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giovedì 15 marzo 2012
Per Pechino la necessità di riformare il proprio sistema politico
Per il sistema poltico cinese è arrivata la resa dei conti? La storia potrebbe presentare per la prima volta la riforma di un sistema politico di tipo rigido, come è il regime di Pechino, non con una rivoluzione violenta, ma per ragioni di economia. Il grande slancio economico cinese, con percentuali di crescita altissime, è nato dall'abbondanza di manodopera a basso prezzo, che ha favorito la delocalizzazione di industrie europee, americane e giapponesi, unito alla grande abbondanza di infrastrutture. Va anche detto che, l'assenza di molte regole sindacali, che potevano rallentare i processi produttivi in patria, ha rappresentato una ragione altrettanto valida per spostare la produzione sul territorio cinese. Tuttavia queste ragioni stanno venendo sempre meno, da un lato la grande crisi economica rallenta la produzione per mancanza di ordini, dall'altro la necessità di alzare il livello della merce prodotta impone un cambio di rotta, che prevede non solo un produzione orientata alla quantità ma necessita anche di aumentare il livello qualitativo dei beni. La Cina ha bisogno di non rallentare la crescita per non avvitarsi su se stessa e per non incorrere in una diminuzione della capacità di acquisto dei cinesi, fattore che ha contribuito non poco a contenere il senso di disagio già di per se elevato. Uno dei punti di debolezza del sistema economico cinese è la troppo elevata partecipazione statale nelle imprese, che blocca la concorrenza ed alimenta il pericoloso divario di diseguaglianza tra città e campagna, fonte di pericolosa instabilità sociale. Per fare ciò è però necessaria una fase di riforme politiche che permetta alla crescita economica di proseguire. In questo senso sembra andare il discorso del premier cinese Wen Jiabao, che ha ammesso la necessità e l'urgenza di riforme politiche. Occorre però non dimenticare che si parla pur sempre della Cina, e quindi le riforme annunciate non possono riguardare un completo sovvertimento dell'ordine presente. Tuttavia le esigenze dell'economia, aggravate dallo stato di crisi internazionale, premono per maggiori liberalizzazioni in senso strettamente politico, sarà quindi per i dirigenti cinesi un vero e proprio esercizio di equlibrismo, elaborare nuove soluzioni che si concilino con il partito unico e la necessità di dare maggiore concorrenza al mercato. Il premier cinese, d'altronde è un fautore di una trasformazione dei meccanismi elettorali interni al partito ed una soluzione sarebbe sottoporre al vaglio del corpo elettorale diversi candidati, di orientamento differente, sempre sotto il simbolo unico del Partito Comunista. Sarebbe già un avanzamento epocale per la rigida struttura di potere cinese, segnata da procedure ferree. Ma forse ciò andrebbe a costituire una variazione troppo traumatica per la stessa maggioranza dei cinesi, non abituati ad esercitare scelte del genere. Forse è più probabile, nell'immediato, un allargamento dei delegati chiamati ad esprimersi su un ventaglio più ampio di questioni, sarebbe una scelta più in linea con i comportamenti del potere cinese, anche se ciò rischia di essere insufficiente per ridare slancio all'economia. In ogni caso queste riforme non riguarderanno i dissidenti, che Pechino ha sempre il medesimo interesse a limitare: troppa libertà non aiuterebbe comunque la crescita economica.
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