmente del terrorismo, ma anche l'evoluzione delle nuove alleanze economiche che si stanno delineando nella regione. Se si può, se non considerare conclusa, almeno fortemente ridimensionata la minaccia di Al Qaeda, che poteva partire dalle zone afghane, non bisogna dimenticare che intorno a queste zone c'è sempre in ballo il difficile rapporto tra Pachistan ed India, con la Cina che sta percorrendo una strategia di incremento della propria influenza. Perdere il controllo per gli USA potrebbe volere dire abdicare all'uso di un potere di indirizzo che, inevitabilmente, andrebbe a beneficio di qualche altra grande potenza. Senza contare che venendo a mancare l'effetto stabilizzatore di Washington, pur con tutte le sue lacune, potrebbero aprirsi nuovi fronti capaci, con i loro effetti, di portare conseguenze destabilizzanti, ben oltre la regione. Il grande elemento che blocca una soluzione di qualsiasi tipo sono le incombenti elezioni americane, che obbligano Obama a temporeggiare, senza intraprendere soluzioni più drastiche per non causare risultati inattesi in grado di cambiare la percezione della politica estera del Presidente uscente sul corpo elettorale USA. Per ora la politica estera, rappresenta un punto di forza, ma le troppe questioni in bilico rischiano di invertire la rotta, con conseguenze negative per il voto a favore di Obama. Tuttavia la tattica eccessivamente temporeggiatrice del Presidente USA in Afghanistan rischia di essere deleteria per l'equilibrio del paese, senza una scossa che permetta a Karzai di riaffermare la propria autorevolezza, anni di guerra con vittime e notevoli costi economici potrebbero essere stati inutili.
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